41

Non smise mai di piovere. Il vento soffiava impetuoso.

Gunilla, in mezzo a Tomas e Anna, cercava di contare i battiti cardiaci. La mano infilata sotto il seno sinistro, sentiva chiaramente il cuore. Non sapeva perché lo facesse, ma era sicura che se non si fosse distratta in qualche modo sarebbe svenuta.

E la cosa non li avrebbe aiutati.

Gli uomini stavano ancora discutendo. Annuivano fra di loro, fumavano e tenevano d’occhio il gruppo. Quando Tomas con prudenza le sussurrò qualcosa – o forse si rivolse a tutti, non riuscì a capire cosa cercasse di dire – uno di loro sbraitò. Evidentemente era il capo; snocciolò una tiritera intimidatoria di cui non capirono una parola. Ma il concetto era chiaro. Dovevano stare zitti.

Per il loro bene dovevano continuare a stare in piedi contro il muro e tenere il becco chiuso. Immobili e obbedienti. Il capo indicò la sua arma. Sì, il concetto era molto chiaro.

Lei ricominciò a contare. Arrivava al massimo a quindici o venti, poi perdeva il filo e doveva ricominciare. Riusciva quasi a sentire il battito degli altri, almeno quello di Anna, che le stava appiccicata. Era come se la pioggia accentuasse le pulsazioni. Le pulsazioni della paura. L’acqua le scendeva sul viso, i capelli e le spalle. Come agli altri. Gunilla pensò che se l’era sentito. Quella giornata era stata di cattivo auspicio sin dall’inizio. L’atmosfera, quel lungo e insopportabile viaggio su strade orribili. Tutto, insomma.

Buon Dio, pensò, fa’ che ci lascino andare. Lasciaci andare via da qui.

Ma non pregò, erano solo pensieri privi di forza e volontà. Non aveva nessun Dio. Forse avrebbe potuto dire una preghiera l’altro giorno, quando era in quella chiesa a... si era dimenticata il nome della città. In seguito le era sembrata un’occasione perduta. Una possibilità che si era lasciata sfuggire.

Un altro di quegli strani pensieri. Forse era proprio un pensiero che apparteneva a quel posto e a quel momento. Nel buio, sotto la pioggia, spinta contro un muro in una città straniera e inquietante. Qualsiasi cosa pur di dare scacco matto alla paura, pensò. Qualsiasi cosa.



Dopo dieci minuti – o forse cinque, o venti – gli uomini in uniforme avevano trovato un accordo.

Il capo – piuttosto basso, non più di un metro e sessanta, ma senza dubbio il più forte – avanzò e si piazzò a due metri dal gruppo. Iniziò a parlare, sempre in rumeno – almeno Gunilla suppose che fosse rumeno –, ma ogni tanto inseriva una parola comprensibile. Lei capì: forbidden, police, document, passport, arrest, problem, prison, territory.

Quando ebbe finito, Tomas cercò nuovamente di dire qualcosa, ma fu subito messo a tacere con uno schiaffo da uno degli altri tre. Gunilla avvertì all’improvviso il bisogno di vomitare. Anna urlò di terrore.

L’uomo che aveva colpito Tomas andò verso Anna. Si piazzò a mezzo metro da lei e alzò una mano. Dopo qualche secondo la abbassò e tornò alle spalle del capo.

«Come!» disse il capo indicando la direzione con il kalashnikov.

Vennero condotti in fila sul piazzale. Quando superarono il pullman diedero l’alt, il capo allungò una mano e disse: «Key!» Tomas rispose: «In bus». Uno dei soldati salì e spense il motore. Quando scese consegnò le chiavi al capo. Il quale disse: «Forbidden territory» e proseguirono verso una costruzione bassa e quadrata di cemento, senza finestre ma con un alto comignolo.

Uno degli uomini aprì con le chiavi una pesante porta d’acciaio e furono fatti entrare. Tre dei soldati li seguirono, compreso il capo. Il più giovane rimase fuori. Il capo accese la luce. Dal soffitto pendeva una lampadina sporca.

