13

Se Anna Jonsson avesse scelto un paio di scarpe con i tacchi più bassi, sarebbe stato tutto diverso.

In qualunque modo si considerasse la cosa, anche a voler addurre punti di vista disfattistici o politici, era proprio così. I primi tempi che erano stati insieme, nell’estate del 1970, piaceva a entrambi discutere di quella stranezza; era un pezzo della loro storia, difficile non indugiare compiaciuti su quel dettaglio. Soprattutto in certe serate, in quelle ore opache quando non c’era molto altro da dire. Quando tutto quello che avrebbe dovuto essere semplice e naturale all’improvviso sembrava difficile e complicato. Rickard aveva scoperto che c’erano momenti simili, sin dall’inizio della loro relazione, ma sapeva anche che era inevitabile.

Perché loro erano senz’altro diversi, Rickard Berglund e Anna Jonsson, e per la prima volta nella vita Rickard capì che gli opposti si attraggono. Forse l’aveva capito anche lei, o almeno lui lo sospettava, ma entrambi sapevano di essere dei dilettanti in fatto di sentimenti.

Le loro vite si erano incrociate un martedì sera di fine aprile. Per una volta Rickard non era di servizio, così era andato in città con Helge. Non si ricordava se avevano fatto progetti per la serata o se pensavano solo di prendere un caffè da Güntherska o un wurstel con purè al Nybrogrillen. E poi vedere se da Lundequistska o in qualche antiquario c’erano libri interessanti in offerta, come facevano sempre.

Avevano fatto un salto da Bok-Viktor, in Drottninggatan. L’orario di chiusura era già passato, ma il leggendario Viktor Persson non era uno che buttava fuori i clienti con l’orologio in mano, e proprio uscendo dal caos di quella bottega antiquaria avevano visto il corteo di dimostranti in marcia da Slottsbacken e diretti verso Vaksalatorg, il solito percorso. Anche gli striscioni erano gli stessi, come gli slogan. Almeno così sembrava a Rickard. Riguardavano il Vietnam, il Sudafrica, e qualcosa che si chiamava PRO-K, che né Helge né Rickard sapevano cosa fosse.

Rimasero fermi sul marciapiede a veder sfilare i manifestanti di sinistra. Quei giovani intrisi di ideologia. Rickard aveva letto del tentativo del professor Hedenius di confrontare il marxismo con il cristianesimo – aveva respinto entrambi, per le stesse ragioni, se Rickard non aveva capito male – e si chiedeva se avrebbe dovuto recuperare il libro. Chissà se c’erano dei credenti tra quei dimostranti, che sfilavano a passo cadenzato e scandivano uno slogan dopo l’altro. Ecco una domanda interessante. Una fede stava all’altra fede? Come poteva funzionare un simile modo di pensare? Pensava ai sacerdoti marxisti dell’America latina di cui aveva letto. Com’era possibile mettere tutto insieme? L’oppio dei popoli e il marxismo.

Stava riflettendo su queste cose quando successe. Una ragazza del corteo barcollò, lanciò un urlo di dolore e cadde.

O meglio, sarebbe caduta se Rickard non l’avesse prontamente sorretta.

O gli era caduta tra le braccia? Nel corso della loro prima estate insieme ogni tanto sarebbero tornati su questo dettaglio; in particolare se fosse stato lui a farsi avanti, o se lei, come dire, l’avesse notato. Ovviamente c’era una bella differenza, almeno nel loro mondo simbolico. In ogni caso Rickard la aiutò a sedersi sul marciapiede e le si mise al fianco.

«Come va?»

Aveva lanciato un gemito, sfregandosi la caviglia.

«Ahi, ahi, ahi!»

«Fa male?»

«Fa malissimo! Devo essermela slogata! Ahi, ahi!»

Il corteo non si era fermato. La ragazza aveva provato a rimettersi in piedi, ma era ricaduta indietro.

«Merda. Non posso continuare.»

L’aveva guardata più da vicino. Aveva i capelli abbastanza corti, castano scuro. Un viso sottile, occhi grandi, in quel momento pieni di lacrime. Rickard aveva capito che la caviglia le faceva davvero male.

