30

Gunnar Barbarotti incontrò Tomas Winckler all’hotel Gothia di Göteborg, tre ore dopo aver parlato con Rickard Berglund a Kymlinge. Winckler era in città per affari. Si sedettero a un tavolo del ristorante al ventitreesimo piano, ognuno con un piatto quadrato di frutti di mare, davanti a loro il tramonto. Il colore del cielo, opaco e stranamente brillante, forse a causa dell’inquinamento e delle luci cittadine, ricordò a Barbarotti le ali di un moscone azzurro.

Tomas Winckler era fresco di doccia ed elegante. Aveva concesso un’ora a Barbarotti, poi lo aspettava un incontro di lavoro. Ma avrebbe parlato volentieri ancora con l’ispettore Barbarotti la settimana successiva, se fosse stato necessario. Naturale. La storia di Germund Grooth era a dir poco incredibile. Lui e sua moglie ne avevano discusso per ore.

«E cos’avete concluso?» chiese Barbarotti infilzando un gamberetto con la forchetta.

«Be’, che c’è da pensare?» ribatté Winckler. Fece spallucce e finse di riflettere. «Germund è sempre stato un tipo strano, ma nessuno si aspettava che sarebbe finita così.»

«Ah, sì?» disse Barbarotti. «Lei e sua moglie, come dire, non siete giunti a nessun’altra conclusione?»

Lo aveva colpito un’improvvisa ondata di antipatia. Winckler in qualche modo lo irritava, il vestito di buon taglio e l’abbronzatura fuori stagione. La sua pacata baldanza, la cortese professionalità. Ad esempio, perché soggiornava all’hotel Gothia se abitava a quindici o venti chilometri da lì? Una camera in un posto simile costava sicuramente più di un taxi, pensò Barbarotti mentre aspettava che il suo commensale finisse di masticare un pezzo di aragosta e formulasse la sua risposta. Molto di più.

«Be’, in realtà» riprese Winckler «non siamo rimasti molto in contatto con lui in questi anni. Come sa, qualche mese fa è venuto da noi in compagnia di una donna, una danese, non ricordo il nome... ma è stato un caso isolato. Ci frequentavamo ai tempi di Uppsala perché stava con mia sorella. Quando è morta abbiamo smesso di vederci. Comunque non abbiamo idea del perché abbia deciso di suicidarsi a Gåsaklyftan.»

«Intende dire che lo ha fatto per scelta?»

«Ci sono altre spiegazioni plausibili?»

Barbarotti non riuscì a stabilire se nella voce di Winckler ci fosse il benché minimo stupore. La sua lieve irritazione gli impedì di esprimere un giudizio.

«Ci sono alcune circostanze particolari.»

«Circostanze?» chiese Winckler. «Quali circostanze?»

«Non posso scendere nei dettagli. Come trentacinque anni fa, quando morì sua sorella... non è mai stata chiarita la dinamica dell’incidente, vero?»

Il viso di Tomas Winckler cambiò espressione, si fece più penetrante.

«Cosa sta cercando in realtà?»

Barbarotti infilzò un altro gamberetto. «Sono alla ricerca della verità» disse, cercando di sembrare modesto. «Tutto qui. Penso che entrambe queste morti siano molto strane. Ad esempio, ho letto l’interrogatorio cui l’ispettore Sandlin l’aveva sottoposta nel 1975. Lei dice di essere convinto che Maria non si sia tolta la vita... ed è anche convinto che non l’abbia spinta nessuno. Come faceva a esserne così sicuro?»

Winckler rimase fermo a osservarlo per alcuni secondi. Si rigirò un paio di volte sul polso il grosso orologio. Un Rolex, giudicò Barbarotti. Mezzo chilo, all’incirca.

«Proprio perché è inconcepibile» disse Winckler infine. «Del tutto inconcepibile.»

«Anche il suicidio?»

«Perché avrebbe dovuto farlo?»

Barbarotti diede uno sguardo alla città. «Le persone si uccidono. Ogni giorno. Spesso è una sorpresa per i parenti e gli amici.»

