32

Andarono nell’appartamento in Prennegatan alle nove e dieci di venerdì mattina. Era il 1º ottobre e il tempo era cambiato, la Backman pensò fosse arrivata l’estate di San Martino. Mentre faceva colazione in hotel aveva ripensato alla possibilità di recarsi a Copenhagen per cercare informazioni su Kristin Pedersen, ma più per il cielo blu e il clima mite che per l’indagine. Un bel piatto di carne e un bicchiere di vino rosso in uno dei locali di Gråbrödretorv verso sera, ecco cosa le frullava in testa.

E poi sabato di nuovo a casa. Non avrebbe dovuto occuparsi dei figli fino a domenica, perciò aveva tempo.

La cena con l’ispettore Gustav Ribbing era stata piacevole. Forse era quello che le stuzzicava l’appetito. Forse l’aveva corteggiata un po’, ma lui aveva almeno dieci anni meno di lei, perciò non lo aveva incoraggiato. Era stata allegra e si era divertita. Aveva bevuto due bicchieri di Sancerre con la sogliola e un po’ di moscato con la crème brûlée. Era un tantino brilla, ma niente di più. Aveva cercato di pagare la sua parte, ma lui non glielo aveva permesso. Si erano separati in Grönegatan, a pochi metri dal Concordia, appena prima delle undici.

Un abbraccio veloce, nient’altro. Neppure uno sguardo un po’ più lungo che lasciasse intendere una domanda inespressa.

Ecco com’era la sua vita sentimentale in quel momento, aveva pensato prima di addormentarsi. Non aveva una vita sentimentale.

In Prennegatan erano in compagnia dell’ispettore Larsson.

Due stanze e cucina. Camera da letto e studio. Il salotto con un Bang-Olufsen e millecinquecento libri. Non molti mobili oltre alla libreria, un tavolino di vetro e due poltrone con l’intelaiatura di acciaio, decisamente spartano. Un balconcino sul cortile interno. L’ispettore Larsson spiegò che la casa era stata costruita nel 1936 e che era di proprietà di un’associazione di condomini. Nel complesso sedici appartamenti, quello di Grooth era al secondo piano, ed era uno dei più piccoli. Lo aveva comprato nel 1995, lo stesso anno in cui era stata fondata l’associazione. In precedenza lo aveva in affitto.

Era tutto pulito e in ordine. Il letto era ben rifatto, in giro non c’era niente, né vestiti né giornali vecchi. La lavastoviglie era vuota. Solo un mucchietto di posta sul tappeto dell’ingresso. Eva Backman pensò che l’appartamento aveva pressappoco l’aspetto di quando si rientra da un viaggio.

O almeno come si vorrebbe che si presentasse sapendo che la polizia ci entrerà. Dopo essersi tolti la vita, magari.

Si domandò se Ribbing avesse pensato la stessa cosa, ma non glielo chiese. In ogni caso non trovarono lettere di addio. In camera da letto vicino al computer era sistemato un calendario da tavolo. Eva Backman lo aprì alla settimana giusta. C’era un’unica annotazione, ma significativa.

Almeno così pensò lei.



Venerdì 1º ottobre.

Parigi. Kastrup 10.30



Guardò l’orologio e fece un cenno a Ribbing, che era appena entrato nella stanza.

«Guarda qui. Avrebbe dovuto andare a Parigi tra un’ora.»

«Cosa?» domandò Ribbing. «Che cazzo significa?»



Discussero sul significato di quell’appunto per una decina di minuti. Benché ne sarebbe bastato mezzo. Per lo meno secondo Eva Backman. Perché diavolo prenotare un viaggio a Parigi una settimana dopo essersi uccisi?

Sia Ribbing che Larsson si sforzarono di trovare una risposta sensata alla domanda, ma alla fine rinunciarono.

«Non si è tolto la vita» ricapitolò Ribbing. «Dev’essere andata in modo diverso.»

«Già» disse Larsson nel suo accento del Nord. Era nato a Skellefteå, e anche se viveva nello Skåne da trent’anni non aveva imparato il dialetto locale. «Sembra proprio così. Almeno che non sia caduto in depressione all’improvviso, cazzo.»

«Non ti viene la depressione se stai per andare a Parigi» osservò Ribbing. «Cos’altro abbiamo per pensare che si sia tolto la vita?»

«Niente di niente» disse Eva Backman. «È questo il problema.»

