George Eliota
di Virginia Woolf
Leggere George Eliot con attenzione significa rendersi conto di quanto poco si sappia di lei. Significa anche rendersi conto della faciloneria, che non rende molto onore alla nostra capacità critica, con cui, in parte consapevoli e in parte maliziosi, abbiamo creduto all’ultima versione vittoriana che la vuole una donna illusa, capace di un fantomatico dominio su sudditi ancor più illusi di lei. In quale momento e per quale motivo si è rotto l’incantesimo è difficile accertarlo. Alcuni attribuiscono la causa alla pubblicazione della sua Vita.1 Forse George Meredith con la sua frase a proposito della «vivace organizzatrice di spettacoli» e della «peccatrice» sul palco ha fornito bersaglio e veleno ai dardi di migliaia di persone incapaci di prendere la mira ma felicissime di poterli scagliare. Per i giovani è diventata oggetto di scherno, il comodo simbolo di un gruppo di persone serie, tutte colpevoli della stessa idolatria e dunque tutte liquidabili con disprezzo. Lord Acton2 aveva detto che era più grande di Dante; Herbert Spencer3 fece un’eccezione per i suoi romanzi, quasi non fossero romanzi, quando bandì tutta la narrativa dalla London Library. George Eliot era l’orgoglio e il modello del genere femminile. La sua vita privata, poi, non era più attraente della pubblica. Alla richiesta di descrivere una giornata a The Priory, un visitatore confidava che il ricordo di quegli austeri pomeriggi domenicali aveva finito con lo stuzzicarne il senso dell’umorismo. Aveva provato tale soggezione di fronte alla solenne signora seduta nella sua poltroncina; aveva tanto desiderato dire qualcosa di intelligente. La conversazione era certo stata molto impegnata, come attestava un biglietto vergato dalla bella e chiara grafia della grande scrittrice e recante la data del lunedì mattina, con cui si accusava di aver parlato di Marivaux4 senza aver abbastanza riflettuto e confondendolo con un altro; ma indubbiamente, diceva, il suo interlocutore avrà già provveduto alla correzione. Comunque, il ricordo di una discussione su Marivaux con George Eliot in un pomeriggio domenicale non era affatto romantico. E si era sbiadito con l’andar degli anni. Non aveva acquistato valore pittoresco.
In effetti non ci si può sottrarre alla convinzione che il lungo volto pesante, con quell’espressione di vigore severo, accigliato e quasi cavallino, abbia lasciato un’impronta deprimente nello spirito di quanti ricordano George Eliot, ed è proprio quel volto a guardarli dalle sue pagine. Non molto tempo fa, Edmund Gosse5 descrisse come la vide una volta attraversare Londra su una carrozza scoperta:
Una sibilla massiccia, sognante e immobile, i cui lineamenti marcati, alquanto truci se visti di profilo, erano assurdamente incorniciati da un cappello all’ultima moda parigina, che in genere a quel tempo includeva un’immensa piuma di struzzo.
Lady Ritchie, con uguale abilità, ha lasciato di lei un ritratto più intimo, ripreso tra le pareti domestiche:
Se ne stava seduta accanto al fuoco, elegante nel suo bell’abito di raso nero, una lampada dal paralume verde sul tavolo lì accanto, sul quale vidi dei libri tedeschi, alcuni opuscoli e dei tagliacarte d’avorio. Era molto tranquilla e nobile nel portamento, gli occhi piccoli, fissi, la voce soave. Guardandola la sentii amica, non proprio un’amica intima, ma una persona d’impulso buono e benevolo.
Rimane un brano della sua conversazione. «Dovremmo tener conto del nostro influsso» mi disse. «Sappiamo per esperienza diretta quanto sia grande l’influsso che le altre persone esercitano sulla nostra vita; ricordiamoci che anche noi, a nostra volta, abbiamo lo stesso effetto sugli altri.» Una scena gelosamente custodita, affidata alla memoria: immaginandola rievocare e ripeterne le parole trent’anni dopo, ci par di udire, per la prima volta, il fragore improvviso di una risata.
