27

Mattina dell’11 ottobre. Si svegliò e capì in pochi secondi cos’era successo.

Aveva la morte dentro di sé. Con prudenza fece scivolare le dita sulla pelle tesa della pancia. Sentì il gelo provenire dall’interno. Il gelo e il silenzio.

E la morte. Incrociò le dita sopra l’ombelico e fissò il buio. Nemmeno un filo di luce. O un barlume di speranza.

Guardò il quadrante fosforescente della sveglia. Le cinque e un quarto.

Guardò Tomas che dormiva profondamente al suo fianco. Era solo un contorno scuro nel buio.

Liberò la lingua dal palato, dove si era incollata. Doveva aver dormito e respirato a lungo con la bocca aperta.

Poi urlò.



Partorì la sua bambina morta. Questa volta non avevano deciso un nome. Pesava 2960 grammi, i dottori non si spiegavano perché avesse smesso di vivere una settimana prima di venire al mondo. Mancanza di ossigeno, si pensò. Un incidente; a parte il fatto che fosse morta, era tutto nella norma.

Fu sepolta il 13 ottobre. Una piccola croce con una lastra di metallo fu posta nel cimitero di Berthåga. Alla fine le diedero un nome. Aurora. Luce del mattino.

Nata l’11 ottobre 1971. Morta l’11 ottobre 1971. Un prete di nome Holger Eriksson officiò la cerimonia. Erano presenti solo Tomas e Gunilla.

E Aurora.

Dopodiché andarono direttamene all’ospedale psichiatrico di Ulleråker.

Come avevano deciso.



Dal suo letto all’ultimo piano dell’alto e stretto edificio riusciva a scorgere le cime degli alberi. Pini alti e diritti, chiome di verde dignità. Sullo sfondo il cielo, spesso tempestoso. Era autunno.

Per ore rimase sdraiata a fissare le chiome degli alberi e il cielo. Giorni e settimane. Si era augurata di morire con sua figlia. Aveva pregato per questo, ma non glielo avevano permesso.

Né Tomas, e neanche i dottori.

Ho ventidue anni, pensò. Ho già perso due bambini, non capiscono che la morte è la mia missione? Perché mi trattengono senza senso?



Tomas andò a trovarla ogni giorno. Spesso rimaneva con lei per ore, anche se gli diceva di voler rimanere sola.

Sola con i sonniferi e le chiome degli alberi. E il cielo tempestoso.

Lui insisteva.

Arrivò novembre. Le fecero visita Anna e Rickard. Poi Germund e Maria. Non sapevano cosa dirle, erano in imbarazzo e non si fermavano a lungo.

Persino sua madre e sua sorella andarono a trovarla. Si fermarono tre ore e piansero entrambe per tutto il tempo. Dissero che volevano fare pace e che la amavano.

Alla fine venne il dottor Werngren. Ora indossava un dolcevita, ma non era più giallo. Spesso era nero o blu scuro. Andava da lei una volta alla settimana, poi due. Passeggiavano sul fiume, camminavano a lungo nel crescente buio autunnale. A lei piaceva il buio. A dicembre Tomas iniziò ad andare con loro.

Per Natale tornò in Sibyllegatan, e lì dormì due notti.

Alla fine di gennaio fu dimessa e tornò a casa definitivamente.

Nel corso di quei tre mesi aveva scritto i suoi pensieri in un grosso blocco nero. Lo bruciarono insieme, sul balcone, in un catino con la benzina.

Prendeva due tipi di farmaci. Due pillole bianche al mattino e due bianche e una rossa alla sera.

Tomas diceva di amarla.

Lei diceva di sentire un grande bisogno di solitudine. Era il 1972.

L'uomo che odiava i martedì
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