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Belle lo chiamò proprio mentre stava uscendo dalla doccia. Come sempre, il semplice suono della sua voce gli accese qualcosa nel petto. Una fugace fiammata di orgoglio paterno.
Per il resto, ciò che aveva da dirgli non fu motivo di grande gioia. Erano più o meno d'accordo che si sarebbero visti durante il weekend. Per trascorrere una giornata insieme. O magari due. Lui aveva guardato con piacere alla prospettiva - alla maniera burbera e riservata con cui ancora aveva il coraggio di guardare con piacere alla prospettiva di qualcosa -, ma lei era stata invitata a una gita in barca alle isole. Per cui, gli dispiaceva se...?
Non gli dispiaceva. Chi era lui, per non vedere di buon occhio che la figlia diciassettenne, che amava sopra ogni cosa al mondo, facesse una gita in barca con degli amici coetanei, anziché doversi sorbire un padre con un principio di pinguedine, precocemente ingrigito e vagamente alcolizzato? Dio non voglia.
Sicuro? aveva chiesto lei. Sicuro che non sei arrabbiato? Magari possiamo fare il prossimo weekend.
Ma certo, aveva assicurato lui. Anzi, il prossimo weekend era meglio anche per lui. Era molto impegnato con il lavoro, al momento.
Forse lei gli credette, non era ancora così scafata.
Gli mandò un bacio attraverso il telefono e scomparve. Lui inghiottì un groppo e sbatté le ciglia per allontanare qualcosa di umido. Scese all'edicola e comprò l'Allgemejne. Fa' colazione e leggi le notizie, smidollato che non sei altro! pensò.
E così fece.
Qualche minuto dopo le nove era a Linden, in Aldemarckt, e un quarto d'ora dopo era riuscito a trovare Kammerweg. Parcheggiò dall'altra parte della strada, con il muso puntato verso Villa Zefyr, abbassò il finestrino e si preparò ad aspettare.
Linden era poco più di una cittadina. Venti o trentamila abitanti. Qualche piccola industria. Un birrificio abbastanza noto, una chiesa degli inizi del Duecento e un centro abitato cresciuto principalmente nel dopoguerra, casette monofamiliari e piccoli condomini. La breve distanza da Maardam la rendeva adatta al pendolarismo. Quando era adolescente ricordava di aver conosciuto una ragazza di lì; era bella e tranquilla, e lui non aveva mai avuto il coraggio di baciarla. Si chiamava Margarita, e chissà che fine aveva fatto.
Per il resto, Linden non era granché. Il pigro fiumicello Megel - anch'esso bello e tranquillo e, per quanto riusciva a ricordare, affluente del Maar - serpeggiava flemmatico attraverso l'abitato, inoltrandosi poi nel paesaggio pianeggiante in direzione nord-ovest. A sud del corso d'acqua correva un crinale, dove si trovava Kammerweg. A quattro chilometri abbondanti dal centro di Linden, con il suo municipio, la stazione di polizia, la piazza e ogni sorta di diavolerie e comodità moderne. E una chiesa del Duecento.
E un birrificio. Cominciava ad avere sete.
Verlangen sospirò. Si mise gli occhiali scuri, benché il sole non fosse ancora riuscito a filtrare attraverso la grigia coltre di nubi, e accese una sigaretta. Si concentrò sulla casa, che s'intravedeva appena tra le file di alberi e cespugli fioriti piantati lungo la recinzione per proteggerla da sguardi indiscreti, e cercò di stimarne il valore di mercato.
Almeno un milione di corone, concluse. Se non addirittura un milione e mezzo. Anche se loro erano in affitto, se non ricordava male le parole della signora Hennan.
La posizione appariva ideale. Un ampio giardino e un boschetto su un lato. Un terreno altrettanto esteso dall'altro, con una villetta immersa nel verde. Era lì che abitavano i Trotta, ci avrebbe scommesso, anche se non poteva esserne certo.
Sul lato della strada dove aveva parcheggiato non c'erano edifici, solo un pendio piuttosto ripido su cui una pista ciclabile asfaltata correva lungo il fiume in direzione della città.