«E se fosse stato un incidente?» ipotizzò Larsson.

«La sua compagna è morta nello stesso posto trentacinque anni fa» spiegò la Backman.

«Porca miseria» ribatté Larsson e si sistemò il tabacco da masticare sotto il labbro.



Rimasero là più di un’ora. Rovistarono nei cassetti e nell’armadio in cerca di qualcosa che potesse chiarire perché il proprietario dell’appartamento, il sessantaduenne professore di fisica Germund Augustin Grooth, si fosse ucciso a Gåsaklyftan, Rönninge, nel comune di Kymlinge. Quasi una settimana prima e a più di cinquanta chilometri da casa.

Non trovarono niente, ma presero il computer – un portatile abbastanza recente, che purtroppo non riuscirono a sbloccare malgrado l’ispettore Larsson sostenesse di avere un talento da hacker – e confiscarono il calendario. La Backman lo aveva sfogliato dalla prima all’ultima pagina, non c’erano molte annotazioni. Comparivano di tanto in tanto due nomi di donna, Kristin e Birgitta, sempre con accanto l’indicazione di un orario – e h-g e Rex; si poteva supporre fossero colleghi di Grooth. Almeno la Backman arrivò a questa prudente conclusione.

Speriamo che il contenuto del computer sia un po’ più utile. Tutti e tre espressero questa ottimistica valutazione, e la Backman promise di fare un salto al commissariato di polizia di Lund nel pomeriggio dopo pranzo per raccogliere informazioni, ed eventualmente portare il pc a Kymlinge.

Dopodiché si separarono: Ribbing e Larsson tornarono in commissariato, la Backman salì al piano superiore e suonò alla porta dell’ottantaduenne signora Zetterlund. La donna era già stata avvertita di quella visita.

«Non sento molto bene» iniziò a dire la vedova Zetterlund. «Ma ho una vista da aquila e un fiuto da segugio. Caffè?»

«Grazie, volentieri» rispose la Backman.

«È della Zoega, non è troppo forte?»

«Va benissimo» disse la Backman.

«Come?» chiese la signora Zetterlund.

«Mi piace molto lo Zoega» spiegò l’ispettore un po’ più forte.

«È bello sentirglielo dire» continuò la Zetterlund. «Non c’è caffè migliore nel Brasile del Nord, diceva sempre mio marito. Si accomodi pure in salotto, la raggiungo fra un minuto.»

Ci volle un po’ prima di arrivare al dunque, ma dopo qualche frase di circostanza, una tazza e mezzo di caffè e quattro o cinque dolcetti, la padrona di casa prese l’iniziativa.

«Mi spiace molto per il professor Grooth. Era il miglior vicino che si potesse avere.»

«Ah, sì?» disse Eva Backman. «Be’, dovrei farle qualche domanda a proposito della sua morte.»

«È stato ucciso?»

«Ucciso? Perché mi chiede se è stato ucciso?»

«Di questi tempi se ne vedono di tutti i colori» rispose la signora Zetterlund. «La gente viene uccisa in continuazione. Con ogni genere di arma.»

«Non sappiamo esattamente com’è morto Germund Grooth» ammise l’ispettore. «È per questo che stiamo indagando.»

«Capisco» disse la signora Zetterlund. «In ogni caso è un peccato che sia morto. Era un brav’uomo. Un professore.»

«Mmm» disse la Backman. «Si ricorda quando lo ha visto l’ultima volta?»

«Quando è morto?»

«Pensiamo sia morto sabato. Sabato scorso.»

«Sì, non l’ho visto per tutta la settimana» osservò la signora Zetterlund. «Allora quadra. Ma non mi dirà che era...?»

«Sì?»

«Morto nel suo appartamento da sabato scorso?»

«No» disse Eva Backman. «È stato trovato in un altro posto.»

«Un altro posto?»

«Proprio così. Riesce a ricordare quando lo ha visto l’ultima volta?»

La signora Zetterlund si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. «Mi sto concentrando» spiegò.

«Capisco» disse la Backman e attese.

«Venerdì sera» rispose la signora Zetterlund e aprì gli occhi. «Certo, l’ho visto quando è tornato a casa venerdì scorso. Quindi una settimana fa, sì, mi ricordo.»

«Venerdì sera» ripeté la Backman. «E come fa a esserne sicura? Mi scusi se glielo chiedo, ma dobbiamo...»

