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Dopo aver percorso i primi venti chilometri della E18 tra Karlstad e Örebro, Gunilla Rysth svoltò in un’area di sosta e rimase a lungo ferma al volante. Era stata costretta a farlo.
Se non si fosse fermata, sarebbe finita male; non poteva guidare e piangere a dirotto allo stesso tempo.
A meno che non volesse ammazzarsi, ma non aveva intenzione di farlo.
Malgrado tutto.
È vero, prima di trovare quell’area di sosta, poco fuori Kristinehamn, si era trastullata con quel pensiero, non poteva negarlo. Solo per gioco, però, una specie di fuga disperata dalla sua cattiva coscienza e dal terribile senso di colpa che provava per aver spezzato il cuore di un’altra persona.
Aveva spezzato il cuore a Lennart, non c’era altro modo per dirlo. Negli ultimi cinque minuti del loro incontro non aveva detto una parola. Era rimasto seduto con uno sguardo che ricordava quello di un animale in fin di vita. Un animale al quale lei aveva appena sparato e che, mentre moriva dissanguato, osservava il suo boia con una domanda silenziosa negli occhi: Perché?
Sembrava un animale ferito, pensò. Sì, proprio così.
Perché? Cosa ti ho fatto di male?
Ti amo. Ci amiamo. Avremmo dovuto vivere insieme per sempre.
Poco più di quattro anni. Erano stati insieme quasi cinquanta mesi esatti; i primi venti, o forse i primi trenta, le aveva portato una rosa per festeggiare la ricorrenza. La loro storia era iniziata in seconda liceo. Era durata un quinto della vita di lei e un quinto della vita di lui.
Era stato il primo ragazzo che aveva baciato, il primo con cui aveva fatto l’amore. Non l’unico, però. E lei era stata la prima e unica ragazza che lui avesse mai baciato e amato. Nessun dubbio in proposito. Proprio nessuno.
Finirà per suicidarsi.
Era per questo che piangeva. Lennart non lo sopporterà.
Alla fine sceglierà la morte.
E lei era lì, in quell’area di sosta appena fuori Kristinehamn, e continuava a piangere.
Negli ultimi tre mesi non aveva fatto nulla per rimandare quella decisione.
Da Pasqua. Da quando aveva incontrato Tomas, durante quel fatale seminario di canto corale a Östersund. Senza immaginare cosa sarebbe successo, ci era andata con Kristina, un’amica d’infanzia. Già la seconda sera Tomas l’aveva baciata e le aveva detto che non avevano altra scelta. Erano fatti l’uno per l’altra, era destino, non era mai stato così sicuro di qualcosa in vita sua.
Sembrava un pessimo romanzetto rosa. Se non fosse successo sul serio e l’avesse trovato su una rivista, avrebbe sbuffato e sfogliato le pagine in fretta, senza andare oltre la prima riga.
La notte seguente si erano introdotti in una casa di vacanze e avevano fatto l’amore per quattro ore.
Cosa mi sta succedendo? aveva pensato Gunilla.
Cosa cazzo mi sta succedendo?
Come sui giornaletti delle teenager. Ragiono come una stupida, si era detta. Un’imbecille innamorata. I primi giorni dopo essere tornata dal seminario, aveva sperato di essersi imbattuta in un affascinante bastardo che non l’avrebbe più richiamata. Lei avrebbe sepolto l’accaduto nel profondo del suo cuore e sarebbe tornata da Lennart. La sicurezza e Lennart. Il venerdì sera pizza e birra da Storken con gli amici. Al massimo in tre anni, i figli e una villetta a schiera in Sommarvägen.
Ma era durato solo un paio di giorni. La terza sera Tomas l’aveva chiamata, come le aveva promesso. Sdraiata sul letto nella sua minuscola stanzetta in affitto, aveva parlato con lui quasi tutta la notte; il ticchettio della pioggia sul davanzale della finestra aveva fatto da accompagnamento romantico alla loro conversazione, e quando all’alba aveva riattaccato lei aveva capito. Addio, Lennart Martinsson. Grazie per questi quattro anni.
Dopodiché aveva rimandato, fino a quel giorno. Quanto si può essere codardi? E quanto crudeli? Quanto male si può fare a un’altra persona?
Uscì dall’area di sosta venti minuti dopo. Le lacrime, aveva scoperto, non erano infinite, ma non per questo si sentiva meglio. Nient’affatto.
Perché quella situazione non riguardava solo Lennart. Riguardava la sua vita e coinvolgeva altre persone. I genitori di lei: il padre araldista e la madre impiegata. Sua sorella. La famiglia di Lennart: il suocero maggiore dell’esercito e la suocera insegnante di applicazioni tecniche. Lei e Lennart erano fidanzati, e tutti si aspettavano che presto si sarebbero sposati. Avrebbero messo su casa e avuto dei figli, e Dio sa cos’altro; insomma, sarebbero diventati adulti insieme. Martin, Kristina, Sigge e Naomi, tutti i loro amici se l’aspettavano. Lennart Martinsson e Gunilla Rysth avrebbero gettato... come si dice? Le fondamenta?