Era minuta e piuttosto delicata. Indossava una giacca a scacchi e la kefiah, la classica tenuta da manifestante. Pantaloni rossi. Senza trucco.

Però portava le scarpe con il tacco. Forse perché voleva sembrare più alta, aveva pensato Rickard. Era inciampata per colpa dei tacchi, lo aveva capito subito. Lei non aveva detto niente ed era rimasta seduta a guardarsi la caviglia. La strofinava con le mani e si lamentava piano. Rickard si era accorto che Helge era rimasto in disparte, troppo timido per intervenire in qualche modo.

Nessun altro era intervenuto. Solo Rickard Berglund si era seduto sul marciapiede accanto a quella ragazza con la caviglia slogata, cercando qualcosa da dire.

«Vuoi provare ad alzarti? Ti puoi appoggiare a me...»

«Grazie. Ma preferisco riposare ancora un po’.»

«E la manifestazione? Vuoi...»

«Me ne frego. Eri anche tu nel corteo o...?»

«No, stavo solo guardando.»

«Capisco. No, non ce la faccio ad arrivare in Vaksala torg con questo piede.»

Si era tolta la scarpa, e Rickard vide che la caviglia aveva già iniziato a gonfiarsi. Il corteo sfilò, lei si asciugò gli occhi con la kefiah e si appoggiò a lui.

«Scusa, ma penso di aver bisogno del tuo aiuto per alzarmi.»

Rickard provò a sorreggerla. Lei cercò di appoggiare il piede, ma le faceva troppo male. Fece una smorfia di dolore e gemette.

«Ti accompagno in ospedale. Prendiamo un taxi.»

Rickard spiegò a Helge che avrebbe cercato di fermare una macchina, ma la ragazza protestò. «No, no, non è necessario. Cavolo, è solo una slogatura. Però... ti vorrei chiedere...»

«Sì?»

«Se puoi aiutarmi.»

«Certamente. Dove abiti?» chiese Rickard.

«In Glimmervägen.»

«Glimmervägen? Non so di preciso...»

«Eriksberg. No, devi essere uno studente, non puoi sapere dov’è.»

«Non sono uno studente. Sto facendo il militare» spiegò Rickard.

«Ah sì? Scusa. Se mi aiuti posso prendere l’autobus davanti alla Carolina.»

«Okay.»

Cercò di aiutarla dandole il braccio, ma non andava bene. «Credo che...»

«Sì?»

«Credo sia meglio se mi passi un braccio intorno al collo.»

Lei si tolse anche l’altra scarpa, se le infilò nelle tasche della giacca e appoggiò il braccio sinistro sulle spalle di lui. Si avviarono lungo il marciapiede. Lei scalza e zoppicante, lui con gli zoccoli neri. Un istante dopo le cinse la vita con un braccio e avvertì un fremito.

«Come ti chiami?» le chiese.

«Anna. E tu?»

«Rickard.»

«Rickard. Dov’è andato il tuo amico?»

Rickard si girò per cercare Helge, ma era sparito.

«Non lo so. Dev’essere tornato in caserma. Ma tu non eri alla manifestazione con qualche amico?»

Lei fece una smorfia. «Certo. Eravamo un gruppetto.»

Rickard aspettò che aggiungesse altro, ma non disse nulla. Gli parve strano che nessuno dei dimostranti si fosse fermato ad aiutarla. Eppure uno striscione diceva chiaramente SOLIDARIETÀ. Avrebbe voluto chiederle qualcosa in proposito, ma non intendeva provocarla. Al contrario, voleva continuare a sentire quel fremito, quella sensazione di calore, e si domandava come avrebbe dovuto comportarsi affinché non finisse tutto alla fermata dell’autobus.

Anna non disse molto. Si appoggiava a lui e zoppicava, evidentemente non le faceva più così male, anche se evitava di caricare tutto il peso sul piede. In pochi minuti giunsero alla fermata. Anna controllò l’orario; l’autobus successivo sarebbe passato un quarto d’ora dopo.

Si sedettero sulla panchina.

«Adesso me la cavo da sola. Non c’è più bisogno che ti prenda cura di me.»