In tutte queste testimonianze si avverte come il testimone, anche quando presente alla scena, abbia mantenuto le distanze senza lasciarsi coinvolgere e come negli anni non abbia mai letto i libri della Eliot alla luce di una personalità vivace, sconcertante o affascinante che lo abbagliasse. Nel romanzo, dove tanto spazio è dato alla personalità, l’assenza di fascino è una grave lacuna e forse i suoi critici, perlopiù uomini, si sono risentiti a livello inconscio per la mancanza di una qualità considerata supremamente desiderabile in una donna. George Eliot non era dotata di fascino né di grande femminilità; non aveva nulla di quell’eccentricità e di quel temperamento incostante che conferiscono a tanti artisti la semplicità accattivante dei bambini. Si intuisce che, come Lady Ritchie, molta gente la considerasse «non proprio un’amica intima, ma una persona d’impulso buono e benevolo». Se consideriamo questi ritratti con maggior attenzione, scopriamo che corrispondono tutti a un’illustre signora non più giovane, vestita di raso nero, che va in giro sulla sua carrozza a quattro ruote, una donna che ha superato le proprie battaglie uscendone animata da un profondo desiderio di essere utile agli altri, ma senza aspirare a intimità se non con la piccola cerchia che l’aveva conosciuta da ragazza. Sappiamo pochissimo dei suoi anni giovanili; ma sappiamo che la cultura, la filosofia, la fama e il carisma furono tutti costruiti su fondamenta molto umili: era nipote di un falegname.
Il primo volume della sua biografia presenta un resoconto particolarmente triste. La vediamo sollevarsi a fatica dalla noia insopportabile di una società gretta e provinciale (il padre, che aveva salito la scala sociale entrando a far parte della media borghesia, era un personaggio piuttosto scialbo) e divenire vicedirettore di una rivista londinese di alta impronta intellettuale nonché apprezzata compagna di lavoro di Herbert Spencer. Le fasi della sua vita si rivelano particolarmente penose nel triste soliloquio con cui John W. Cross6 la costringe a raccontarsi. Additata fin dalla prima giovinezza come una donna «che avrebbe sicuramente creato qualcosa come un centro della moda», George Eliot prese a raccogliere fondi per i restauri di una chiesa compilando una mappa della storia ecclesiastica; ne conseguì la perdita della fede, cosa che sconvolse il padre al punto da indurlo a rifiutarsi di vivere con lei. Seguì lo sforzo per la traduzione di Strauss7 che, già deprimente in sé e tale «da intorpidire lo spirito», fu ben poco alleviata dai tipici compiti femminili legati all’andamento della casa e alle cure da prestare al padre in fin di vita; si aggiunga la desolante convinzione di quella creatura tanto bisognosa d’affetto che il suo trasformarsi in intellettuale le avrebbe alienato la stima del fratello. «Me ne andavo in giro come un gufo,» ebbe a dire «con gran disgusto di mio fratello.» «Poveretta,» scrisse un’amica che la vide affaticarsi sulle pagine di Strauss tenendo davanti a sé una statua del Cristo risorto «a volte mi fa proprio pena con quella faccia pallida, malaticcia e quelle terribili emicranie, inasprite dalla preoccupazione per il padre.» Non si può leggerne la storia senza provare il forte desiderio che le fasi del suo pellegrinaggio fossero state, se non più facili, almeno più spensierate, eppure l’ostinata determinazione con cui procede verso la roccaforte della cultura cancella ogni pietismo. Fu un cammino molto lento e molto impacciato, ma sostenuto dall’impulso irresistibile di un’ambizione nobile e profonda. Infine, ogni ostacolo fu rimosso. Conosceva tutti. Leggeva tutto. La sua straordinaria vivacità intellettuale trionfava. La giovinezza era finita, ma non le aveva riservato che sofferenza. Poi, a trentacinque anni, nel pieno della maturità artistica e ormai pienamente libera, George Eliot prese la decisione, fondamentale per la sua vita e ancora importante per noi, di andare a vivere a Weimar, in sola compagnia di George Henry Lewes.8