«Sicura come l’amen in chiesa» la interruppe la signora Zetterlund. «Mia sorella era qui. Ci vediamo sempre di venerdì per giocare a carte. Una volta da me e una da lei. Questa sera è da lei. È malandata, anche se ha solo settantasette anni. Osteoporosi, ha preso poco calcio in tutta la sua vita.»

«E quindi avete visto Germund Grooth? Mentre giocavate a carte venerdì sera?»

«Esattamente. Eravamo sedute davanti alla finestra, giocavamo a whist giapponese, come sempre, vinco quasi sempre io, penso che Sylvia abbia poco calcio anche in testa... o forse troppo... sì, forse è così. Ecco cosa facevamo. Be’, Grooth stava arrivando dalla strada ed è entrato nel portone. Credo di aver detto a Sylvia che il professore stava tornando a casa... sì, ho proprio detto così.»

«Più o meno che ora era?» chiese l’ispettore.

«Le nove e un quarto» rispose la signora Zetterlund.

«Come fa a saperlo?»

«Perché avevamo guardato il quiz På spåret. Finisce alle nove. Poi abbiamo preso il tè e le tartine, ci saranno voluti dieci minuti... e distribuito le carte... sì, non avevamo ancora iniziato. Giochiamo fino alle undici, poi chiamo un taxi. Sì, è tornato a casa alle nove e un quarto... minuto più, minuto meno. È importante?»

«Mi basta sapere che erano più o meno le nove e un quarto» disse la Backman. «Era solo o in compagnia?»

«Era solo» rispose la signora Zetterlund. «Solo con la sua cartella, se non mi sbaglio. Ce l’ha sempre con sé.»

«Mi sembra che abbia una buona memoria» disse Eva Backman e bevve un po’ di caffè Zoega.

«L’unico difetto è l’udito» spiegò la signora Zetterlund. «Ma lei parla bene a voce alta, è peggio con le persone che borbottano. È come se non volessero farsi capire.»

Eva Backman rifletté. «E sabato non ha visto Grooth?»

«No.»

«Vive solo, come sa. Riceve spesso visite?»

«Intende donne?»

«Ad esempio.»

La signora Zetterlund chiuse ancora gli occhi. Per cinque secondi.

«In tutti questi anni l’avrò visto con un paio di persone.»

«Donne?»

«Sì. Non parlavamo di questo?»

La Backman annuì.

«Una l’ho incontrata qualche volta. Penso sia danese. Una volta mi ha persino salutato. L’altra... be’, solo in un’occasione, usciva dal suo appartamento mentre passavo. Scura. Sicuramente non danese, un tipo mingherlino.»

«Quando è stato?»

«La mingherlina?»

«Sì.»

La signora Zetterlund fece spallucce. «Due anni fa... forse tre. La danese si vedeva più spesso. Ed era più bella. Certo avrà avuto dieci anni meno di lui, ma Grooth era in forma, molto in forma.»

«Grazie» disse Eva Backman. «E cosa mi dice delle sue conoscenze maschili?»

«Penso di non aver mai visto un uomo da Grooth» spiegò la signora Zetterlund dopo aver chiuso gli occhi un paio di secondi. «No, non che mi ricordi. Era una persona solitaria. Ma un gentiluomo, lo voglio sottolineare. Carino e ordinato. È un peccato che sia morto.»



Interessante profilo di Germund Grooth, pensò Eva Backman dopo aver lasciato Prennegatan. Un gentiluomo carino e ordinato. Peccato che sia morto.

Quindi, se le informazioni della signora Zetterlund erano corrette, era tornato a casa alle nove e un quarto la sera del 24 settembre. Il giorno seguente, sabato 25, meno di ventiquattr’ore dopo, giaceva morto a Gåsaklyftan, a cinquanta chilometri da lì.

Cos’aveva fatto in quel lasso di tempo?

Quando e perché era andato a Kymlinge?

Come?

E soprattutto, perché? Perché, per la miseria?

Si sedette su una panchina della zona pedonale. Tirò fuori il telefonino e chiamò Sorgsen.

«È pronto il traffico telefonico di Grooth?»

L’ispettore Sorgsen glielo confermò. L’aveva proprio davanti a sé.

«Qualcosa di eclatante?» chiese la Backman.