«Ti accompagno anche in autobus.»

«Non è necessario.»

«Non ho niente da fare.»

«Ma avrai sicuramente altro da fare.»

«Be’, diciamo che non ho niente di meglio da fare.»

Anna scoppiò a ridere. «Sei davvero un gentiluomo.»

Anche Rickard si mise a ridere. «Che c’è di male a essere gentili?»

«No. Ma io... sono abituata a cavarmela da sola.»

«E non puoi fare un’eccezione?»

Lei esitò un istante, poi annuì. «Se sei così sicuro di non avere niente di più importante...»

«Sicurissimo.»

«Santo cielo, guarda che roba!» disse indicando la caviglia. «È enorme.»

«Dobbiamo metterci sopra del ghiaccio appena arriviamo da te. O almeno metterla sotto l’acqua fredda.»

Annuì. «Sembri esperto.»

«In caserma ho fatto un corso di pronto soccorso.»

«Ah, non imparate solo a uccidere?»

«Non prenderò mai veramente in mano un’arma.»

«Ah, sì? E allora perché fai il servizio militare, se non hai intenzione di combattere?»

Rickard fece spallucce. «Non lo so di preciso. È un’esperienza. Ma non posso pensare di uccidere.»

«Allright. Spero che tu non abbia bisogno di farlo.»

«Mmm.»

Rimasero in silenzio un attimo a guardare la caviglia gonfia.

«Rickard, ti ringrazio per l’aiuto. Avrò bisogno ancora di te per trascinarmi fino a Eriksberg. Ci sono almeno duecento metri dalla fermata a casa mia.»

«Nessun problema. In caserma ci alleniamo. Posso anche portarti in braccio, se vuoi.»

Anna rise di nuovo.

Mi piace, pensò Rickard Berglund. E a quanto pare non mi considera un idiota. È possibile che succeda tutto così in fretta?

Purché non finisca tutto altrettanto in fretta.



Rimase in Glimmervägen tutta la sera. Anna Jonsson viveva in un monolocale con un balcone che si affacciava sul bosco cittadino. La aiutò a mettere del ghiaccio sul piede e a fasciarlo. Dopodiché lei si sedette sul divano con la gamba sollevata e spiegò a Rickard come preparare il tè e scaldare i panini. Prosciutto, formaggio e pomodoro, cosa c’era di meglio? Era una serata insolitamente tiepida per quel periodo dell’anno, e mangiarono sul balcone. Erano passate le undici quando Rickard se ne andò.

Anna lo ringraziò per essersi occupato di lei. Sul pianerottolo, stando in piedi su una gamba sola, lo abbracciò. Rickard pensò che lo aveva tenuto stretto un po’ più del necessario. Quei pochi secondi in più che potevano significare tutto e niente.

Però aveva il suo numero di telefono e le aveva promesso di chiamarla la sera successiva per sapere come stava.

E se era andata al lavoro, ad esempio. Anna lavorava come infermiera all’ospedale Akademiska. Difficilmente il piede sarebbe migliorato durante la notte permettendole di prendersi cura dei pazienti. Per una volta l’infortunata era lei. Promise a Rickard che se fosse stato necessario sarebbe andata alla clinica di Västertorg. Magari non era solo una slogatura.



Per tornare in caserma fece la strada nel bosco. Notò che camminava a passi leggeri. Era euforico per quello che era accaduto, ma si rese conto che di fatto non era successo granché. Non in quel senso, ma se qualche commilitone gli avesse chiesto come aveva trascorso la serata, avrebbe potuto rispondere di essere stato a casa di una ragazza a Eriksberg. Senza dover mentire.

Sperava che qualcuno glielo chiedesse. Qualcun altro che non fosse Helge, che certamente si stava chiedendo com’era andata a finire.