Le opere che presto seguirono quell’unione, opere che di per se stesse ci forniscono un fastosissimo banchetto, sono accurate testimoni della grande liberazione raggiunta con la felicità personale. Eppure, già nelle opere degli esordi letterari è possibile verificare come certi eventi della sua vita le riportarono la mente al passato, al suo paese, alla tranquillità, alla bellezza e alla semplicità dei ricordi d’infanzia, lontana da se stessa e dal presente. Si comprende perché il suo primo libro sia stato Scene di vita clericale9 e non Middlemarch. L’unione con Lewes l’aveva circondata di affetto, ma date le circostanze e le convenzioni, l’aveva anche isolata. «Desidero che si sappia» scrisse nel 1857 «che non inviterei mai nessuno a venirmi a trovare se non dietro espressa richiesta.» Era stata «tagliata fuori dal cosiddetto mondo», disse più tardi, ma non se ne rammaricava. Bollata prima dagli avvenimenti e, più tardi, inevitabilmente, dalla fama, George Eliot perse la capacità di muoversi inosservata in mezzo ai suoi simili, da pari a pari: perdita grave per una scrittrice. Tuttavia, crogiolandosi nella luce e nel calore di Scene di vita clericale, sentiva che quella sua mente straordinaria riusciva ad aprirsi con voluttuosa libertà al mondo del suo «passato più remoto»; parlare di perdita non è dunque appropriato. Per un’intelligenza come la sua tutto era guadagno. Filtrata attraverso i diversi strati della percezione e della riflessione, ogni esperienza risultava arricchita e intensificata. Il massimo che possiamo dire per definire il suo atteggiamento verso il romanzo, in base al poco che sappiamo della sua vita, è che aveva fatto tesoro di certe lezioni che in genere si apprendono tardi, se mai si apprendono, e tra queste, forse, quella che più le si impresse fu la virtù malinconica della tolleranza. La Eliot ha un forte interesse per le vicende quotidiane e si trova del tutto a suo agio nell’indugiare sul tessuto casalingo di gioie e dolori comuni. Non le appartiene quel fiero romanticismo associato alla consapevolezza della propria individualità insoddisfatta e indomita che si staglia netta sullo sfondo del mondo. In contrasto al fiero egocentrismo di Jane Eyre, pone gli amori e i dolori di un vecchio prete tabaccoso, sognante davanti al suo whisky. I primi libri, Scene di vita clericale, Adam Bede, Il mulino sulla Floss, sono di una bellezza straordinaria. È impossibile valutare i meriti dei Poyser,10 dei Dodson, dei Gilfil, dei Barton11 e via dicendo, e di tutto quanto li circonda, annessi e connessi, perché sono lì, in carne e ossa, e noi ci muoviamo in mezzo a loro, a volte annoiati, a volte partecipi, ma sempre disposti ad accettare senza discutere tutto quanto fanno e dicono, privilegio che accordiamo soltanto ai peggiori eccentrici. Il flusso di ricordi e di humour che l’autrice riversa tanto spontaneamente su una singola figura, su una scena dopo l’altra fino a ricreare tutto il tessuto dell’antica Inghilterra rurale, è reso con tale naturalezza che non troviamo nulla da eccepire. Accettiamo; intuiamo quel senso di piacevole calore e di libertà di spirito che solo il genio creativo dei grandi scrittori ci procura. Ripresi dopo anni, questi libri elargiscono, al di là di ogni aspettativa, un’energia e un calore immutati, tanto che il nostro massimo desiderio è di oziare in quella calda atmosfera, come nel sole riflesso dal muro rosso del frutteto. E se nel sottometterci ai ghiribizzi dei contadini del Midland e delle loro mogli c’è un innegabile elemento di incosciente abbandono, accettiamo anche questo, viste le circostanze. Non ci vien voglia di analizzare perché ci sentiamo tanto generosi e profondamente umani. E nel considerare quanto sia lontano nel tempo il mondo di Shepperton12 e di Hayslope,13 quanto sia remota la mentalità contadina dai pensieri di gran parte dei lettori di George Eliot, attribuiamo la piacevole disinvoltura con cui ci accompagna dalla casa privata all’officina del fabbro, dal salottino di un cottage al giardino del presbiterio, al suo volere renderci partecipi di quella vita non per spirito di condiscendenza o per curiosità, ma perché la comprende profondamente. La sua non è satira. Dotata di una mente troppo lenta e impacciata