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Van Veeteren descrisse a grandi linee la situazione a Hiller, il quale garantì che avrebbe fornito tutte le risorse a disposizione. Quindi il commissario si ritirò nel suo ufficio con una tazza di caffè e un pacchetto di sigarette.
La prima cosa che lo colpì, dopo essersi tolto le scarpe e aver appoggiato i piedi sulla scrivania, fu che si erano dimenticati di inserire la Trustor nell'elenco di Münster. Per evitare inutili malintesi, chiamò la compagnia e chiese di Kooperdijk.
Gli fu comunicato che il direttore era in riunione, ma che avrebbe potuto richiamare appena si fosse liberato. Di lì a dieci minuti, grosso modo.
Nell'attesa, Van Veeteren fumò due sigarette e finì il caffè. Venti minuti dopo era al telefono con Kooperdijk.
Il commissario riferì del suo colloquio con Verlangen e domandò con discrezione se fosse plausibile sottoscrivere le polizze più insensate.
Certo che sì, spiegò Kooperdijk in tono altezzoso. Era tutta una questione di termini e di rischi calcolati. Un affare fra la società e il cliente, due liberi attori in un libero mercato.
Van Veeteren s'informò più dettagliatamente sulle clausole dell'assicurazione sulla vita di Barbara Hennan, e ben presto gli fu chiaro che le cose stavano esattamente così come aveva raccontato Verlangen. L'intera somma - un milione e duecentomila corone - sarebbe stata versata al beneficiario, Jaan G. Hennan, quando la F/B Trustor avesse appurato che la causa della morte non rientrasse nelle categorie di omicidio colposo, omicidio volontario o suicidio.
Si usavano spesso quelle clausole? domandò il commissario.
Talvolta, spiegò Kooperdijk. Nella polizza era possibile inserire qualsiasi clausola. Era in tutto e per tutto un accordo fra la società e l'assicurato; in linea di principio era perfino possibile avere un'assicurazione sulla vita in caso di omicidio volontario o colposo. Naturalmente era piuttosto insolito, riconobbe. In trent'anni non gli era mai capitato.
Trentuno e mezzo, per la precisione.
Van Veeteren chiese se poteva richiamare se avesse avuto bisogno. Ringraziò e mise giù.
Devo controllare che compagnia di assicurazioni ho, pensò. Se è la Trustor, cambio domani stesso.
Poi gettò uno sguardo all'orologio e si rese conto che non avrebbe fatto in tempo a pranzare prima della riunione delle due.
Trovò un tramezzino avanzato in mezzo alla confusione sulla scrivania dopo la visita di Verlangen. Andò a prendere un'altra tazza di caffè e pensò che era comunque meglio di niente.
Alla riunione erano presenti tutti i convocati, tranne il sovrintendente Nielsen, che si stava occupando di un incendio doloso a Sellsbach, e l'ispettore deBries che era in permesso.
In sala riunioni c'erano il sovrintendente Heinemann, gli ispettori Reinhart e Rooth, e l'assistente fresco di nomina Jung. Oltre a Münster. E al commissario Van Veeteren. Sei detective qualificati. Non sapevano ancora quanti agenti avrebbero avuto a disposizione; soprattutto all'inizio ne sarebbero serviti parecchi. Il sovrintendente le Houde, della scientifica, era già stato contattato e informato della situazione. Un'ispezione meticolosa della residenza degli Hennan era già prevista per il giorno successivo.
Van Veeteren si schiarì la voce e diede a tutti il benvenuto. Pregò i presenti di aprire bene le orecchie e di ascoltare per dieci minuti con entrambi gli emisferi collegati. Infine, dopo il caffè sarebbero stati distribuiti gli incarichi.
C'erano domande, prima d'iniziare?
Nessuna domanda.
Il commissario illustrò il caso a partire dall'arrivo dei coniugi Hennan a Linden fino al colloquio con Verlangen quella mattina.
Quando Van Veeteren ebbe terminato, Reinhart commentò che era la faccenda più assurda che gli fosse capitata da tempo. Per Rooth era tutto chiarissimo, mentre secondo il timido Heinemann era una storia alquanto singolare.
"Che cosa facciamo se Hennan continua a negare tutto?" domandò l'assistente Jung.
"È proprio quello che farà" spiegò il commissario. "Non contano gli indizi che troveremo, né la forza delle nostre accuse. Non confesserà mai. È tutto così evidente, come dice Rooth, ma non è detto che al processo le cose andranno nello stesso modo."
