48

Eva Backman non riuscì a mettersi in contatto con Barbarotti prima delle dieci di sera.

Lui aveva tenuto il cellulare spento. Le spiegò che si trovava all’ospedale Sahlgrenska di Göteborg.

«Al Sahlgrenska?» chiese la Backman. «Perché sei al Sahlgrenska?»

«Per Marianne» disse Barbarotti, poi rimase in silenzio per qualche secondo prima di aggiungere che aveva avuto un’emorragia cerebrale.

Fu la volta della Backman di rimanere in silenzio. Erano seduti, al telefono, e ascoltavano i loro respiri. Sembrò un’eternità.

Marianne. Emorragia cerebrale. Era un’informazione che la sua mente si rifiutava di assimilare. Non capita un’emorragia cerebrale ad appena... quanti anni aveva? Quarantacinque? Cose simili potevano capitare nell’autunno della vita, non a quell’età. Non a Marianne, era impossibile. O no?

«Santo cielo» riuscì a dire infine. «Non sapevo...»

«L’hanno operata» spiegò Barbarotti. «Ma non si è ancora risvegliata. Non la sveglieranno prima di domani mattina.»

«Cos’è successo?» chiese la Backman. «Non posso credere che sia vero.»

«Un aneurisma» rispose Barbarotti. «Un piccolo vaso sanguigno del cervello si è rotto.» Fece una breve pausa prima di continuare, e quando ricominciò lei sentì dalla voce che faceva fatica a trattenersi. «Può capitare in qualsiasi momento, evidentemente. E a chiunque. Lei era al lavoro e ha perso conoscenza... sì, è andata così.»

«Sì, è andata così» ripeté senza motivo.

«È pazzesco» disse la Backman. «Cosa dicono i medici?»

Barbarotti si schiarì la voce. «Non possono dire nulla fino al suo risveglio. Perciò me ne sto qua seduto accanto al suo letto e aspetto.»

«Sarai sotto shock» disse Eva Backman.

«È vero» disse Barbarotti. «Da più di sette ore, ormai. Ma non si tratta di me, è Marianne.»

«Sì, certo» convenne Eva Backman. All’improvviso avvertì un tremore. Un terremoto mentale, passeggero. Pensò che non era così strano. Barbarotti non disse nulla, ma lei sentiva il suo respiro nel ricevitore.

«Come va con i ragazzi?» gli chiese.

«Johan e Jenny vengono domani mattina» disse lui. «Forse. Sara adesso è da loro.»

Eva Backman annuì. A che serviva annuire al telefono? Ma le parole erano banali. Cosa c’era da dire? Che accidenti c’era da aggiungere?

«I dottori cosa dicono?» chiese di nuovo. «Ti avranno pur detto qualcosa.»

«Non molto» rispose Barbarotti. «Comunque l’emorragia non era molto estesa. Dicono che l’operazione è andata bene. Secondo loro ci sono buoni motivi per essere ottimisti, ma io non so... aspetta, sta arrivando un’infermiera che vuole parlarmi. Devo mettere giù.»

«Prenditi cura di te» disse Eva Backman. «Vi penserò per tutta la notte.»

«Grazie» disse Gunnar Barbarotti.



Per un po’ non riuscì ad alzarsi. Quella conversazione le era rimasta dentro come un chiodo, un grosso chiodo arrugginito. La vita poteva essere così maledettamente fragile. In qualsiasi momento poteva accadere di tutto.

A chiunque. Incrociò le mani e chiuse gli occhi. Le immagini di Marianne fluttuavano dentro di lei. In particolare quelle della cena a Villa Pickford di due settimane prima, con i sette ragazzi. Non c’erano stati segnali allora?

No, nessun segnale. Proprio per quello era così spaventoso. Nessun avvertimento. Succedeva e basta. Meravigliosa, affettuosa, generosa Marianne.

Poi pensò che non ci si doveva fasciare la testa prima di essersela rotta. E se al suo risveglio tutto fosse stato a posto? Al massimo con qualche lieve conseguenza?

Quali conseguenze? Non ne aveva la minima idea. Non ne so nulla di cose simili, constatò Eva Backman. Cosa può capitare dopo un’emorragia cerebrale?

Per quanto piccola, l’emorragia doveva aver interessato alcune zone del cervello. Ma le altre regioni potevano svolgere le funzioni di quelle danneggiate? Le sembrava di aver letto qualcosa in proposito non molto tempo prima. Della capacità del cervello di autoripararsi, soprattutto nei soggetti giovani...

La porta si aprì ed entrarono Jörgen e Kalle. Gettarono i borsoni sportivi in anticamera e gridarono ciao. Gli allenamenti serali di floorhockey erano finiti.

Eva Backman saltò in piedi e decise di non raccontare nulla ai ragazzi. Meglio aspettare fino all’indomani, quando avrebbe avuto notizie. Ora doveva cercare di riprendersi. Ma a tavola non sarebbe riuscita a parlare del più e del meno.