per prestarsi alla commedia, la Eliot raccoglie nel suo grande abbraccio un folto mazzo di elementi essenziali della natura umana e li raggruppa liberamente con una sana e tollerante comprensione che, come si scopre a una seconda lettura, non solo mantiene freschi e liberi i personaggi, ma imprime loro l’inaspettato potere di muoverci al riso o al pianto. Ecco la famosa Mrs Poyser. Sarebbe stato facile sfruttarne le idiosincrasie fino allo sfinimento e, a dire il vero, la Eliot insiste forse un po’ troppo sulla risata in situazioni analoghe. Ma, come talora accade nella vita vera, una volta chiuso il libro la memoria dà rilievo a dettagli e finezze che tratti più spiccati ci hanno impedito di notare al momento giusto: allora ci ricordiamo che non godeva di buona salute; che in certe occasioni non parlava affatto; che era la pazienza in persona con la bambina ammalata; che amava Totty alla follia. Su moltissimi personaggi di George Eliot possiamo dunque riflettere e fantasticare scoprendo, perfino nei meno importanti, un’ampiezza e un margine dove si intravedono quegli aspetti che lei aveva inteso lasciare nell’ombra.
Eppure, fin dai primi libri, tra tanta tolleranza e simpatia umana troviamo momenti di fortissima tensione. La Eliot dà subito prova di sufficiente senso umoristico includendo nel suo repertorio un’ampia schiera di sciocchi e di falliti, di madri e di figli, di cani, di ubertosi campi dell’Inghilterra centrale, di contadini accorti o ubriachi di birra, di mercanti di cavalli, di albergatori, curati e falegnami. Su tutti costoro aleggia una certa aura romantica, la sola che George Eliot si consenta: quella del passato. Sono libri straordinariamente leggibili, senza pompa, senza pretese. Il lettore che abbia in mente buona parte delle opere del primo periodo, però, si renderà conto del graduale dissolversi della luce soffusa che ammanta i ricordi. Non è un venir meno del suo talento, che anzi, a nostro avviso, raggiunge la piena maturità in Middlemarch, un libro splendido che nonostante tutte le imperfezioni è uno dei pochi romanzi inglesi scritti per chi è diventato adulto. Ma il mondo dei campi e delle fattorie non la soddisfa più. Nella vita reale aveva cercato altrove un altro scopo; e anche se guardare al passato la calmava e confortava, già dalle prime opere troviamo tracce di uno spirito turbato, di una presenza esigente, dubbiosa e perplessa qual era George Eliot stessa. Nella Dinah di Adam Bede c’è qualcosa di lei, che si rivela più apertamente e completamente nella Maggie del Mulino sulla Floss. È Janet nel Pentimento di Janet,14 è Romola nell’omonimo romanzo, ed è Dorothea15 alla ricerca della saggezza, che trova non si sa bene cosa nel matrimonio con Ladislaw. Chi prende George Eliot di punta, lo fa, riteniamo, a causa delle sue eroine: e ha ragione. Senza dubbio queste donne le tirano fuori il lato peggiore, la spingono in situazioni difficili, la fanno apparire saccente, didattica, a volte grossolana. E tuttavia, se si potesse cancellare tutta quella congregazione femminile, ci si ritroverebbe con un mondo molto più ristretto e meschino, anche se artisticamente più perfetto, divertente e consolatorio. A giustificazione di questo insuccesso, ammesso che di insuccesso si tratti, si ricordi che George Eliot scrisse il primo racconto a trentasette anni e che, raggiunta quell’età, pensava ormai a se stessa con un misto di dolore e forse di risentimento. Per molto tempo aveva preferito non pensare affatto a sé. Quando poi, esauritosi il primo sprazzo di energia creativa e acquistata fiducia nelle proprie capacità, si mise a scrivere, partì da un punto di vista sempre più personale, ma senza l’abbandonarsi fiducioso della gioventù. Quell’autoconsapevolezza emerge ogni volta che le sue eroine dicono ciò che avrebbe detto lei stessa. Le camuffò in ogni modo possibile: le fece belle e ricche e per di più giunse ad attribuire a qualcuna un improbabile debole per il brandy. Tuttavia, sconcertante e stimolante a un tempo, rimane il fatto che la forza del suo genio la costringesse a farsi avanti in prima persona sulla tranquilla scena bucolica.