"Certo" disse Rooth. "Ma adesso non doveva esserci il caffè?"
Van Veeteren prese il telefono e chiamò la signorina Katz.
La discussione, il caffè e l'assegnazione degli incarichi durarono un'ora. Nel frattempo Van Veeteren si accorse che stava lentamente perdendo la concentrazione. Le domande sulla gita ad Aarlach di Barbara Hennan, sulle attività di Hennan, sulle amicizie della coppia - tutto stava sfuggendo alla sua attenzione. Una nuvola di apatia si andava depositando sulla sua coscienza, e il commissario non riusciva a evitarlo.
Troppo caffè e nicotina, pensò. Domani mi mangerò un'arancia.
Münster e Reinhart fecero in modo che non venisse trascurato nessun dettaglio. Il carico di lavoro della sezione era già elevato; negli ultimi giorni Rooth e Jung erano stati impegnati con una rapina a Lohr, e c'erano priorità di vario genere. Reinhart aveva accumulato moltissimi giorni di ferie non godute. Gli sarebbero bastate per fare due volte il giro del mondo, a sentire lui.
"In aereo?" domandò Rooth.
"In bicicletta" specificò Reinhart.
Ma ciò che distraeva il commissario era l'imminente interrogatorio di Hennan. Al termine della riunione, si ritirò nel suo ufficio per prepararsi a quell'importante incontro.
L'interrogatorio era la parte del lavoro di polizia che Van Veeteren padroneggiava meglio di chiunque altro. Lo pensavano tutti i colleghi, e solo per falsa modestia avrebbe negato questo dato di fatto.
Il commissario sapeva come affrontare chi aveva qualcosa sulla coscienza. Bastavano poche battute, qualche occhiata incerta o un'eccessiva sicurezza, e Van Veeteren era capace - in undici casi su dieci, sosteneva qualcuno - di stabilire se chi aveva di fronte era innocente o colpevole. Aveva un talento naturale, che non lo tradiva mai e che faceva risparmiare centinaia di ore di indagini.
Una volta individuato il colpevole, il campo si restringeva drasticamente. Le regole del gioco cambiavano. Un corpo a corpo, il più delle volte. Faccia a faccia attraverso un tavolo zoppicante di masonite. Lo sappiamo tutti che sei stato tu. Guardami negli occhi. Lo sai che ho capito, non è vero? Lo vedo che sai che io so. Hai intenzione di confessare subito, oppure vuoi che andiamo avanti? Okay, io ho tutto il tempo del mondo... no, non puoi fumare. Altre due ore? Poi rimarrai in cella tutta la notte e tornerò domani mattina... no, il caffè purtroppo è finito.
Atteggiamento tranquillo e pause. C'era una bellezza intrinseca nella cosa. Una sorta di estetica brutale che ricordava la corrida o la vana lotta mortale dell'animale intrappolato. Non gli interessava sapere perché gli piacesse.
E adesso toccava a G.
Ripensò all'odio, al disgusto che provava per quell'uomo. Al fatto di considerarlo come un nemico. Si chiese in che modo tutto questo avrebbe influito sugli interrogatori - dava per scontato che sarebbero stati più di uno.
Difficile dirlo. Unire l'aspetto privato e quello professionale sarebbe potuto essere un punto di forza. Dovrebbe essere più facile per un pugile battere l'avversario se lo odia davvero. O no?
Era un paragone fuorviante, e decise di non proseguire su quella strada. Meglio porsi questioni più concrete.
Jaan G. Hennan era davvero colpevole della morte di sua moglie? C'erano dubbi in proposito?
Beyond a reasonable doubt.
Prese carta e penna e annotò i punti chiave.
Movente?
Metodo?
Occasione?
Era un caso da manuale. Il movente era chiarissimo. Almeno un milione e duecentomila corone. Il metodo era altrettanto semplice: Barbara Hennan era stata spinta ed era caduta da un'altezza di quattordici metri sul cemento, oppure era stata colpita alla testa e poi gettata nella piscina.
L'occasione invece era un punto meno chiaro. Era impossibile trovarsi nello stesso momento in due posti diversi, Jaan G. Hennan non poteva essere l'esecutore materiale dell'omicidio, se davvero si trovava al Colombine.
Ed era compito della pubblica accusa fornire una risposta - una risposta convincente - a tutti e tre i punti.
Ergo? si domandò il commissario, incerto fra una sigaretta e uno stuzzicadenti.
Sto forse dubitando della sua colpevolezza?