E ora cos’avrebbero detto? Perché lei non aveva lasciato trapelare nulla? Perché aspettare fino all’ultimo prima di andare a Uppsala a trovare Birgitta? Se n’era andata senza nemmeno provare a chiarire.
C’era qualcun altro?
No, aveva tagliato corto lei. Ovviamente non c’era nessun altro. Cosa credevano? Le cose fra loro non funzionavano più, ma non c’era nessun altro. Lei doveva seguire il cuore.
Solo Birgitta sapeva. Sapeva del seminario e conosceva Tomas. Aveva detto che la merda sarebbe sicuramente ricaduta anche su di lei, quando il vento fosse cambiato, ma se ne fregava. Studiava a Uppsala già da un anno ed era di vedute più ampie. E se qualcuno le avesse telefonato da casa, avrebbe detto che Gunilla viveva da lei, nella sua stanza da studente a Rackarberget, e dormiva su un materasso sul pavimento. E sì, aveva appena saputo che aveva chiuso con Lennart. Entrambi erano tristi per come erano andate le cose. Ma così è la vita, al cuor non si comanda, il tempo lenisce tutte le ferite... bla bla bla.
Notò che pensare a Birgitta l’aiutava un po’, e che forse, e la cosa la sorprese, più si allontanava da Karlstad e si avvicinava a Uppsala più tutto le sembrava facile. Tra Örebro e Arboga accese la radio, ma poi si vergognò di quella leggerezza e ricominciò a piangere.
Swimming, perhaps drowning, in a sea of emotions. L’aveva sentita da qualche parte, e descriveva abbastanza bene il suo stato d’animo. Ma non pensava di annegare. Col cavolo, constatò soffiandosi il naso con foga in uno degli ultimi fazzoletti di carta del pacchetto. Doveva iniziare a vivere, ecco cosa doveva fare, non uccidersi.
Di una cosa però era sicura al cento per cento. Le ci sarebbe voluto parecchio tempo prima di andare da un’altra parte. Mesi, magari anni. L’araldista, l’impiegata e la sorella potevano dire quello che volevano.
In ogni caso ho la mia Sigurd, pensò quando si fermò a Hummelsta per fare il pieno. Era l’auto che aveva comprato dal cugino di Lennart l’estate precedente. Rossa, piuttosto malandata e con più di quindicimila chilometri. Ma affidabile come un orologio svizzero, toccando ferro.
Naturalmente c’era un materasso per lei nella stanza di Birgitta Enander, ma solo per qualche giorno. Da martedì 1º luglio la aspettava qualcosa di completamente diverso. Non osava quasi pensarci, ma non era facile tenere lontano quel pensiero: un bilocale in Sibyllegatan a Luthagen. Aveva trovato sia il quartiere che la via su una cartina nella biblioteca di Karlstad, che tuttavia non le aveva fornito un’immagine chiara dei dintorni. Ovviamente.
L’appartamento era di proprietà di una zia di Tomas, ma era una specie di favore fra parenti. Quando fu chiaro che Tomas avrebbe svolto il servizio militare a Uppsala, venne da sé che l’avrebbe avuto in affitto. Perché poi sarebbe rimasto in città a studiare, giusto? Naturalmente, e la famiglia veniva prima di tutto. D’altronde, la zia viveva in Spagna tutto l’anno; si sarebbe rifugiata a Sibyllegatan solo nel caso in cui anche il suo terzo matrimonio fosse andato in frantumi.
Almeno secondo Tomas. Gunilla aveva visto l’appartamento in foto, lui gliene aveva spedite una mezza dozzina, e quando le guardava o ci pensava veniva scossa da un brivido di piacere. Una volta si era eccitata così tanto che non aveva potuto fare a meno di infilarsi nella doccia e masturbarsi. Avrebbe vissuto lì con Tomas! Si erano incontrati tre volte (a parte Östersund, in una stanza in affitto a Sundsvall, e un’altra volta – a metà strada – in un motel vicino a Västerås), e adesso sarebbero andati a vivere insieme. Non aveva mai vissuto con Lennart nei quattro anni della loro storia.
Se lo avessi raccontato alla mamma sarebbe svenuta, pensò Gunilla. Cos’avrebbe detto e fatto suo padre non voleva nemmeno immaginarlo, e sapeva che quella era la miglior difesa. Chiunque le avrebbe dato della pazza, se avesse raccontato la verità o chiesto consiglio. Sua sorella. I suoi amici. Tutti.
Neanche per sogno. Il silenzio è d’oro. Chiudere con Lennart era una cosa. Chiudere con Lennart e andare a vivere con un altro ragazzo era inconcepibile. L’avrebbero condannata.
Non c’erano dubbi.