Anna gli aveva parlato un po’ di sé. A differenza della maggior parte dei ragazzi che Rickard aveva incontrato a Uppsala, lei era di lì. I suoi genitori abitavano a Salabackar, dall’altra parte di Tycho Hedén väg. Anna aveva diciannove anni, e se n’era andata di casa dopo il primo anno delle superiori, quando ancora frequentava il biennio a indirizzo sociale. Lavorava all’Akademiska da quasi un anno, ma adesso pensava di diventare giornalista. Al momento scriveva per alcune pubblicazioni di sinistra, «Vietnambulletinen», «Clarté» e altre. Anna aiutava un amico molto attivo politicamente a raccogliere materiale... o era il suo ex ragazzo? Su questo punto non era stata molto chiara, ma Rickard aveva intuito che tra loro era finita. In ogni caso, erano in rotta.

«C’era anche lui alla manifestazione?» le aveva chiesto, e lei aveva annuito senza fare altri commenti.

Lei non gli aveva detto come si chiamava, e anche questo gli era sembrato un buon segno. Se avesse davvero avuto un ragazzo, non lo avrebbe chiamato per nome? Gli aveva parlato dei suoi genitori, dei suoi due fratelli, del suo lavoro noioso e pesante in ospedale. Avrebbe lavorato ancora qualche mese, e in autunno avrebbe iniziato a frequentare la scuola di giornalismo a Stoccolma. Non era ancora sicura che ci sarebbe entrata, ma aveva buone possibilità.

Rickard aveva esitato un istante prima di dirle che avrebbe studiato teologia. Immaginava che una scelta del genere non fosse proprio popolare tra i gruppi di sinistra – l’oppio dei popoli –, ma Anna aveva accolto la notizia senza prenderlo in giro. Gli aveva raccontato che i suoi genitori erano atei; almeno così pensava lei, in realtà non ne avevano mai parlato. Tipici socialdemocratici, disse: suo padre era stato un sindacalista piuttosto attivo, ma poi si era stancato. Entrambi erano abbastanza anziani, il padre era già in pensione; Anna aveva due fratelli di dieci e dodici anni più grandi di lei.

«Io sono un incidente di percorso» aveva aggiunto. «Non credo mi volessero, di certo non avevano programmato un altro figlio.»

«E tu non hai mai avuto fede?»

«Forse quando ero piccola» aveva risposto. «Sono andata a catechismo, anche se mio padre pensava che fosse ridicolo, una cosa da piccolo borghesi. Ho persino iniziato la preparazione alla cresima, ma non l’ho mai portata a termine.»

«Perché?»

«Non lo so di preciso. C’era qualcosa che non mi convinceva. Forse era il prete che ci insegnava il catechismo, non l’ho mai capito. Se avevo un po’ di fede, l’ho persa del tutto.»

«La maggior parte di quelli che fanno la cresima non ha fede» dichiarò Rickard.

Per un istante Anna aveva appoggiato una mano sul braccio di Rickard. «Su questo hai proprio ragione» aveva detto. «La maggior parte della gente non crede a nulla.»

«Tu in cosa credi?» le aveva chiesto, e Anna aveva esitato prima di rispondere.

«Adesso non a molto» aveva detto alla fine. Sembrava triste. «In questo momento per me è così, ma a volte è più importante porsi delle domande che trovare le risposte. Sì, può sembrare strano, non posso farci niente.»

«Non penso affatto che sia strano» l’aveva rassicurata lui, poi avevano discusso della guerra in Vietnam e della situazione mondiale.

Delle ingiustizie, della povertà, del socialismo. Rickard aveva notato che Anna era abbastanza preparata: conosceva moltissimi movimenti pacifisti e partiti che lui non aveva mai sentito nominare, ma non sembrava sostenere con particolare fervore le proprie convinzioni politiche. Non cercò neppure di portare Rickard dalla sua parte. Era stato il ragazzo senza nome, aveva detto lei stessa, a trascinarla nella militanza politica.

E quando finisce una storia con un ragazzo, magari anche la fede politica fa la stessa fine. Chissà. Forse non era così semplice. Alle pareti c’erano ancora i poster di Mao e Che Guevara.

Arrivò in caserma appena prima di mezzanotte. Sia lui che i commilitoni erano stati promossi di grado e potevano rimanere fuori anche tutta la notte. Era sufficiente presentarsi all’adunata delle sette del mattino, e nessuno si sarebbe lamentato. Quando entrò in camerata si imbatté in Helge, che era appena uscito dai bagni e stava per andare a dormire.