Tomas Winckler non fece commenti.

«Lei dunque non crede neppure che qualcuno l’abbia spinta?»

«Assolutamente no. È un’idea assurda.»

«E ora che il suo compagno di allora è stato trovato morto nello stesso posto, trentacinque anni dopo, il suo parere non cambia?»

Tomas Winckler bevve un sorso di vino bianco.

«No. Voleva morire dov’era morta lei. Non mi chieda perché.»

«Quando è venuto da voi con quella donna danese, ha notato se era depresso?»

«No. Io e mia moglie, come le ho detto, ne abbiamo parlato. Lui era un tantino enigmatico, ma è sempre stato così. Triste ed enigmatico.»

«Triste ed enigmatico?»

«Sì, più o meno.»

Barbarotti sospirò e cambiò pista.

«Ho riflettuto sul vostro gruppo. Dunque voi sei vi frequentavate... vi conoscevate bene... poi, dopo quello che accadde a Maria, vi siete persi di vista. Giusto?»

«Grossomodo. Ma non posso dire che ci conoscessimo così bene. Forse qualcuno fra noi. Io e Rickard... all’inizio.»

«All’inizio?»

«Sì.»

«Eravate un gruppo molto unito a Uppsala?»

«Per qualche anno sì.»

«Tutti lasciarono Uppsala nello stesso periodo, giusto?»

Winckler si appoggiò allo schienale della sedia e rifletté. «Più o meno, come le dicevo. Ma è normale, si studia qualche anno e poi si va per la propria strada. Io e mia moglie ci trasferimmo a Göteborg nell’agosto del 1974, mi sembra che Rickard sia entrato nella sua parrocchia all’inizio del 1975... e Maria e Germund si trasferirono a Kymlinge nell’estate dello stesso anno. Tutti e due avevano ottenuto una supplenza, sì, qualche mese prima che accadesse.»

«Lei è nel settore del turismo, vero?»

Winckler annuì.

«Dalle informazioni in mio possesso risulta che lei aprì un’agenzia di viaggi nel 1972. Fallì nel 1974. Kvalitetsresor AB. È corretto?»

Winckler rise. «Sì. Era una cosa da studenti, in realtà. Pensata per i viaggi nell’Europa dell’Est, all’epoca erano di moda. E per i viaggi a basso costo in Svezia... ma è vero, andò a finire in niente dopo un paio d’anni.»

«Perdeste molti soldi?»

«Un po’, ma non molti.»

«Lei continuò nello stesso settore?»

«Ho lavorato in banca un paio d’anni. Poi abbiamo fondato la TW-resor. Col tempo ci siamo ingranditi.»

Sorrise all’idea di quel successo. Umilmente, ma non senza orgoglio. Barbarotti bevve un sorso d’acqua e guardò verso il bar, dove due donne dalle gambe lunghissime avevano appena preso un drink rosso con la cannuccia. Non mi piacciono le persone di successo, pensò. È un’amara verità.

«Lei ha detto che Germund Grooth era un tipo strano. Potrebbe dirmi qualcosa di più in merito?»

Winckler guardò il Rolex, come per decidere se avesse il tempo per chiarire.

«È sempre stato un tipo originale» spiegò. «Io e Gunilla lo pensavamo fin da allora. Posso immaginare che con gli anni sia diventato una persona strana, aveva difficoltà nei rapporti con gli altri. Non ne sentiva il bisogno, a quanto ne so. Aveva un grande talento naturale, avrebbe potuto avere successo nel campo della ricerca, ma forse gli mancava qualcosa... non so. Era interessante, non posso negarlo. Ed era il tipo giusto per Maria, in un certo senso... anche lei era una ragazza particolare.»

«Particolare?»

«È difficile descriverla. Era mia sorella, eravamo molto affiatati... be’, era speciale, senza dubbio.»

Speciale? pensò Barbarotti irritato. Non riesce a trovare parole migliori per descrivere la sorella morta?

