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Si risvegliò all’improvviso.

Tre donne vestite di bianco lo osservavano, e per un momento non riuscì a capire dove si trovava.

Poi si ricordò. Evidentemente durante la notte si era sdraiato nel letto vuoto accanto a quello di Marianne. Adesso era lì, in posizione fetale e con le mani infilate tra le ginocchia. Qualcuno gli aveva messo addosso una coperta d’ospedale blu. Tirò giù le gambe dal letto e si mise seduto. Per un attimo vide tutto nero, poi si riprese. Si sfregò il mento e le guance, dove gli pareva ci fossero delle macchie di saliva ormai asciutta. Era da tanto che non si sentiva così sporco. Gli sembrava di essere un ubriacone che avesse passato la notte in un fosso.

«Meno male che è riuscito a riposare un po’» disse una delle figure vestite di bianco. Si ricordò che era la dottoressa Mousavi, l’anestesista.

«Ah... sì?» provò a dire Barbarotti.

«Adesso sveglieremo sua moglie» gli spiegò la Mousavi. «È quasi cosciente, è un buon segno. Però ora dobbiamo pregarla di uscire.»

Le due infermiere accanto alla dottoressa annuirono. Barbarotti si sfregò gli occhi con i pugni.

«Nel frattempo può rinfrescarsi e fare colazione. Ci metteremo una buona mezz’ora. Verremo a chiamarla quando potrà entrare di nuovo.»

Si alzò. Osservò Marianne. Non vide nessun cambiamento evidente in lei, ma immaginò che il medico sapesse cosa diceva. Le accarezzò il braccio per un attimo e uscì in corridoio prima che le emozioni avessero il sopravvento.

Guardò l’orologio. Erano le sei meno un quarto del mattino.

Furono necessari quarantacinque minuti. Riuscì a farsi una doccia e a prendere due caffè. Di mangiare neanche a pensarci.

Forse doveva telefonare a Kymlinge, ma decise di aspettare. Sarebbe stupido svegliarli senza avere notizie, suppose. Il primo treno per Göteborg sarebbe partito alle otto, si sarebbe fatto vivo dopo le sette.

La dottoressa Mousavi uscì qualche minuto dopo le sei e trenta. Prima ancora che il medico dicesse qualcosa, in una frazione di secondo Barbarotti riuscì a intuire la situazione dai suoi lineamenti.

Era viva.

Almeno quello.

Forse qualcosa di più.

«Può andare da lei, ora» spiegò la Mousavi. «Respira autonomamente ed è cosciente. È molto stanca, non si aspetti che le parli. Ha bisogno di dormire, e al momento non è più intubata.»

«Cosa significa?» domandò Barbarotti.

«Significa che probabilmente è andato tutto bene. Tutte le funzioni vitali sono regolari, non abbiamo rilevato danni seri. Ma possono sempre insorgere complicazioni, e la riabilitazione sarà lunga.»

«Capisco» disse Barbarotti.

«Ancora una cosa» aggiunse la Mousavi. «Di solito sono molto irritabili. Ha solo bisogno di dormire, per il momento. Non ricorda niente di quello che è successo, non si aspetti gesti d’affetto.»

Lo osservò da sopra la montatura degli occhiali e gli diede un colpetto sul braccio.

«Non importa» disse Barbarotti. «Grazie. Davvero grazie mille.»

Dopodiché entrò da lei con i segni delle lacrime sul viso. Entrambe le infermiere gli sorrisero, ma lui non lo notò.

Parlò con Sara.

Poi con Johan e con Jenny. Spiegò loro che non dovevano venire a Göteborg, perché la mamma molto probabilmente sarebbe stata trasferita all’ospedale di Kymlinge già nel pomeriggio.

«Starà bene?»

«Credo di sì» rispose Barbarotti. «Comunque nulla fa pensare il contrario, ma ci vorrà del tempo.»

Entrambi risero e piansero di gioia e, prima che anche lui li imitasse, suggerì ai ragazzi di andare a scuola, poiché era quello che avrebbe voluto la mamma.

Promisero di pensarci.

Parlò anche con Lars e Martin, poi con la sorella di Marianne e con suo fratello, al quale aveva telefonato la sera prima, e infine – dato che Marianne dormiva – fece uno squillo a Eva Backman.

«Dimmi che è andato tutto bene» disse lei.

«È andato tutto bene» confermò Gunnar Barbarotti.

«Ti ringrazio, buon Dio» esclamò Eva Backman. «Quanto bene?»

«Non è ancora possibile dirlo» chiarì Barbarotti. «Con il tempo si vedrà. Ma è cosciente e mi riconosce. Quando non dorme, voglio dire, ma dorme quasi sempre.»

«Devi ringraziare il buon Dio per lei» disse Eva Backman.

«Lo faccio ogni momento» la rassicurò lui. «Forse torniamo a Kymlinge nel pomeriggio. Qui ci sono pochi posti letto. Però dovrà rimanere in riabilitazione per parecchie settimane.»

«Ma certo» disse la Backman. «Lo sai che...?»

«Sì?»

«Sai che non ho mai avuto tanta paura in tutta la mia vita come stanotte? Mi sono svegliata alle tre e non sono più riuscita a dormire. Era come se si trattasse dei miei figli. Come se... no, non so.»

Rimasero entrambi in silenzio per un istante e Barbarotti pensò che Nostro Signore li stava osservando dall’alto della sua nuvoletta. Perlomeno lui.

«Sì, lo so» disse. «Me lo ricordo.»

«Cosa?» chiese Eva Backman.

«Scusa, non parlavo con te» rispose Barbarotti.



Le accarezzò la guancia con il dorso delle dita. Lei aprì gli occhi e lo guardò.

Aprì anche leggermente la bocca. Come se volesse dire qualcosa. Ma non uscì alcun suono.

«Fra poco torniamo a Kymlinge» le disse. «Fra un’ora, dicono i dottori.»

Lei chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Le prese la mano. Gliela accarezzò dolcemente e gli sembrò che lei facesse altrettanto.

«So che non riesci a parlare» le disse. «Ma senti quello che ti dico, vero?»

Marianne sembrò annuire.

«Voglio dirti che ti amo e che da oggi in avanti ti sorreggerò con queste mie mani.»

Lei aprì un occhio e lo richiuse.

«Vivremo insieme fino a cent’anni, e non sprecheremo neanche un minuto.»

Lei sospirò.

«Non dovrai fare nulla in casa prima di Natale. Ho parlato con i ragazzi e ci organizzeremo. Tutto quello di cui dovrai preoccuparti è riposarti e rimetterti. Ti serviremo giorno e notte. Senti quello che dico?»

Lei sorrise.

L'uomo che odiava i martedì
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