Tutti tranne Birgitta. Non dico che tu abbia fatto bene, le aveva detto. Ma sono abbastanza sicura che avrei fatto la stessa cosa anch’io. Se ti può consolare.
E poi era scoppiata in una delle sue tipiche risate.
Bene, pensò Gunilla Rysth. È davvero bellissimo che anche Birgitta viva a Uppsala.
La chiave era in un sacchetto di plastica sistemato sotto la sella della bicicletta, proprio come avevano deciso insieme. In estate Birgitta lavorava in un ristorante fuori città e non tornava a casa prima delle nove.
Erano le due e mezzo. Gunilla salì le scale con le pesanti valigie e aprì la porta che dava sul corridoio. Ci sono cinque stanze e la cucina comune, le aveva spiegato Birgitta, ma durante l’estate ci abitiamo solo io e Jukka.
Forse anche Jukka era al lavoro. Comunque non era in casa, e Gunilla poté dare un’occhiata in giro. Nella stanza di Birgitta, negli spazi comuni. La cucina, il wc, il bagno. C’era un gran disordine, anche se tre quinti degli inquilini non erano presenti, e lei pensò che era proprio una studentessa baciata dalla fortuna: si sarebbe trasferita in un appartamento con il suo principe azzurro addirittura prima dell’inizio del semestre. Si ricordò che Birgitta aveva vissuto da inquilina i primi mesi, e che era stata felicissima quando aveva trovato una stanza a Rackarberget.
Principe azzurro? Da dove veniva quell’espressione? Aveva un retrogusto ironico che non le piaceva. Un principe azzurro racchiudeva qualcosa di inevitabilmente falso; cosa che Tomas Winckler non aveva affatto.
Non avrebbe saputo spiegare agli altri come potesse esserne così sicura, ma non aveva neppure intenzione di farlo. Il silenzio è d’oro.
Potrei sposarlo, pensò, anche subito, se solo me lo chiedesse.
Santo cielo! pensò dopo. Calmati, oca, e non dimenticarti la pillola! Hai solo vent’anni, non è meglio prima finire di studiare?
Aprì il frigorifero e decise che c’era bisogno di fare la spesa. Un ripiano e un vano dello sportello erano contrassegnati con il nome BIGGAN, ma in frigo c’erano solo un litro di latte, un tubetto di caviale e tre cipolle. Birgitta le aveva detto che al ristorante dove lavorava le offrivano tre pasti al giorno; se Gunilla voleva abbuffarsi doveva fare la spesa. Di Jukka non dovevano preoccuparsi.
Nella credenza, sul ripiano BIGGAN c’erano una confezione di cornflakes, un sacchetto di biscotti e del ketchup. Be’, pensò Gunilla, devo stare qui solo tre giorni. Sabato sarò nella mia cucina, che di certo non avrà questo aspetto.
Guardò l’orologio. Mancavano ancora tre ore prima di incontrare Tomas al Nybron. Provò un brivido di piacere pensando a lui, ma anziché infilarsi nella doccia rimase ferma nella sua decisione di andare a fare la spesa.
Era in anticipo di dieci minuti. Temeva di non trovare il posto, ma era come le aveva detto lui. Nybron era in pieno centro.
La serata era calda, eppure le strade erano deserte. Tomas glielo aveva detto. Fino al ritorno degli studenti, a fine agosto, Uppsala sarebbe rimasta una piccola cittadina svedese immersa nel pigro torpore estivo. Verde e graziosa, naturalmente, almeno sulla sponda sinistra del fiume, ma quasi vuota.
E a lei non dispiaceva. Anzi, poter familiarizzare tranquillamente con la città in quei due mesi, conoscere il nuovo ambiente prima di iniziare sul serio all’istituto d’inglese... cosa poteva desiderare di più?
Magari Tomas fosse stato libero come lei. Be’, non si può avere tutto. Avrebbe concluso il servizio militare a Polacksbacken alla fine dell’autunno, ma sarebbe stato libero quasi tutte le sere. Anche il sabato e la domenica, e a metà luglio – mancavano solo due settimane! – avrebbe avuto una settimana di licenza.
Si appoggiò con i gomiti al parapetto in legno del ponte per osservare l’acqua torbida che scorreva impetuosa sotto di lei. La mia vita, pensò, non potrà mai essere migliore.
Non si capacitava di come potesse passarle per la testa una cosa del genere quando solo poche ore prima si era fermata a piangere in un’area di sosta del Värmland, disperata per la meschinità della situazione. Decise di non approfondire la questione.
In ogni caso non ora. All’improvviso, sotto i grandi alberi della riva sinistra del fiume, vide arrivare Tomas a passo svelto.
Aveva un mazzo di fiori in una mano, una bottiglia di vino nell’altra, e mezz’ora dopo si ritrovarono su una coperta in un boschetto appartato sul pendio ai piedi del castello. Gunilla rise forte quando Tomas le raccontò che l’aveva rubata dal deposito militare. Sperava solo che non la trovasse troppo ruvida.