La nobile e bella fanciulla che insistette nel voler nascere nel mulino sulla Floss è forse l’esempio più chiaro della rovina che una protagonista può disseminare intorno a sé. Ispirata da una fantasia vivace, resta adorabile finché è piccola e può accontentarsi di fuggire con gli zingari o conficcare chiodi nella bambola; ma diventa grande; e prima che l’autrice se ne renda conto, si ritrova tra le mani una donna adulta che chiede quanto né gli zingari, né la bambola possono darle, e nemmeno il villaggio di St Ogg’s. Arrivano prima Philip Wakem e più tardi Stephen Guest. La debolezza dell’uno e la volgarità dell’altro sono spesso sottolineate; ma entrambi, nei loro difetti, rivelano non tanto l’incapacità della Eliot di tracciare un ritratto maschile, quanto l’incertezza, la fiacchezza e l’imbarazzo che le rendevano malferma la mano quando doveva concepire un compagno degno per le sue eroine. In primo luogo si trova lontana dal mondo familiare che amava e conosceva, obbligata a introdursi nei salotti borghesi dove i giovanotti trascorrono le mattinate estive cantando e le signorine ricamano senza tregua papaline per le fiere di beneficenza. La Eliot si sente fuori dal suo elemento, come dimostra la goffa satira contro quella che definisce «la buona società».
La buona società ha i suoi vini di Borgogna e i suoi tappeti di velluto, i suoi inviti a pranzo sei settimane in anticipo, i suoi turni per l’opera e le sue fantastiche sale da ballo... Per la scienza si affida a Faraday e per la religione alle alte gerarchie del clero che incontra nelle migliori case; che bisogno ha dunque di fede e di enfasi?
Non c’è qui traccia di ironia né di particolare intuito, solo uno spirito vendicativo che capiamo nascere da un rancore di origine personale. Ma per quanto sia terribile l’astrusità di un sistema sociale che si appelli alla simpatia umana e alla comprensione di un romanziere uscito dai propri confini, Maggie Tulliver16 ha fatto ben di peggio che trascinare George Eliot fuori dal suo ambiente naturale. Ha preteso che venisse introdotta una grande scena passionale. Maggie doveva amare, doveva disperarsi; doveva annegare avvinghiata al corpo del fratello. Più si esaminano le grandi scene passionali, più cresce in noi la tensione per la nuvola che prende forma e consistenza addensandosi sopra il nostro capo, per poi squarciarsi al momento della crisi con un diluvio di delusioni e di vane parole. In parte dipende dalla scarsa padronanza della Eliot sul dialogo, quando non sia in dialetto, in parte dal suo almeno apparente arretrare di fronte allo sforzo di concentrarsi sull’emozione come chi, non più giovane, abbia orrore della fatica. Permette alle sue eroine di parlare troppo. Dispone di scarsa facilità verbale. Le manca quel gusto infallibile che sceglie una frase e lì concentra l’essenza della scena. «Con chi ballerete ora?» chiede Mr Knightley, al ballo dei Weston. «Con voi, se vorrete invitarmi» dice Emma; e ha detto abbastanza. Mrs Casaubon avrebbe chiacchierato per un’ora, e noi avremmo guardato fuori dalla finestra.
