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Remi si strinse al braccio di Sam mentre gli allarmi antincendio risuonavano a tutto spiano nella sala. «Non ho intenzione di separarmi da mio marito.»
«La scelta non spetta a lei, signora Fargo.»
«Cosa succederà a mia moglie se collaboro?» chiese Sam.
«Quando si farà vedere, sola, fuori dall’edificio i miei uomini sapranno che l’esplosivo non va fatto detonare, sempre che non si presenti la polizia. La domanda dovrebbe farla piuttosto la signora Fargo, su cosa succederà a suo marito.» Inchiodò lo sguardo su Remi. «Si faccia vedere vicino all’ingresso, non usi il telefono e a suo marito non succederà nulla.»
«Sam...»
«Andrà tutto bene, Remi. Va’.» Indicò l’uscita, dove i dipendenti del museo stavano facendo defluire i visitatori.
Lei guardò Fisk negli occhi con freddezza. L’ultima cosa da fare era infastidirlo, quindi si rivolse a Sam. «Sta’ attento.»
Il marito le fece un cenno e lei si costrinse ad allontanarsi, dandosi un’ultima occhiata alle spalle mentre si avvicinava all’uscita, sperando che lui la guardasse.
Quando Sam e Fisk raggiunsero il fondo della sala, l’uomo di Fisk costrinse la signorina Walsh a girarsi, le sfilò una tessera magnetica bianca da una tasca e la usò per aprire la porta. Finalmente, Sam si voltò verso Remi. Incrociò le dita, si sfiorò una tempia e poi puntò un dito verso di lei.
Remi fece altrettanto. Era il loro codice privato per dire: Non preoccuparti, ti amo.
Sforzandosi di avanzare con calma tra la folla che veniva evacuata, cercò di mantenere un respiro regolare e di tenere la paura sotto controllo. Sam era abilissimo e, se c’era qualcuno in grado di avere la meglio su Fisk, quel qualcuno era lui.
Appena uscì, fu investita da una ventata d’aria fresca e si guardò intorno, udendo delle sirene in lontananza. I visitatori sostavano accanto all’ingresso, in uno scintillio di paillette e gioielli che brillavano sotto le luci e risaltavano sugli abiti lunghi delle signore.
L’aria era satura di risate e conversazioni sommesse. Nessuno sembrava in preda al panico.
Non vide ambulanze né ospiti con dolori al petto, veri o finti che fossero.
Fisk aveva mentito.
Che stupida. Certo che aveva mentito.
Girò sui tacchi e si avvicinò alla porta da cui gli addetti alla sicurezza continuavano a far uscire altri visitatori.
Quando tentò di entrare, una guardia allungò un braccio per fermarla. «Spiacente, signora. Deve restare fuori finché i vigili del fuoco non avranno messo in sicurezza l’edificio.»
«Mio marito», disse, con una mano sulla gola per sembrare in preda al panico, che in effetti avvertiva. «È... diabetico. Aveva bisogno dell’insulina ed è andato in bagno per fare l’iniezione, però non è uscito. Non... non lo vedo da nessuna parte. La prego. È nei bagni del primo piano, nell’atrio. Se potessi andare a controllare...» Lo implorò con lo sguardo. «Appena lo trovo, torno.»
L’uomo ci pensò su un attimo, poi annuì. «Dentro e fuori», disse.
«Grazie! Farò in fretta!»
Si diresse immediatamente verso l’atrio. Guardandosi alle spalle, capì che l’addetto alla sicurezza non le stava più prestando attenzione. Perfetto. Proseguì, vide una cinquantina di ospiti che scendevano dallo scalone curvo sulla sinistra. Due giovani dipendenti del museo erano ferme ai piedi della scala, su entrambi i lati, e ripetevano: «Vi preghiamo di dirigervi all’uscita più vicina. Grazie».
Remi fece per salire, sorridendo a una delle due. «Mi scusi», disse. «Sono preoccupata per mio marito. Non lo trovo e spero che sia di sopra.»
«Attenda qui, signora. Stanno evacuando chiunque si trovi ai piani superiori.»