«Com’è andata?» chiese.

«Benissimo» rispose Rickard. «Dov’eri sparito?»

«Lo sai, sono un vagabondo» rispose Helge.

Rickard non poté fare a meno di ridere e di pensare che nel 1970 c’erano ancora ragazzi che dicevano «vagabondo».

Almeno uno ce n’era. Helge da Gäddede.

L'uomo che odiava i martedì
e9788860886545-cov01.html
e9788860886545-fm01.html
e9788860886545-fm02.html
e9788860886545-tp01.html
e9788860886545-cop01.html
e9788860886545-p-0-c-2.html
e9788860886545-p-0-c-3.html
e9788860886545-p-0-c-4.html
e9788860886545-p-1-c-5.html
e9788860886545-p-1-c-6.html
e9788860886545-p-2-c-7.html
e9788860886545-p-2-c-8.html
e9788860886545-p-2-c-9.html
e9788860886545-p-2-c-10.html
e9788860886545-p-2-c-11.html
e9788860886545-p-2-c-12.html
e9788860886545-p-2-c-13.html
e9788860886545-p-2-c-14.html
e9788860886545-p-2-c-15.html
e9788860886545-p-2-c-16.html
e9788860886545-p-2-c-17.html
e9788860886545-p-2-c-18.html
e9788860886545-p-2-c-19.html
e9788860886545-p-2-c-20.html
e9788860886545-p-2-c-21.html
e9788860886545-p-2-c-22.html
e9788860886545-p-2-c-23.html
e9788860886545-p-2-c-24.html
e9788860886545-p-2-c-25.html
e9788860886545-p-2-c-26.html
e9788860886545-p-2-c-27.html
e9788860886545-p-2-c-28.html
e9788860886545-p-3-c-29.html
e9788860886545-p-3-c-30.html
e9788860886545-p-3-c-31.html
e9788860886545-p-3-c-32.html
e9788860886545-p-3-c-33.html
e9788860886545-p-3-c-34.html
e9788860886545-p-3-c-35.html
e9788860886545-p-3-c-36.html
e9788860886545-p-3-c-37.html
e9788860886545-p-3-c-38.html
e9788860886545-p-3-c-39.html
e9788860886545-p-3-c-40.html
e9788860886545-p-3-c-41.html
e9788860886545-p-3-c-42.html
e9788860886545-p-3-c-43.html
e9788860886545-p-3-c-44.html
e9788860886545-p-3-c-45.html
e9788860886545-p-3-c-46.html
e9788860886545-p-3-c-47.html
e9788860886545-p-3-c-48.html
e9788860886545-p-3-c-49.html
e9788860886545-p-4-c-50.html
e9788860886545-p-4-c-51.html
e9788860886545-p-4-c-52.html
e9788860886545-p-4-c-53.html
e9788860886545-p-4-c-54.html
e9788860886545-p-4-c-55.html
e9788860886545-p-4-c-56.html
e9788860886545-p-4-c-57.html
e9788860886545-p-4-c-58.html
e9788860886545-p-4-c-59.html
e9788860886545-p-4-c-60.html
e9788860886545-p-4-c-61.html
e9788860886545-p-4-c-62.html
e9788860886545-p-4-c-63.html
e9788860886545-p-4-c-64.html
e9788860886545-p-4-c-65.html
e9788860886545-p-4-c-66.html
e9788860886545-p-4-c-67.html
e9788860886545-p-4-c-68.html
e9788860886545-p-4-c-69.html
e9788860886545-p-4-c-70.html
e9788860886545-p-4-c-71.html
e9788860886545-p-4-c-72.html
e9788860886545-p-4-c-73.html
e9788860886545-p-5-c-74.html
e9788860886545-p-5-c-75.html
e9788860886545-p-5-c-76.html
e9788860886545-p-5-c-77.html
e9788860886545-p-5-c-78.html
e9788860886545-p-5-c-79.html
e9788860886545-p-5-c-80.html
e9788860886545-p-5-c-81.html
e9788860886545-p-5-c-82.html
e9788860886545-p-6-c-83.html
e9788860886545-p-6-c-84.html
testonote.html