Scelse lo stuzzicadenti e cominciò a masticarlo.
Nemmeno per sogno. Quello è colpevole come Caino.
Ergo?
Rifletté qualche secondo.
Ergo c'erano due alternative.
La prima: G aveva lasciato il Colombine nel corso della serata. Nonostante gli occhi attenti, ma probabilmente un po' offuscati dall'alcol, di Verlangen.
La seconda: aveva un complice.
Nelle ultime ventiquattr'ore era giunto alla medesima conclusione almeno dieci volte.
Magnifico, pensò. Sto facendo passi da gigante.
Nel frattempo si erano fatte le quattro e mezzo e decise di uscire. Era mercoledì, e aveva di fronte a sé la piacevole prospettiva di una partita a scacchi contro Mahler giù al Circolo.
Mentre scendeva con l'ascensore, si chiese se G giocasse a scacchi.
Spero di no, pensò, e al tempo stesso si chiese perché.
Le partite furono tre. Una vinta, una persa e una pari. Spagnola, russa, nimzo-indiana. Van Veeteren avrebbe potuto vincere anche l'ultima, ma alla fine aveva sprecato un pedone. Quando uscì dal Circolo in Styckargränd erano le undici e mezzo e faceva ancora caldo.
Non è la sera adatta per infilarsi in un incerto talamo coniugale, pensò mentre camminava verso casa lungo Alexanderlaan e Wimmergraacht. Nient'affatto. Ma che alternative aveva?
La decisione gli balenò in testa mentre passava davanti alla propria auto parcheggiata a una ventina di metri dal portone di casa. Frugò nelle tasche in cerca delle chiavi e le trovò.
Perché no? pensò, aprendo la portiera. Un'ora in più o in meno non farà certo differenza.
Quando il commissario parcheggiò in Kammerweg, venticinque minuti più tardi, Villa Zefyr era immersa nel silenzio, inaccessibile come un obitorio. Spense il motore e scrutò lo scuro fogliame dietro il muro di recinzione. Neppure una luce accesa, né all'interno né all'esterno. G era in casa? Probabilmente no. Oppure stava dormendo. Era mezzanotte passata, non era impossibile che G avesse anche qualche buona abitudine. Anche se era poco probabile. Van Veeteren abbassò il finestrino, ma non riuscì a distinguere né il trampolino né la casa.
Ideale, pensò. Il posto ideale per liberarsi della propria consorte.
Scese dall'auto e accese una sigaretta. Per un istante pensò di scavalcare il muro e dare un'occhiata più da vicino al cuore di tenebra, ma lasciò perdere. Le intrusioni notturne non erano il suo genere, e un incontro con un assassino assonnato difficilmente sarebbe servito a qualcosa. Così si avviò a piedi verso Villa Vigali. Anche lì nessun segno di vita; un lampione gettava una luce giallastra qualche metro all'interno del giardino, ma niente di più. Lasciò cadere il mozzicone sul marciapiede e lo schiacciò con la scarpa. Ma cosa sto facendo? pensò. Quali forze sto cercando di esorcizzare?
Scosse la testa e tornò alla macchina. Tutt'a un tratto si accorse di avere fame.
Ma come faccio a pensare al cibo proprio adesso? si chiese.
Tuttavia non volle ignorare i segnali che gli lanciava il suo corpo, così tornò verso il centro di Linden e trovò un fast food aperto. Facendosi una buona dose di violenza entrò e ordinò qualcosa che si chiamava Double Hawaiiburger Special. Ne mangiò metà seduto su una panchina della piazza e gettò il resto ai piccioni. Due signore dalla condotta tanto palese quanto discutibile gli girarono intorno, ma nessuna di loro fece qualche tentativo più serio di invitarlo. Con un improvviso moto di vergogna, si ricordò del suo unico contatto con una prostituta; a diciannove anni, con un amico era stato in una casa di tolleranza ad Amburgo. In una stanza puzzolente di profumo dolciastro e frittura di pesce, aveva vissuto i venti minuti più imbarazzanti della sua esistenza. L'amico, per parte sua, aveva trovato l'esperienza molto stimolante, e la loro amicizia era scemata con la stessa rapidità con cui si svuota un lavandino quando si toglie il tappo.
Era quasi l'una meno dieci quando risalì sulla sua vecchia Ford nera, e durante il tragitto verso Maardam la stanchezza lottò ad armi pari con la nausea che lo invadeva.
Hawaiiburger, all'inferno, pensò. Mai più.