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Era sabato sera ed era seduto accanto al letto di Marianne.
I ragazzi erano già passati, ma si rendevano conto, avevano detto, che i grandi avevano bisogno di stare un po’ da soli. O forse Marianne aveva detto loro qualcosa mentre lui era andato a prendere da bere.
«Non hai mai avuto paura?» le chiese.
«Ero priva di conoscenza» rispose Marianne. «Non credo si possa avere paura quando si è privi di conoscenza.»
«Ma non avevi paura quando ti sei svegliata? Non ti sei chiesta cos’era accaduto e dove ti trovavi?»
Scosse la testa. «Ero solo stanca. Avevo sonno, nient’altro. Sono ancora stanca, dormo sedici ore al giorno.»
«Sei stanca ora?»
Sorrise. «Rimani ancora un momento.»
«Mi sono spaventato» disse Barbarotti. «Non ho mai avuto tanta paura in vita mia. Ho pensato che mi avresti lasciato.»
«Lo capisco» disse Marianne. «Ma non ho intenzione di lasciarti.»
Le prese la mano. La tenne tra le sue con delicatezza, come se si trattasse di un uccellino abbandonato. Rimase in silenzio un momento per cercare le parole giuste. «La vita è così fragile» provò a dire. «È così fragile che... che potrebbe sfuggire dalle mani.»
Lei annuì in silenzio.
«Voglio dire, come si fa a vivere veramente quando tutto può finire in un secondo? Ci ho pensato prima, ho visto tante persone morte, ma lunedì scorso all’improvviso mi è stato tutto chiaro. Capisci cosa intendo?»
«Hai ancora paura?»
Ci rifletté. «Non lo so. Sono confuso. Berngren dice che forse soffro di shock postraumatico, può manifestarsi così. Ma, accidenti, si tratta di te, non di me. Di te e dei nostri figli. Se solo mi prometti che vivremo insieme ancora per qualche... no, che dico, molti... molti anni, allora sarò più tranquillo.»
Marianne lo guardò in silenzio per un lungo istante. Lui vide che cercava di ricordare qualcosa.
«C’è una poesia di Philip Larkin» disse. «Il nostro insegnante di inglese del liceo ce ne distribuì una fotocopia. Aveva una malattia incurabile.»
«Ah, sì?»
«Morì sei mesi dopo, abbiamo avuto un supplente l’ultimo anno. Be’, ci sono un paio di strofe che non ho mai dimenticato.»
Bevve un sorso d’acqua. Barbarotti attese, vide che lei ripeteva la poesia a mente.
«Dunque. Parla della morte, di quando arriva. And so it stays just on the edge of vision / A small, unfocused blur, a standing chill / That slows each impulse down to indecision / Most things may never happen: this one will.»
«Te la ricordi a memoria?» chiese Barbarotti.
«Si intitola Aubade. L’abbiamo studiata tutti. Almeno le ragazze. Capisci?»
«Credo di sì» disse Barbarotti.
«Non ci sono garanzie» spiegò Marianne. «Ma non mi libererò mai di questo momento difficile.»
«Bene» disse Barbarotti.
«Anche se non dipende dagli anni. Sono le ore e i giorni che vanno protetti, non credi? Si può vivere una vita insignificante per cento anni, ma a cosa servirebbe?»
«Naturalmente» confermò Barbarotti. «Però i ragazzi devono diventare un po’ più grandi.»
«Bisogna avere fiducia.»
Si piegò in avanti e la baciò. Poi si lasciò di nuovo andare contro lo schienale della sedia.
«Ho parlato un paio di volte con un ex sacerdote» riprese. «Sua moglie è morta lo stesso giorno in cui tu hai avuto l’emorragia cerebrale.»
«Si tratta di quel caso? Quello di Germund Grooth?»
«Sì.»
«Mi sembra che Eva venga a trovarmi domani, vero?»
«Esatto» rispose Barbarotti. «Verrà domani pomeriggio. Quell’ex sacerdote, dicevo, è rimasto al capezzale della moglie per... sì, parecchi mesi. Forse anni, non so esattamente. E ora lei se n’è andata. Non hanno figli né altre persone vicine, a quanto pare. Deve sentirsi... sì, capisco come possa sentirsi.»
«E ti spaventa?»
«Sì» disse Barbarotti. «Mi spaventa. Most things may never happen: this one will... è quello che hai detto, vero?»
Marianne annuì e bevve ancora dell’acqua. «La vita e la morte sono sorelle» disse. «Come gemelle siamesi, ecco. Se abbiamo paura di una abbiamo paura anche dell’altra. Capisci cosa intendo dire?»
Gunnar Barbarotti rifletté e annuì. Ma non sapeva se la ragione e le parole avessero un peso, forse erano leggere come l’aria. Marianne gli prese di nuovo la mano. «Si sistemerà tutto» lo rassicurò. «Vai a casa a giocare a carte con i ragazzi. Credo di aver parlato abbastanza.»
Rimase lì seduto una decina di minuti. I pensieri fluttuavano nella sua mente come farfalle smarrite. Just on the edge of vision. A small, unfocused blur. Quando fu sicuro che lei dormiva profondamente, andò dalla caposala per chiederle come raggiungere il reparto per malati terminali.
Lì era più accogliente, e immaginò che non fosse casuale. In quel reparto venivano ospitati i pazienti destinati a morire. E i parenti per dare loro un commiato decoroso. C’erano comode poltrone e quadri alle pareti, piante e una libreria. Persino una vetrinetta con degli alcolici. Porto, Madera e cognac. Lo rallegrò; lì sembrava esserci un calore che andava oltre i regolamenti e la burocrazia.
Una fine dignitosa.