«Quella sera in canonica» gli chiese, «il giorno prima dell’incidente, vi incontraste solo per cenare insieme o c’era dell’altro?»

Aveva sparato alla cieca, e Winckler non cadde nella trappola.

«Dell’altro?» chiese alzando le sopracciglia innocentemente. «Non so proprio di cosa stia parlando.»

«Ho letto gli interrogatori dell’ispettore Sandlin» proseguì Barbarotti. «Ci sono dei punti interrogativi.»

Che stupidaggini sto dicendo? pensò. Capirà che sto bluffando.

Tomas Winckler rifletté per qualche secondo.

«Non so a quali punti interrogativi si riferisce» riprese. «Fu una cena qualsiasi. Forse non molto riuscita, ma comunque un modo per incontrarsi. Non ci vedevamo da un anno, più o meno.»

«Come mai non vi siete più incontrati dopo? Voi cinque, intendo.»

«Mi ricordo che abbiamo incontrato i Berglund qui in città, sei mesi dopo, direi. E abbiamo cenato con loro ancora una o due volte... ma molto tempo fa. Non ci siamo tenuti in contatto.»

«Però lei e Rickard Berglund eravate molto amici a Uppsala?»

Winckler annuì serio. «Molto» confermò. «Abbiamo fatto il servizio militare insieme, sì, io e Rickard eravamo davvero buoni amici.»

A Barbarotti parve di cogliere nella voce del suo interlocutore un tono di rimpianto. Tomas Winckler sembrava dispiaciuto per qualcosa che era andato perduto.

«Perché non vi siete più visti? C’era una ragione?»

Tomas Winckler scosse la testa. «Non lo so davvero. Credo che mia moglie Gunilla e Anna Berglund non avessero molto in comune. Eravamo io e Rickard a frequentarci. Germund era sempre un po’ in disparte, in un certo senso, ma Maria era mia sorella, e in quegli anni... era naturale che ci frequentassimo. Tutto qui. La vita è così: certi amici restano, altri si perdono lungo la strada.»

Prima di parlare Gunnar Barbarotti guardò per un istante il cielo bluastro. «Da quanto tempo non ha notizie di Rickard Berglund?» chiese.

«Ci mandiamo un’e-mail ogni tanto» spiegò Tomas Winckler. «Forse un paio di volte all’anno. So che Anna è malata di cancro, probabilmente non le resta molto da vivere... ho ricevuto un’e-mail da lui all’inizio di agosto, gli ho risposto subito.»

«È in contatto con Elisabeth Martinsson?»

«Chi è?»

Di nuovo Barbarotti non capì se lo stupore fosse reale o studiato.

«Elisabeth Martinsson era presente quando morì Maria, trentacinque anni fa, ricorda?»

«Ah, già, si chiamava così. Non l’ho più incontrata.»

«Capisco» annuì Barbarotti. «Cos’ha fatto sabato scorso tra le dodici e le sedici?»

«Come?»

«Le ho chiesto cos’ha fatto sabato scorso nel pomeriggio.»

Tomas Winckler bevve un sorso di vino e rigirò ancora una volta il suo Rolex.

«Perché diavolo lo vuole sapere?»

«Routine» chiarì Barbarotti. «Non voglio trascurare niente.»

«Non capisco cosa stia cercando» ribatté Tomas Winckler.

«Comunque potrebbe rispondere ugualmente alla mia domanda» propose Barbarotti. «Quindi?»

Winckler rifletté qualche secondo. «Al mattino ho giocato a golf» disse. «Al pomeriggio ero a casa.»

«Qualcuno può confermarlo?»

«No, accidenti» disse Tomas Winckler. «Adesso sta esagerando.»

Fece per alzarsi, ma Barbarotti gli accennò con la mano di risedersi.

«Non c’è motivo di agitarsi» disse, concedendosi un sorriso cortese. «Comprenderà che se Germund Grooth è stato davvero ucciso, dobbiamo informarci su cosa stessero facendo le altre persone al momento del fatto.»

