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«Ci siamo dimenticati qualcosa?» domandò Eva Backman.

Era venerdì. Pioveva. Pranzarono da Kungsgrillen, lei aveva scelto filetti di aringa con marmellata di mirtilli rossi. Barbarotti mangiò carne all’aneto e patate.

«Dimenticato? Non so. Non mi ricordo.»

Eva Backman lasciò perdere. «Non possiamo continuare a lavorarci ancora per molto» dichiarò. «Non possiamo far finta di niente come al solito. Non c’è motivo di insistere, Asunander e Månsson sono stati chiari, no?»

«Scusa» disse Barbarotti. «Cosa avremmo dimenticato? Non abbiamo trascurato nulla, mi sembra.»

«Lo penso anch’io» ammise la Backman.

Barbarotti bevve un sorso d’acqua frizzante e si appoggiò allo schienale della sedia. «Ascolta, adesso» riprese. «Se davvero Grooth fosse stato ucciso, non troveremmo mai una prova scientifica. Probabilmente non sapremo mai chi è stato, e se dovessimo scoprirlo... se inciampassimo per caso nella soluzione, non riusciremmo a prenderlo. O prenderla.»

«Meno male che sei così ottimista» disse Eva Backman. «È quello che intendeva Månsson. Mancanza di prove scientifiche. Ma sarebbe stato interessante sapere com’è andata in realtà, non credi? Io trovo che sia irritante.»

Gunnar Barbarotti non rispose e continuò a masticare la sua carne all’aneto.

«Cos’hai?» lo incalzò la Backman. «Non sei curioso? Pensavo avresti risolto tu il caso, cazzo, perché anch’io sono stanca. Ci sei?»

Barbarotti deglutì e rifletté.

«Sto dalla tua parte» spiegò. «È chiaro che anch’io mi domando cosa sia successo. In entrambi i casi.»

«Bene» disse Eva Backman.

«Solo non capisco come dovremmo procedere. Abbiamo parlato due volte con tutti quelli coinvolti. Difficilmente potremo interrogarli di nuovo.»

«C’è una cosa a cui penso in continuazione» disse Eva Backman. «Ho il sospetto che ci stiano nascondendo qualcosa.»

«E cosa?»

«Non so. Sanno qualcosa, ma non vogliono parlarne. Ed è proprio questo il nocciolo della questione.»

«Continua» disse Barbarotti.

Eva Backman appoggiò le posate e si pulì la bocca con il tovagliolo. «Dunque. Erano in sei... o sette... all’inizio. Ora sono rimasti in tre. O quattro, se contiamo la Martinsson. I Winckler e l’ex sacerdote si sono messi d’accordo di non raccontarci niente. Come se fra loro ci fosse una specie di patto... cosa ne pensi?»

«Sembra un brutto copione cinematografico» commentò Gunnar Barbarotti.

«Magari la vita è un brutto film» disse Eva Backman. «Non avevamo parlato di un regista?»

«Certo. Ma perché dovrebbe essere un cattivo regista?»

Eva Backman ridacchiò. «Be’, forse è proprio così, ammettilo. Ma non divaghiamo. È sempre così quando si parla con te ultimamente. Come sta Marianne oggi?»

«Un po’ meglio» rispose Barbarotti.

«Mmm?»

«Va tutto bene, dicono, anche se non capisco come possa essere così stanca. Ti saluta e dice che vuole vederti presto. Durante il fine settimana, se hai tempo. Le ho spiegato anche di Grooth... ha detto che ne parlerà con te.»

«Fantastico» esultò lei. «Allora facciamo domenica pomeriggio, dopo che ho lasciato i ragazzi da Ville. Come è andata ieri con il pastore? Hai detto solo che non siete giunti a niente.»

Gunnar Barbarotti le riferì rapidamente dell’incontro con Rickard Berglund. O perlomeno ci provò. Non era facile ricostruire una conversazione così caotica.

«Alla fine abbiamo parlato di un sacco di cose» spiegò. «Forse c’entrano le circostanze. L’emorragia di Marianne, la morte di sua moglie. Non era... non era il momento giusto per interrogarlo. Forse ho sprecato un’occasione.»

«Ma che dici?»

Barbarotti fece spallucce. «Non lo so. Be’, forse non c’era nulla da scoprire. Ma non sono ancora riuscito a verificare il suo alibi. Controllerò in ospedale.»

«Era da sua moglie quel sabato?»

«Probabilmente. Ma non ricorda esattamente, è rimasto a vegliarla per oltre un mese.»

«Allright» disse Eva Backman. «Tu puoi controllare. Entrambi i Winckler hanno alibi deboli. Anche Elisabeth Martinsson. Cazzo, però è strano che non si possa escludere del tutto nessuno di loro, vero?»

«E lo stesso vale per trentacinque anni fa» aggiunse Barbarotti. «Sì, è davvero strano, viene da chiedersi se siano solo coincidenze. Cosa fai nel pomeriggio?»

«Esaminerò il resto dei verbali che mi hanno inviato i colleghi dallo Skåne» disse Eva Backman sospirando. «Saprò di più su Germund Grooth quando avrò incontrato Marianne domenica.»

Gunnar Barbarotti annuì senza commentare.



Mi sto rincretinendo, pensò Gunnar Barbarotti quando tornò nella sua stanza. Non mi riconosco più.

Forse ha a che fare con Marianne? Il dottor Berngren gliene aveva parlato. Si riguardi, lo aveva rimproverato. Non sono rari i casi di shock postraumatico in situazioni simili.

Si sentiva piuttosto istupidito. Lars lo aveva notato a colazione quella mattina. O era stato Martin? Buongiorno, papà, cos’hai in testa oggi?

Non si ricordava neppure se aveva risposto. Quando era in ospedale, accanto al letto di Marianne, si sentiva bene, almeno quando lei era sveglia. Forse avrebbe dovuto rimanere lì? Proprio come aveva fatto Rickard Berglund?

Ma non serviva a nulla stare là. Non sempre, in ogni caso. Era più utile a casa. Lui e Marianne avevano cinque figli di cui occuparsi. Doveva essere più presente. Soprattutto in una situazione come quella.

A partire da stasera mi do una regolata, decise l’ispettore Barbarotti. Basta con questa confusione. Il mio compito più importante è tenere unita la famiglia e preoccuparmi di loro. Devono accorgersi che mi interesso a loro.

Guardò l’orologio. Una e mezzo. Sbadigliò. Da una parte c’erano i rapporti di quattro diverse indagini da esaminare. Senza contare il caso di Gåsaklinten. Diede un’occhiata al mucchio di documenti senza troppo entusiasmo.

Sbadigliò di nuovo. Guardò fuori dalla finestra.

Il tempo non sembrava così male, notò. Aveva smesso di piovere e il cielo si stava aprendo.

Incrociò le mani davanti a sé sulla scrivania. Un giro in macchina? pensò. Dalle parti di Rödåkra-Rönninge? Buona idea. Tornare sul luogo del delitto. Il più classico dei metodi.

Passò davanti alla porta di Eva Backman senza farsi vedere. Cosa aveva detto? Quei tre nascondevano qualcosa.

L'uomo che odiava i martedì
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