La stanza era grande e fredda. Il pavimento di cemento, le pareti di cemento. Sotto un’altra lampadina c’erano alcune panche dall’aspetto malandato. In un angolo un lavandino. Qualche fusto d’acciaio, forse taniche di carburante. L’odore era quello di un garage, o di una stazione di servizio, pensò Gunilla. C’era un altro odore che non riuscì a identificare. Forse era solo la sporcizia. O la muffa.

Fu ordinato loro di sedersi sulle panche. Quando ebbero obbedito, il capo si piazzò di nuovo davanti a loro con le gambe aperte e li osservò senza battere ciglio. Gli altri due stavano un paio di metri dietro di lui, le armi spianate. Per un breve attimo Gunilla ebbe l’impressione che pensassero di sparare.

Che sarebbero stati tutti uccisi.

Lì e in quel momento. Sarebbero morti in uno squallido bunker di cemento alla periferia di Timişoara, in Romania. Le venne di nuovo da vomitare, ma in quell’istante il capo si schiarì la voce e disse: «Stay here».

Poi fece dietrofront e marciò fuori dal fabbricato con i suoi camerati. Come in una vecchia e rovinata pellicola cinematografica – sembrava tutto così assurdo – Gunilla vide che la pesante porta veniva richiusa, sentì dare dei giri di chiave, dopodiché furono soli.

Per un minuto nessuno disse nulla. Anna piangeva, e Gunilla la imitò.



«Vogliono solo spaventarci» disse Tomas. «Probabilmente sono andati a cercare qualcuno più alto in grado. Siamo entrati in zona militare, ecco di cosa si tratta.»

«Ci stanno riuscendo bene, in ogni caso» aggiunse Maria. «A spaventarci, intendo. Potete smetterla di piangere? Non c’è niente per cui sprecare le lacrime.»

«Cazzo» la aggredì Anna. «Naturalmente tu non hai nemmeno lacrime.»

«Ne ho più di te» rispose Maria. «Ma le risparmio.»

«Che motivo c’è per non stare uniti?» disse Rickard. «Voglio dire, è stupido mettersi a litigare proprio adesso. Non sono sicuro che siano dei militari.»

«Cosa intendi?» domandò Tomas.

«Quelle divise. Hanno più l’aspetto di appartenere a qualche corpo di polizia. Oppure sono delle guardie, in ogni caso non hanno i gradi.»

«In che posto siamo finiti?» chiese Anna. «Santo cielo, ti ha persino colpito, Tomas.»

«Kalashnikov» disse Germund. «Forse dobbiamo essere contenti che abbiano usato solo le mani.»

«Era una manata» disse Tomas. «Uno schiaffo, niente di che.»

«Devi sempre essere così ottimista, cazzo?» lo aggredì Maria. «Sei stato colpito in faccia e pensi che sia okay. Ci hanno rinchiuso in un maledetto bunker, e pensi che sia okay. Sta andando tutto a puttane, renditene conto.»

Tomas andò a mettersi davanti a Maria, che era seduta sulla panca. «Per favore, chiudi il becco» le intimò. «Non serve a nulla dipingere il diavolo più nero di quello che è. Perché non cerchi di essere un po’ più costruttiva, per una volta?»

«Costruttiva?» replicò Maria con una risata sarcastica. «E come cazzo si fa a essere più costruttivi in questo posto, ci hai pensato?»

Fece un gesto a vuoto nell’aria e scosse la testa. Tomas rimase un momento in uno stato di palese indecisione, e Gunilla si domandò se non sentisse l’impulso di seguire l’esempio di quel soldato. Mollarle una sberla. Alla fine si allontanò e andò a sedersi vicino a Rickard.

«Cosa cazzo facciamo?» chiese.

«Non lo so» rispose Rickard. «Aspettiamo, suppongo.»

Nessuno aveva guardato l’orologio, ma gli uomini tornarono non più di un quarto d’ora dopo.

Mentre i quattro militari erano stati via non si erano detti molto. Gunilla si era chiesta perché, ma allo stesso tempo aveva pensato che non era così strano. Cosa c’era da dire? Tomas e Rickard avevano ispezionato lo stanzone, nient’altro. Era abbastanza grande, sette metri per sette all’incirca; tre metri di altezza e nessuna finestra. Le pareti erano di cemento grezzo, la porta di acciaio. Nessuna via d’uscita.

I bidoni erano vuoti, Tomas gli aveva dato un calcio.