Vivevano in splendido isolamento, pensò Verlangen con una punta d'invidia; la villa che intravedeva fra le siepi era di una tonalità azzurro polvere, non il colore più bello che avesse mai visto, ma che cavolo, nei suoi quarantacinque metri quadrati c'erano più tonalità di quante avrebbe potuto immaginarsi Kandinskij. E poi, sulla destra rispetto alla casa, svettava quello che sembrava proprio un trampolino bianchissimo.
Pure la piscina. Un campo da tennis e una bella veranda sul retro, dove sedersi a sorseggiare un bicchierino, perché no? Rifletté un momento su quanto potesse essere complicato ridurre in cenere l'intera baracca - preferibilmente con G dentro, mentre l'investigatore privato in persona salvava eroicamente la giovane signora dalle fiamme e con elastica falcata correva fuori dalla villa portandola sulle spalle -, ma fu costretto a interrompere le sue fantasie quando una lustra Saab blu superò a passo d'uomo le nere colonne di granito che segnavano l'ingresso della proprietà. Simili a due lacchè in perfetta uniforme, un po' rigidi e vagamente minacciosi, si ergevano lì esprimendo la loro muta disapprovazione per i visitatori sgraditi.
Dietro il volante era seduta una solitaria figura maschile. Non c'erano dubbi, era Jaan G. Hennan, anche se era riuscito a vederlo solo di sfuggita.
Chi poteva essere altrimenti? Barbara Hennan doveva avergli dato l'indirizzo giusto, in ogni caso.
Lasciò alla Saab un vantaggio di una cinquantina di metri, quindi avviò la sua vecchia e fedele Toyota e cominciò il pedinamento.
Un classico, pensò con insistente monotonia.
Hennan parcheggiò in uno dei vecchi vicoli dietro la chiesa e percorse a piedi un centinaio di metri verso la piazza. Scomparve nel portone di un edificio che ospitava negozi e uffici, tre piani in stile anni Cinquanta color beige. Verlangen riuscì a infilare la Toyota in uno spazio stretto sull'altro lato della strada. Spense il motore, si accese un'altra sigaretta e abbassò di nuovo il finestrino.
Osservava con attenzione le finestre, una serie di anonimi rettangoli sopra i negozi che davano sulla piazza. Una calzoleria. Un'agenzia di pompe funebri. Una macelleria.
Meno di due minuti dopo, una finestra si aprì sopra l'agenzia di pompe funebri. Jaan G. Hennan si sporse e vuotò mezza tazzina di caffè sul marciapiede. Poi richiuse.
Tipico, pensò Verlangen. Il solito cafone. Non si era neppure preoccupato di guardare se stesse passando qualcuno.
Reclinò lo schienale del sedile per mettersi più comodo. Aprì l'Allgemejne alle pagine sportive e guardò l'ora. Erano le dieci meno un quarto.
Okay, pensò. Eccoci di nuovo al lavoro.
Dopo aver letto due volte perfino i necrologi e aver fumato una decina di sigarette, Verlangen cominciò a pentirsi di aver deciso per una giornata senz'alcol.
Erano le undici e venti e cambiò rapidamente idea. Un paio di birre a pranzo - se avesse pranzato - poteva meritarsele, dopo quelle grigie ore di appostamento. Monotone come esercizi di meditazione in un monastero buddhista. Un amico di Verlangen aveva fatto quella fine un paio d'anni prima. Tibet, o Nepal o dove accidenti era finito.
Pure Hennan sembrava sparito. Si era affacciato una seconda volta alla finestra, poi nient'altro. Era rimasto imbambolato qualche secondo a fissare le nuvole, come se stesse riflettendo su qualcosa. O come se lo avesse colpito un lieve ictus. Poi si era voltato ed era scomparso dalla visuale di Verlangen.
L'oggetto. L'oggetto del pedinamento. La ragione per cui Verlangen se ne stava lì a girarsi i pollici sulla sua logora carretta giapponese nella sua logora vita per trecento corone al giorno. Carpe diem, 'fanculo.