«Non so cosa intendi con ’eclatante’» ribatté Sorgsen. «Se consideriamo solo la sua ultima settimana di vita abbiamo undici telefonate in tutto. Non molte. Non parlo delle telefonate di lavoro, ma di quelle sul fisso. Non aveva il cellulare. Tutti i numeri sono stati identificati, tranne uno.»

«Tranne uno» gli fece eco la Backman.

«Tranne uno» ripeté Sorgsen. «Al suo telefono fisso da un cellulare. Senza abbonamento, quindi non possiamo risalire all’utente.»

«Quando?» domandò la Backman.

«Sabato mattina alle 7.22» rispose Sorgsen. «La telefonata è durata poco più di quaranta secondi. Quarantatré, per la precisione. Non è stata conservata, è passato troppo tempo.»

«Interessante» disse la Backman.

«Forse» disse Sorgsen. «Ma non lo definirei eclatante.»

«E le altre dieci?»

«Neanche una chiamata verso un numero privato» disse Sorgsen. «E neanche una da un numero privato.»

«Capisco» disse la Backman. «Voglio dargli un’occhiata quando arrivo. Grazie mille.»

«Non c’è di che» concluse Sorgsen e riagganciò.



Fece il check out in hotel, mangiò un boccone a un chiosco della Stazione centrale e all’una e un quarto incontrò Larsson e Ribbing nell’ufficio di quest’ultimo al commissariato di Lund.

«Abbiamo una notizia buona e una cattiva» esordì Ribbing.

«Prima la cattiva, grazie» disse la Backman.

«Non siamo ancora riusciti ad accedere ai dati del computer» spiegò Larsson. «Ma naturalmente è questione di tempo. Il nostro esperto è fuori per un altro incarico.»

«Okay» disse la Backman. «E la buona?»

L’ispettore Ribbing si schiarì la voce. «La buona notizia è che abbiamo rintracciato Kristin Pedersen» annunciò. «Si trova alle Seychelles, ma sarà di ritorno lunedì. Faremo una chiacchierata con lei, se ritieni che sia importante.»

«È estremamente importante» osservò Eva Backman e si dispiacque subito che la gita in Danimarca sarebbe stata cancellata dal programma della giornata. «Voglio che la registriate, ed è bene che vi mandi le domande al più presto.»

«Fai pure con calma» disse Ribbing. «Hai tutto il fine settimana per prepararle. Vuoi portare con te il computer o ce ne occupiamo noi?»

La Backman rifletté. «Non potete copiare tutto e spedircelo?»

Larsson fece spallucce. «Naturalmente. Facciamo così, allora?»

«Sì, d’accordo» decise la Backman. «In realtà solo le e-mail sono interessanti, però spedite pure tutto quando riuscite a entrare.»

«Kotkas sistemerà tutto in un’ora» promise Ribbing. «È un fenomeno, quando arriverai a Kymlinge troverai i segreti del docente su un piatto d’argento. Hai bisogno d’aiuto per qualcos’altro? Ci teniamo in contatto, in ogni caso.»

«Sì, certo» convenne Larsson.

Eva Backman non aveva altro da chiedere. Ringraziò i suoi colleghi dello Skåne e promise di tornare sul caso dopo il weekend.

Lasciò il commissariato. Raggiunse il parcheggio e dieci minuti dopo era sulla E6 in direzione nord. Decise di lasciar perdere Edith Piaf e Billie Holiday, e pensò che non sarebbe tornata a mani vuote dalla sua gita nelle province del Sud.

La situazione si era complicata, tutto qui.

Germund Grooth aveva in programma un viaggio a Parigi per la settimana successiva alla sua morte.

Si trovava a casa la sera prima della sua morte, alle nove e un quarto. E forse anche alle undici, se era esatto che le sorelle Zetterlund erano rimaste sedute davanti al bow window del piano di sopra a giocare a carte con gli occhi puntati sulla strada.

La mattina seguente, l’ultima della sua vita, qualcuno gli aveva telefonato da un numero irreperibile. Intorno alle sette e venti.

Suicidio? si chiese. Scordatelo.

Incidente? Scordati anche questo.

Così, due punti interrogativi erano stati raddrizzati, constatò.

Ma le domande che erano emerse nel frattempo erano più contorte, e con quelle si scornò per tutto il viaggio di ritorno verso Kymlinge.

Metaforicamente parlando.

L'uomo che odiava i martedì
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