E cos’avrebbero fatto se fossero riusciti a uscire? C’era una chiave di riserva sul pullman, sotto il letto di Anna e Rickard, ma probabilmente i loro carcerieri sorvegliavano il mezzo. Magari lo stavano passando al setaccio, a caccia di qualche giornale pornografico, sigarette o chissà cosa. Soldi, magari.

E avevano i loro passaporti. Niente male arrivare al confine tra Romania e Bulgaria senza passaporto, aveva constatato Tomas. Persino Maria gli aveva dato ragione.

Ma per il resto erano rimasti in silenzio. Un silenzio insolito; quando Gunilla aveva chiesto ad Anna se aveva sete non aveva ricevuto risposta, se non un cenno di diniego con la testa. Era come se ognuno cercasse di trovare una soluzione da solo; come se fosse una premessa necessaria prima di poter parlare insieme della situazione in cui si trovavano.

Germund era a capo chino, come in quella chiesa, aveva pensato. Non riusciva ancora a ricordare il nome della città. Maria si era distesa sulla panca, aveva chiuso gli occhi, ma naturalmente non dormiva. Era stata irritabile per tutto il giorno, forse le sarebbe venuto il ciclo. Non era facile avere a che fare con Maria. Gunilla aveva ripensato a quanto fosse complicato capire sia lei che Germund. Era proprio come aveva detto Tomas.

Persone eccezionali.

Anche se in quel momento non pensava certo né a Maria né a Germund, né a qualcuno degli altri. Sentiva crescere l’ansia dentro di lei, qualcosa di simile a ciò che aveva provato qualche volta a Ulleråker. Le solitarie notti in bianco, quando usciva a camminare sul ghiaccio. Avrebbe potuto spezzarsi in qualsiasi momento. Sprofondare e ricadere nel buio.

Aveva desiderato rendere partecipe Tomas del suo terrore. Ma non aveva potuto. Tomas aveva la responsabilità del gruppo; la collettività è più importante dell’individuo, non poteva occuparsi del dolore di ognuno di loro in una situazione simile. Neppure del suo, purtroppo. Lui è così abituato a prendersi cura di me, aveva pensato. Abituato e arcistufo. Lo aveva osservato gironzolare per la stanza come un animale in gabbia, e fare osservazioni senza senso. Cercava di analizzare la situazione, aveva dato un altro calcio ai bidoni e aveva scambiato qualche parola con Rickard. Ma soprattutto stava seduto accanto ad Anna. Era Tomas il capo, lui aveva organizzato il viaggio. Se qualcuno doveva tirarli fuori dai guai, quello era lui. Gunilla sapeva che Tomas ragionava così. Mentre cercava di combattere il terrore, non aveva potuto fare a meno di pensare che fosse un po’ infantile. Un po’ da capo scout.

Si era avvicinata di più ad Anna. Si era messa una mano sotto il seno e aveva contato i battiti.

Ma era stata interrotta quasi subito. All’improvviso erano tornati quegli uomini.



Erano solo in due. Il capo e uno degli altri, non il più giovane. L’altro chiuse a chiave la porta e si mise di guardia. Gambe aperte, sguardo vigile. Il mitra spianato. Il capo fece dei gesti a Tomas e Rickard. Maria si alzò in piedi. Il capo si accese una sigaretta prima di iniziare a parlare.

«Woman» disse.

Non mosse ciglio. Tirò una boccata di fumo.

«One woman, one hour. You choose

Con l’arma indicò a turno Anna, Gunilla e Maria.

«One woman, one hour. Then free

«Then free» ripeté.

Gunilla impiegò qualche secondo prima di capire cosa intendesse. Probabilmente anche gli altri. Anna fece un respiro profondo, Tomas bestemmiò. Rickard e Maria rimasero seduti ammutoliti. Solo Germund riuscì a replicare.

«No» disse semplicemente. «No way

Il capo non si preoccupò di lui. Ripeté il suo ordine.

«One woman, one hour. Then free. If not...»

Alzò l’arma e la puntò sul gruppo. Per evitare di esaurire la sua riserva di parole.

«One woman. You choose

Guardò l’orologio.

«Back in fifteen minutes. One woman with me

Dopodiché li lasciò di nuovo soli.

L'uomo che odiava i martedì
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