Ripensò a Hennan. Alle vecchie - e alquanto limitate - impressioni che si era fatto di lui nel corso delle indagini preliminari di dodici anni prima.
Il processo era stato semplice. Le prove contro Jaan G. Hennan, una volta convinti un paio di tirapiedi a parlare, erano risultate schiaccianti. Per circa due anni Hennan aveva spacciato erba, eroina e anfetamine, costruendo una rete efficiente e accumulando qualcosa come uno o due milioncini. E lui non era nemmeno diventato tossicomane.
Niente di particolarmente strano, ma era stato soprattutto grazie all'instancabile lavoro di Verlangen e del collega Müller se le indagini avevano avuto successo. E se G aveva avuto quel che si meritava - due anni e sei mesi -, da cui ne era conseguito che loro due, G e Verlangen, probabilmente non si sarebbero mai più premurati di farsi gli auguri per i rispettivi compleanni e altri anniversari. Neanche se fossero vissuti cinquecento anni.
Ricordava il gelido disprezzo di Hennan durante gli interrogatori. Il suo testardo rifiuto di applicare una qualche moralità al suo sporco lavoro. Non c'era un briciolo di morale in quell'uomo, aveva detto Müller, e in questo c'era del vero. La sua sconfinata sicurezza di sé e il desiderio di vendetta che di quando in quando lampeggiava nel suo sguardo oscuro e inquieto non si potevano scacciare con un semplice gesto.
E i suoi commenti, poi. Che sembravano presi da una pellicola di serie B degli anni Quaranta: Un giorno tornerò. E allora dovrete fare attenzione, maledetti!
Oppure: Non crediate che vi dimenticherò. Siete convinti di aver ottenuto qualcosa, e invece questo è solo l'inizio della vostra rovina. Datemi retta, dannati leccapiedi, sparite e lasciatemi in pace!
Sicuro di sé? Be', a dir poco. Quando Verlangen ci ripensava, non riusciva a ricordare - almeno non così su due piedi - di aver incontrato nessuno con una pelle più dura e un ego più inossidabile in tutti gli anni che aveva passato in polizia. Ben quattordici. Perché c'era qualcosa di genuinamente minaccioso in Jaan G. Hennan. Una sorta di odio che covava lento e che non ci si scrollava di dosso tanto facilmente. Un'oscura promessa di rappresaglia e di vendetta; le minacce di ogni genere erano pane quotidiano in un ambiente come quello, ma nel caso di Hennan sembravano particolarmente concrete, una forma di malvagità vera e propria. Se Hennan fosse stato una malattia anziché un essere umano, pensò Verlangen, sarebbe stato un cancro. Nessuno aveva dubbi.
Un dannatissimo glioma maligno in mezzo al lobo frontale.
Scosse la testa e si raddrizzò sul sedile. Sentiva che la zona lombare cominciava a dolergli, così decise di fare una passeggiata. Solo due passi in piazza; erano al massimo cinquanta metri, non avrebbe perso di vista il suo uomo.
E se Hennan era davvero interessato a liberarsi di lui, sarebbe stata la cosa più facile del mondo. Gli bastava sgusciare fuori dall'uscita posteriore e sparire. Nessun problema.
Ma perché avrebbe dovuto farlo? Di certo non sapeva di essere sorvegliato.
Né chi lo sorvegliava sapeva perché lo stesse sorvegliando.
O Signore, pensò Maarten Verlangen chiudendo la portiera. Dammi due motivi per essere sobrio.
Alle dodici e mezzo Jaan G. Hennan uscì per andare a mangiare. Verlangen scese dall'auto e lo seguì attraverso la piazza e in un ristorante che si chiamava Cava del Popolo. Hennan scelse un posto vicino all'ingresso, Verlangen andò a sedersi a un tavolo con una panca all'interno del locale. Non c'era molta gente, benché fosse ora di pranzo; l'investigatore aveva una buona visuale su Hennan e ordinò ottimisticamente due birre e il piatto del giorno.
Hennan rimase seduto quaranta minuti: lesse il giornale, consumò una zuppa di pesce e bevve mezzo litro di vino bianco. Verlangen, per parte sua, fece anche in tempo a prendere caffè e cognac, e fu con la pia speranza di schiacciare un pisolino di un'oretta o un'oretta e mezzo che fece ritorno alla macchina.