«In cucina ci sono il pane e un’insalata di pasta» disse. «Devo lavorare ancora per un’oretta, riuscite a cavarvela da soli? Viktor dorme dagli Zetterberg.»

«Ce la caviamo da soli, mammina» le disse Kalle abbracciandola forte.

«Ahi» disse Eva Backman. Salutò i figli e si chiuse in camera da letto.



Quella stanza fungeva anche da studio, l’avevano deciso quando si erano sposati. La scrivania era ancora lì dopo due anni.

In realtà non era cambiato nulla dal divorzio. Per lei non era così semplice stare in quella casa, e non era affatto strano. Ogni tazza, ogni fiore del tappeto, ogni maledetta macchia del parquet di pino davanti al lavello gli ricordavano il matrimonio con Ville. Ma non doveva lamentarsi. Perlomeno non aveva avuto un’emorragia cerebrale.

Non sarebbe stato facile dormire. Non dopo quello che aveva saputo. Non con Marianne e Barbarotti al Sahlgrenska; il terremoto interiore aveva ripreso a scuoterla.

Meglio concentrarsi su qualcosa di sensato e aspettare il sonno, decise. Magari Barbarotti avrebbe chiamato per qualche novità.

Ma non l’avrebbe fatto. Se ci fosse stata qualche notizia dall’ospedale, i figli sarebbero venuti per primi. Johan e Jenny prima di tutti, ovviamente, ma anche gli altri.

No, non ci sarebbero state altre conversazioni con Barbarotti né quella sera né quella notte. Eva Backman prese la ventiquattrore e accese la lampada sulla scrivania. Tirò fuori i fascicoli di Sandlin, ma poi cambiò idea.

Andò in cucina dalle stelle del floorhockey. Si preparò un tè, spiegò che voleva stare tranquilla, augurò la buonanotte ai ragazzi e tornò alla scrivania.

Concentriamoci, pensò. Mettiamo Gunnar e Marianne in un angolino buio della mente e concentriamoci su Gåsastupan.

No, non in un angolino buio, solo poco illuminato. E ovattato.



Iniziò dalla cartina.

Aveva cercato di analizzare le posizioni in cui si trovavano i sette cercatori di funghi quella domenica di settembre di trentacinque anni prima. Non era sicura che servisse a qualcosa ma, quando aveva un punto interrogativo in testa, doveva raddrizzarlo.

Dopo aver bevuto il primo sorso di tè, si rese conto che il punto interrogativo non era uno solo, ma parecchi.

Ad esempio, poteva fidarsi della cartina di Sandlin?

Non al cento per cento, forse, ma poteva essere utile. Sia presupponendo che Maria Winckler fosse stata uccisa, sia che si fossero messi d’accordo – un pensiero che le era passato per la testa qualche giorno prima, o proprio quella mattina? Be’, in ogni caso, si poteva ipotizzare che tutti, tranne l’assassino, avessero indicato correttamente il punto in cui si trovavano quando avevano sentito l’urlo?

Oppure no?

Osservò la cartina e rifletté. La croce numero uno rappresentava Maria vicino al bordo del burrone, gli altri sei erano sparsi in un semicerchio irregolare e asimmetrico a sud e a sud-ovest del precipizio. Una – la croce di Anna Berglund – era un po’ più a est; quando Eva Backman lesse la cartina e la confrontò con l’immagine mentale che si era fatta del luogo, pensò che sembrava logico. Erano entrati nel bosco da sud, in una specie di formazione a ventaglio piuttosto regolare. Poi si erano spostati lentamente in direzione nord; il precipizio non era largo più di quindici o venti metri. A est era piuttosto ripido, a ovest meno. Tenne a mente l’immagine e calcolò le linee equidistanti sulla carta. Se il gruppo avesse proseguito nello stesso modo, avrebbe dovuto farlo verso ovest, e così avrebbe superato il precipizio.

Ma il burrone dei suicidi li aveva fermati.

In una nota Sandlin aveva indicato le distanze tra le diverse posizioni. Difficile stabilire se significasse qualcosa, ma quella che sembrava trovarsi più vicino a Maria Winckler era Elisabeth Martinsson, un centinaio di metri a sud. Poi Germund Grooth, a circa centocinquanta metri e un po’ più a est. Più lontano, circa trecento metri a ovest, si trovava Rickard Berglund.

Tutto sembrava confermare l’ordine con cui avevano raggiunto il precipizio. Prima Elisabeth Martinsson, subito seguita da Germund Grooth. Il fatto che Rickard Berglund fosse arrivato poco prima di Tomas Winckler, benché fosse più lontano, non significava nulla. Una conclusione cui era giunto anche Sandlin.

Ma la domanda principale – sempre che in quel guazzabuglio ci fosse una domanda principale, pensò, sconfortata – era se qualcuno di loro avesse intenzionalmente indicato una posizione sbagliata. Se avesse messo la croce a cento o duecento metri di distanza da Maria, quando invece era accanto a lei sul bordo del precipizio.

Se aveva spinto la vittima, se si era nascosto dietro un albero o qualcos’altro, per poi unirsi ai compagni sotto shock al momento opportuno.