«Ucciso?» esclamò Winckler lasciandosi andare sulla sedia. «Che cazzo dice?»

«È una possibilità» disse Barbarotti. «Non crederà che sia qui per indagare su un caso di suicidio?»

Tomas Winckler non rispose.

«Può dirmi se è rimasto a casa da solo tutto il pomeriggio?»

Winckler strinse le mandibole un momento, ma non fece commenti. Barbarotti aspettò paziente, ma dopo mezzo minuto il suo commensale si alzò, si abbottonò la giacca e lasciò il ristorante a passi decisi.

Interessante, pensò Barbarotti. Anche se è un dannato modo per farmi pagare il conto.



Siccome doveva sborsare seicentosessanta corone, rimase seduto e finì di mangiucchiare l’insalata di crostacei fino all’ultimo pisello. Nel frattempo telefonò a Marianne per dirle che l’amava, che era un mezzo idiota, ma che l’amava con la sua metà sana, e che sarebbe arrivato a casa alle sette e mezzo, che avrebbe preparato una fantastica cena per tutta la banda perché finalmente era venerdì sera. Se lei avesse comprato tutti gli ingredienti e la banda fosse riuscita ad aspettare così a lungo.

Gli rispose che lei lo amava con quasi il sessanta per cento della sua parte sana e che avrebbe discusso della cena con la gioventù svedese.

Quando un momento dopo attraversò la hall, fece in tempo a vedere Tomas Winckler uscire dall’hotel in compagnia di una donna impellicciata, e capì perché non avrebbe preso un taxi per Lindås dopo l’incontro di lavoro a Göteborg. Era una spiegazione assai più semplice di quanto avesse pensato.

Bene, si disse Barbarotti. Non immaginavo che ci fosse un bastardo dentro quel completo di Armani.

Ma non era proprio l’abito di Armani la caratteristica comune a tutti i bastardi di questo mondo? pensò pure. Il loro segno distintivo, per così dire. Ma era il momento di fare un bel passo indietro e allontanarsi dal fangoso terreno del pregiudizio.



In auto verso Kymlinge, Barbarotti si rese conto di non aver verificato l’alibi di Rickard Berglund per le ore in questione. Tomas Winckler aveva giocato a golf durante la mattina, ma sul pomeriggio era stato piuttosto vago. L’ora della morte di Germund Grooth non era stata stabilita con esattezza, tra le dodici e le sedici di sabato 25 settembre. Non era possibile essere più precisi, secondo il patologo Ritzén. Era il 1º ottobre, e Barbarotti notò che era passata una settimana. Avevano lavorato al caso cinque giorni e, a essere onesti, non era emerso molto per supporre che qualcuno avesse spinto giù dal burrone il professore di Lund. Quel giorno erano venuti a galla alcuni dubbi, ma era normale quando si interrogavano le persone. Ci si imbatteva in un punto interrogativo, in una reazione inaspettata, o in qualcuno che usciva da un hotel in compagnia di una donna sconosciuta. Ma questo non significava essere sulle tracce di un delinquente. Naturalmente no.

Del resto, se c’era un delinquente doveva esserci un delitto. Trascurando tutte quelle anomalie irrilevanti, nulla portava in quella direzione.

In ogni caso era venerdì sera. Decise che da quel momento iniziava il fine settimana, e che fino a lunedì mattina non avrebbe dedicato un solo pensiero a Germund Grooth o a Gåsastupan. O al passato sentimentale di sua moglie.

Ma in quel maledetto gruppo qualcosa non lo convinceva affatto. Se ne sarebbe occupato per prima cosa quando sarebbe stato di nuovo dietro la sua scrivania al commissariato di Kymlinge.

Gli alibi degli altri, ad esempio. Sperò che se ne fossero occupati Eva Backman e gli altri colleghi. E che nello Skåne la Backman avesse scoperto qualcosa.

Ma prima veniva il fine settimana. Lucília do Carmo e cinquanta minuti di fado, tanto per cominciare. Il languido dolore portoghese.

L'uomo che odiava i martedì
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