E tuttavia, se si eliminano le eroine che non destano simpatia, se si confina George Eliot al mondo contadino del suo «passato più remoto», non solo se ne sminuisce la grandezza, ma se ne perde la vera essenza. Che sia una grande scrittrice è indubbio. L’ampiezza della prospettiva, i contorni vigorosi dei tratti principali, la luce rosata delle prime opere, la forza d’indagine e la ricchezza di riflessione delle successive sono una tentazione a dilungarci e diffonderci oltre i limiti che ci siamo imposti. Ma è alle eroine che vorremmo volgere un ultimo sguardo. «Ho sempre cercato di scoprire la mia religione fin da quando ero bambina» dice Dorothea Casaubon. «Allora pregavo tanto... ora è difficile che preghi. Cerco di non avere desideri che riguardino unicamente me stessa...» Parla a nome di tutte. È questo il loro problema. Non possono vivere senza religione e si impegnano a cercarla quando sono bambine. Tutte hanno la passione profonda e prettamente femminile per la bontà: il luogo dove ognuna di loro si raccoglie nella sua aspirazione e nella sua angoscia diventa allora il cuore del libro – silenzioso e privato come un luogo di culto. Ma intanto non sanno più a chi rivolgere la loro preghiera. Cercano uno scopo nel sapere, nelle consuete mansioni femminili, nel totale adempimento dei compiti riservati alla donna. Non trovano quel che cercano e non ce ne meravigliamo. La coscienza antica della donna, carica di sofferenza e sensibilità e rimasta muta per moltissimi secoli, sembra con loro raggiungere un apice, traboccare e pronunciare una richiesta per un qualcosa – non si sa bene cosa – che è forse incompatibile con i fatti dell’esistenza umana. George Eliot era troppo intelligente per adulterare quei fatti e dotata di un senso critico troppo acuto per mitigare una verità solo perché ostica. Se non fosse per il coraggio supremo del loro sforzo, la lotta delle sue protagoniste finirebbe in una tragedia o, cosa ancor più triste, in un compromesso. Le loro storie sono versioni parziali della storia di George Eliot stessa. Anche per lei il peso e la complessità dell’essere donna non erano sufficienti; doveva spingersi al di là del santuario e cogliere da sé i frutti radiosi dell’arte e del sapere. Stringendoli tra le mani come poche donne hanno saputo fare, non ha mai voluto rinunciare alla propria ricchezza – una visione diversa, una norma diversa – ma nemmeno accettare un compenso immeritato. La vediamo come un personaggio memorabile, elogiata in modo eccessivo, che si ritrae di fronte alla sua fama, che cerca rifugio disgustata tra le braccia dell’amato quasi solo lì potesse trovare pace e magari giustificazione, e che allo stesso tempo si protende con “un’ambizione insaziabile, addirittura famelica” verso tutto quanto la vita può offrire a una mente libera e avida di sapere, confrontando le sue aspirazioni femminili col mondo reale degli uomini. Indipendentemente dal risultato delle sue creazioni, lei raggiunse il trionfo. Nel ricordare quanto osò e conseguì, battendosi contro ogni ostacolo – sesso, salute e convenzioni sociali – imperterrita nella sua ricerca di sapere e di libertà finché il corpo, sfiancato da quel doppio peso, cedette esausto, deponiamo sulla sua tomba tutto l’alloro e le rose che possiamo elargire.
a. Tratto da Virginia Woolf, Il lettore comune. Sul dorso di un’idea, a cura di Daniela Guglielmino, il melangolo, Genova 1995, pp. 184-95 (trad. it. di Vittoria Sanna).