E poi, erano davvero lì a raccogliere funghi? Non le risultava che avessero raccolto più di un finferlo. Ma alla luce di quanto era accaduto, forse non era una questione così rilevante.

Sospirò, bevve un sorso di tè ed esaminò i commenti di Sandlin. Ben presto si rese conto che era giunto alle sue stesse conclusioni. O agli stessi punti interrogativi. Ognuno aveva segnato la propria posizione su una cartina intonsa, e l’assassino difficilmente avrebbe potuto bluffare. La visibilità nel bosco era scarsa, ma non abbastanza da poter mettere una croce a casaccio in modo che non fosse troppo vicina a quella degli altri cinque – che non conoscevano le rispettive posizioni. Be’, in questo caso era stato molto scaltro.

D’altra parte non era impossibile. Soprattutto se avesse potuto osservare da dove erano arrivati gli altri dopo aver udito l’urlo di Maria Winckler. Magari nascondendosi fra i pini.

Nulla era impossibile.

L’ispettore Sandlin lo aveva constatato.

L’ispettore Backman lo constatò trentacinque anni dopo.

Sospirò, bevve un sorso di tè e pensò per un momento al Sahlgrenska.



Poi si dedicò per un’altra mezz’ora a quanto era emerso nel corso della giornata.

Al resoconto di Tomas Winckler, ad esempio. Accese il registratore e ascoltò per qualche minuto, ma non servì, perché ricordava bene quel colloquio. Spense l’apparecchio e si lasciò andare sullo schienale della sedia, sollevando i piedi sulla scrivania.

Cos’aveva detto, in fondo?

Che aveva una relazione con una donna sposata e che a sua moglie non importava. Sgradevole, pensò, ma questo non lo rendeva un assassino.

Il suo alibi per sabato dipendeva da quella donna. Forse lo avrebbe coperto in ogni caso, indipendentemente dal fatto che si fossero visti o meno. Forse era disposta a mentire per lui.

Ma che motivo avrebbe avuto Tomas Winckler per uccidere Germund Grooth?

Che motivo avrebbe avuto per uccidere sua sorella trentacinque anni prima?

Non ne ho la più pallida idea, pensò la Backman, e bevve un altro sorso di tè. E quello che aveva raccontato a proposito del gruppo, che cosa significava? Però poteva esserci sotto qualcosa, pensò. Si erano persi di vista dopo quel viaggio nell’Europa dell’Est... cos’aveva detto? Estate 1972? Tre anni prima dei fatti di Gåsaklyftan, dunque.

Quella cena nella canonica non era stata molto divertente, aveva sostenuto. I vecchi amici erano cambiati, i tempi di Uppsala erano lontani. C’era dell’altro? si chiese la Backman. Forse aveva sdrammatizzato tutto così, ammettendo che l’atmosfera era tesa, per nascondere qualcosa di più grave?

Era possibile?

Congetture, pensò. Nient’altro che congetture.

Anche se, quando non si conoscono i fatti, non rimangono che quelle.

Forse avevo ragione sin dall’inizio, suppose. Una caduta e un salto. Perché me ne sto qui a lambiccarmi il cervello?

Ma certo, sì, per non pensare al Sahlgrenska.

Passò a riflettere su Lund. Un altro contrattempo. Aveva parlato con l’ispettore Ribbing e lui le aveva spiegato che Kristin Pedersen non si era fatta vedere. Le avevano telefonato diverse volte a Copenhagen, ma senza ricevere risposta.

Forse non era solo un contrattempo, suppose Eva Backman. C’era dell’altro? Cosa significava? I colleghi nello Skåne avrebbero fatto altri tentativi in mattinata, probabilmente con la collaborazione della polizia danese.

Però avevano parlato con un paio di colleghi di Grooth. Il professor Lindskog e l’assistente Törnell. Conoscevano Grooth da tempo e piuttosto bene, ed entrambi avevano fornito l’immagine che si stava delineando con chiarezza a quel punto delle indagini.

Un lupo solitario. Un collaboratore competente e ineccepibile della facoltà di fisica, ma una persona difficile e che non frequentava nessuno. Grooth preferiva starsene per conto suo, e nel mondo accademico quelli come lui erano benaccetti.

Ribbing aveva spedito la registrazione di entrambi i colloqui, ma lei non aveva avuto ancora il tempo di ascoltarli. Per ora si accontentava del suo resoconto telefonico.

È tutto qui, pensò Eva Backman. Guardò l’orologio. Undici meno un quarto, la stanchezza si faceva sentire. Richiuse i fascicoli di Sandlin e si allontanò dalla scrivania. Poco dopo era già a letto.



Non appena spense la luce rivide le immagini indistinte e incomprensibili di Barbarotti e Marianne in una stanza del Sahlgrenska. Con uno sforzo le ricacciò in quell’angolino poco illuminato. Ripensò per un attimo al caso, prima che il sonno avesse il sopravvento.

Nascondevano qualcosa. Non poteva essere altrimenti.

L'uomo che odiava i martedì
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