«Grazie.» Ritraendosi, Remi andò a sbattere contro qualcuno, perse l’equilibrio e cadde addosso alla donna, mentre la borsetta le sfuggiva di mano finendo sul pavimento, con un gran tintinnio della catenella. «Oh, no», disse, cercando di raddrizzarsi mentre la donna l’aiutava a fermarsi. Mi dispiace moltissimo.»
«Sta bene?»
«Tutto a posto», rispose Remi. «Più che altro, sono imbarazzata. Non le ho fatto male, vero?»
«No. Ecco. Mi permetta di recuperarle la borsetta.»
«Ce la faccio da sola», disse Remi, superandola e recuperando la borsa dalla catenella. La strinse a sé e se l’appese a una spalla. «Non riesco a credere a quello che ho combinato. Questi maledetti tacchi alti.» Alzò gli occhi verso il piano di sopra. «Non lo vedo. Immagino di poter aspettare fuori.»
Remi si mosse insieme alla folla in direzione dell’uscita, nascondendo sotto la borsetta la tessera magnetica rubata, poi deviò rapidamente verso la sala. Dopo essersi guardata alle spalle per assicurarsi che nessuno la stesse osservando, puntò dritta alla porta che, sperava, l’avrebbe condotta da Sam. Strisciò la tessera, sentì il clic e la lucina diventò verde. Aprì e sgattaiolò oltre la porta, ritrovandosi nella tromba delle scale. Conservò la tessera magnetica in borsa e valutò la situazione: guardando verso l’alto, scartò quella direzione, quindi cominciò a scendere. Giù c’era un’altra porta, la aprì leggermente e vide che la via era sgombra, così entrò e si richiuse la porta alle spalle senza fare rumore.
Davanti a lei c’era un corridoio, si tolse le scarpe e si avviò. Superò diverse porte, tutte chiuse, proseguendo fino a un’intersezione a T. A sinistra un cartello sul muro indicava USCITA. Remi dubitava che avrebbero lasciato il museo, a meno che non avessero già trovato quello che cercavano, perciò prese a destra. Tre metri dopo, udì alcune voci lontane provenienti dal fondo del corridoio.
Rimase immobile, nel tentativo di cogliere qualcosa. Non capiva chi stesse parlando né cosa stesse dicendo.
Per lo meno, aveva preso la direzione giusta. Si schiacciò contro la parete e proseguì.
Le voci crebbero d’intensità.
«Continui a cercare.» Sembrava la voce di Fisk.
«Magari se mi dicesse cosa sta cercando...» disse una voce femminile.
«Gliel’ho detto. Qualcosa di tondo con dei simboli sopra.»
Remi avanzò lentamente, addossata al muro. La stanza da cui provenivano le voci aveva la porta socchiusa. Fisk era di schiena mentre osservava la signorina Walsh frugare tra gli oggetti su un tavolo. Marlowe, con il pugnale in mano, era accanto a loro. Remi non vedeva né Sam, né Ivan. Esaminò la porta. Era leggera, sarebbe bastata una spintarella. Si chinò in avanti e vi posò una mano sopra. Mezzo centimetro in più le consentì di scorgere l’interno di quello che sembrava essere il laboratorio in cui era stata catalogata la collezione Herbert. Varie armi erano sparpagliate sul tavolo, evidentemente non selezionate per la mostra al piano di sopra: una mazza ferrata senza impugnatura, un maglio, un vecchio scudo di cuoio e alcune parti di un’armatura. Nulla, purtroppo, che Remi potesse sfruttare come arma, a eccezione forse di una stella di ottone che un tempo era stata fissata allo scudo e le cui punte potevano essere abbastanza affilate da procurare qualche danno se scagliata con la forza giusta.
La porta si spalancò di colpo e Ivan le sbatté la canna di una piccola pistola davanti alla faccia. «Ferma lì.»
Remi diede un’occhiata nella stanza, scorgendo Sam in disparte, su una sedia, le mani legate davanti con una fascetta, ma incolume. «Non c’è bisogno di violenza», disse, guardando la pistola.
«Avresti fatto meglio a restare fuori.»
«Sarei felice di tornarci.»
«Troppo tardi», disse Ivan e la trascinò dentro la stanza.