E in effetti andò così. Si svegliò alle due e mezzo, quando il sole aveva squarciato le nubi e si era fatto strada attraverso il vetro sudicio del finestrino. La macchina si era trasformata in un forno e si rese conto che l'alcol aveva cominciato a piantargli dei chiodi nella testa. Controllò che la Saab blu scuro di Hennan fosse sempre al suo posto, scese e andò a comprare una birra e una bottiglietta di acqua minerale al chiosco davanti al municipio.
Quando le ebbe finite entrambe, erano le tre e dieci. Il sole pomeridiano era implacabile e gli abiti gli s'incollavano al corpo. Hennan si era fatto nuovamente vedere per qualche secondo nel rettangolo della finestra, parlando al telefono. Il custode di un parcheggio si era avvicinato a ficcare il naso, allontanandosi a mani vuote. Nient'altro.
Verlangen si tolse le calze e le infilò nel portaoggetti. La vita gli sembrò un filo più comoda, ma non più di tanto. Accese la venticinquesima sigaretta della giornata e valutò se prendere qualche iniziativa.
Dopo la ventiseiesima, l'edificio non era ancora esploso e l'aria non era diventata più fresca. Verlangen raggiunse il telefono pubblico davanti alla macelleria e telefonò alla sua cliente, che rispose dopo nemmeno due squilli.
"Ottimo" disse. "Ha fatto bene a chiamarmi. Come sta andando?"
"Magnificamente" rispose Verlangen. "Liscio come l'olio. Solo non mi sembrava il caso di telefonare stamattina. Suo marito è in ufficio. È stato lì tutto il giorno."
"Lo so" disse Barbara Hennan. "Ho appena parlato con lui al telefono. Tornerà a casa fra un'ora."
"È sicura?" domandò Verlangen.
"Sì, così mi ha detto."
Aha? pensò Verlangen. E perché cavolo vuoi che io me ne stia qui seduto ad aspettare di morire?
"Penso che per oggi possa bastare" continuò la signora Hennan. "Trascorreremo insieme tutta la serata, può riprendere il suo lavoro domani pomeriggio."
"Domani pomeriggio?"
"Sì. Può essere sul posto domani dopo pranzo e controllare cosa fa e come passa il pomeriggio e la serata? Soprattutto la serata. Ecco, per me sarebbe molto importante che non lo perdesse di vista in quell'arco di tempo."
Verlangen rifletté per un paio di secondi.
"Capisco" disse. "Farò come vuole. La richiamerò dopodomani, va bene?"
"Sarebbe perfetto" disse Barbara Hennan e mise giù.
Lui rimase ancora un momento immobile nell'aria soffocante della cabina telefonica, poi si accorse che l'uniforme grigio funerale di un'ausiliaria del traffico si stava avvicinando e si affrettò a tornare alla macchina.
Vita, dov'è il tuo mordente? pensò, avviò il motore e partì.
Benché avesse più tempo che nell'anticamera dell'inferno,Verlangen scelse di non tornare a casa a Maardam. L'alternativa delle lenzuola pulite gli sembrava troppo attraente, e alle cinque meno un quarto prese possesso di una stanza al Belvedere, un albergo semplice ma pulito in Lofterstraat, dietro il municipio.
Fra le sette e le otto cenò nella sala da pranzo color seppia al pianterreno, in compagnia di una squadra di nuoto di Varsavia. Mangiò una specie di ragù che gli ricordava vagamente la sua ex suocera. Non lei, ma i suoi pranzi domenicali, ed era un ricordo di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Acquistò due bottiglie di birra scura da portarsi in camera, riuscì a vincere il desiderio crescente di telefonare a sua figlia, e prima delle undici e mezzo si addormentò nel bel mezzo di un telefilm poliziesco.
Le lenzuola erano fresche e appena stirate, e anche se la giornata alla fine non era stata così analcolica come si era ripromesso, aveva ancora un certo margine prima del tetto delle dieci bottiglie.
Un buon margine.