Il personale era presente ventiquattr’ore su ventiquattro. Salutò un donnone che stava facendo le parole crociate alla scrivania della reception. Si presentò e spiegò la ragione della sua visita.
«Anna Berglund?» rispose la donna. «Sì, esatto. È rimasta da noi abbastanza a lungo. Ma è morta lunedì.»
«Lo so» disse Barbarotti. «Il funerale è stato oggi. Il mio incarico è un po’... inopportuno, direi, date le circostanze. Avete organizzato bene questo reparto.»
«Sì» disse la donna. «Lo pensano in molti. Io stessa verrei a morire volentieri in un ambiente simile. Lavoro qui da quattordici anni. Cosa desidera sapere?»
«Riguarda Rickard Berglund, il marito di Anna. Trascorreva molto tempo qui, vero? Al capezzale della moglie.»
Lei annuì. «È vero. Penso si amassero profondamente, spero che riesca a farcela adesso.»
«Ciò su cui stiamo indagando non ha nulla a che fare con loro» chiarì Barbarotti. «Ma ci sarebbe utile sapere se Rickard era qui due sabati fa... il 25 settembre.»
«Due sabati fa?»
«Sì.»
«Perché non lo chiede direttamente a lui?»
«L’ho fatto, ma è stato qui così a lungo che non se lo ricorda. È comprensibile, con quello che...»
«Sì, è comprensibile» lo interruppe la donna con aria preoccupata. «Ma non teniamo un registro delle visite in questo reparto. Non ce n’è motivo... aspetti che controllo.»
Sfogliò in fretta un’agenda sulla scrivania. «Sabato 25 settembre... sì, ero qui. Dalla mattina al pomeriggio. Ho iniziato alle sette e ho staccato alle sedici.»
Richiuse l’agenda, appoggiò le mani sulla scrivania e sembrò pensare.
«Non so» riprese. «Sì, aspetti, ora ricordo. Diedi il cambio a Margherita, che aveva fatto la notte. Mi disse che Berglund era rimasto fino alle due. Ormai lo conoscevamo abbastanza bene, sua moglie era qui da così tanto... di solito si tratta solo di un paio di settimane, a volte di più, ma Anna Berglund è stata da noi quasi tre mesi, era come se non volesse morire... come se si rifiutasse di mollare la presa. A ogni modo, pensai che non avrei visto Berglund, invece arrivò poco prima che andassi a casa.»
«Che ora poteva essere?» domandò Barbarotti.
«Poco dopo le quattro. Sì, esatto. Strano che me lo ricordi.»
«È sicura che fosse sabato 25 settembre?»
«Assolutamente sì» lo rassicurò. «Lavoro un fine settimana sì e uno no. Stiamo parlando di due settimane fa, giusto?»
«Esatto» confermò Barbarotti e si alzò. Ringraziò per l’informazione e si scusò per il disturbo.
«Ma si figuri. Una piccola interruzione fa sempre piacere. Non capita spesso, qui.»
Si mise a pensare mentre saliva in auto per dirigersi verso il promontorio di Kymmen.
Neanche lui, fu la prima cosa che lo colpì. Neanche Rickard Berglund sembrava avere un alibi.
Come Tomas e Gunilla Winckler a Göteborg. Elisabeth Martinsson a Strömstad. E Rickard Berglund a Kymlinge.
Non questa volta, e neanche trentacinque anni prima, proprio come aveva detto Eva Backman. Non era strano?
D’altra parte, se Berglund era rimasto a vegliare sua moglie fino alle due di notte, forse non era così strano che il giorno dopo fosse tornato alle quattro del pomeriggio. Magari aveva incontrato qualcuno che poteva confermare il suo alibi. Non poteva essere andato a fare la spesa, o dal barbiere o da qualche altra parte?
Per poter avere una conferma, purtroppo non c’era che una via da percorrere. Parlare ancora con Berglund.
Un incarico per l’ispettore Backman, pensò. Lei avrebbe interrogato persino Marianne il giorno dopo.
Be’, interrogare forse non era la parola giusta.
Prima di pensare al contenuto di quella conversazione – e prima di arrivare a casa da quell’orda di ragazzi in attesa – rifletté sul sopralluogo del giorno prima a Gåsaklinten. A cosa era servito?
A niente. Aveva girovagato nel bosco per un’ora. Era rimasto sul bordo del precipizio, cercando di immaginarsi la scena di trentacinque anni prima. E di due settimane prima. Due persone, che un tempo si amavano, entrambe si erano fermate là a guardare giù, separate da così tanto tempo. Poi era accaduto qualcosa... probabilmente avevano preso una decisione, oppure qualcuno li aveva spinti... Barbarotti era quasi riuscito a percepire quella lieve spinta. Era immensamente semplice uccidere qualcuno in quel modo. La domanda, l’eterna domanda, era: perché? Perché diamine erano morti Maria Winckler e Germund Grooth?
Era sceso lungo il sentiero per guardare anche laggiù, tra i sassi, ma era stato sorpreso dalla pioggia. Aveva sottovalutato le nuvole sottili che aveva notato prima di mettersi in macchina. Si era affrettato su per la salita, per arrivare in fretta all’auto, ma ci aveva impiegato un quarto d’ora, e quando si era seduto al volante era bagnato fradicio.
Ma quella sera aveva smesso di piovere. Il cielo era limpido e l’aria fredda, probabilmente la temperatura era vicina allo zero. Quasi tutte le finestre erano illuminate quando arrivò a Villa Pickford. Adesso lascio che i morti dormano in pace, pensò, e scese dall’auto.
Ora devo occuparmi della gioventù svedese, del nostro futuro. E della canasta.