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Giovedì non tornò a Linden per assistere alle requisitorie conclusive, e quando Münster entrò nel suo ufficio nel tardo pomeriggio per comunicargli la sentenza, era già impegnato a lavorare con Heinemann a un altro caso.

 

"Quel bastardo se l'è cavata" disse Münster.

 

"Hennan?" chiese Heinemann.

 

"Hennan, sì."

 

"C'era da aspettarselo" disse Van Veeteren.

 

"Purtroppo sì" convenne Münster.

 

Heinemann si soffiò il naso meticolosamente.

 

"Sai quanto sono rimasti in camera di consiglio?" domandò il commissario.

 

Münster si sedette sul davanzale della finestra.

 

"Meno di mezz'ora, se ho ben capito. È andata proprio come aveva detto lei, commissario. Anche se non posso fare a meno di pensare che è uno scandalo che quell'individuo sia libero. Silwerstein non si è nemmeno voluto esprimere sulla possibilità di ricorrere in appello."

 

Van Veeteren chiuse di colpo un fascicolo che stava sfogliando.

 

"Sarebbe stato uno scandalo ancora più grande se l'avessero condannato" affermò. "E per ricorrere in appello sono necessari elementi nuovi."

 

"Già" concordò Münster rassegnato. "L'indagine non ha mai portato veramente a nulla di concreto. Avremmo dovuto rintracciare l'esecutore materiale, senza di lui è impossibile incastrare Hennan."

 

Van Veeteren non rispose.

 

"Mi chiedo come ci si muova, per ingaggiare un sicario" continuò Münster. "Forse avremmo dovuto scoprire un intermediario. Per cercare un assassino di professione non si mette di certo un annuncio."

 

"Me lo auguro" disse il commissario. "Ma nulla indica che non abbiamo davvero parlato con un intermediario. Non è detto che si lascino smascherare solo perché gli facciamo un paio di domande."

 

"Già, perché?"

 

Van Veeteren incrociò le braccia sul petto e si abbandonò contro lo schienale della sedia. Guardò fuori della finestra per un momento, prima di riprendere a parlare.

 

"Temo dovremo archiviare questa storia, Münster. Tanto vale accettare la situazione. Magari salterà fuori qualcosa fra un anno... oppure fra cinque o dieci... Ma per ora no, e abbiamo già sprecato parecchio tempo con G. Vai nel tuo ufficio e dedicati a qualcosa di più costruttivo, piuttosto."

 

"D'accordo" disse Münster. "Sì, in effetti ho parecchie cose da fare."

 

Si alzò, salutò Heinemann con un cenno e uscì.

 

Seguì qualche istante di silenzio. Il commissario si accorse che Heinemann stava riflettendo su qualcosa.

 

"Quel G" disse, pulendosi con cura gli occhiali con la cravatta. "Non ho mai avuto la sensazione che fosse il tipo."

 

"Che tipo?"

 

"Il tipo che ingaggia qualcuno perché faccia il lavoro al posto suo. Non so perché, ma è stato lì tutto il tempo..."

 

Il commissario lo fissò aspettando che proseguisse, ma inutilmente. Pazienza, pensò, e riaprì il fascicolo. Certe uscite sono tipiche di Heinemann.

 

"Vogliamo andare avanti?" disse.

 

"Eh?" fece Heinemann. "Ah, sì, sì, naturalmente."

 

Verlangen non era sobrio quando Krotowsky telefonò giovedì sera, ma anche in caso contrario non sarebbe cambiato nulla. Forse il dialogo si sarebbe svolto in modo un po' diverso.

 

"Il direttore Kooperdijk mi ha pregato di chiamarti" disse Krotowsky.

 

"Ci avrei scommesso" disse Verlangen.

 

"Forse sai anche di cosa si tratta, vero?"

 

"Non ne ho la più pallida idea."

 

"Come stai? Dalla voce sembri un po'..."

 

"Cosa? Cosa sembro?"

 

"Non importa" disse Krotowsky. "Il direttore mi ha chiesto di telefonarti, in ogni caso, per comunicarti che la tua collaborazione è sospesa."

 

"Collaborazione?" ribatté Verlangen. "Ma quale collaborazione? Schiavizzazione, avresti dovuto dire, maledetto leccapiedi!"

 

"Stammi bene a sentire adesso" disse Krotowsky. "Non c'è motivo che t'inalberi. In fondo, la situazione era chiara, e..."

 

"Sai cosa puoi fare, leccaculo del diavolo?" continuò Verlangen infervorato. "Puoi prendere il tuo grasso direttore e ficcartelo su per il tuo dannatissimo fondoschiena, per la miseria. Credi che non abbia faccende più importanti di cui occuparmi che starmene qui ad ascoltare i tuoi vaneggiamenti da mentecatto?"

 

"No, senti, adesso..." replicò Krotowsky. "Quando ci rivedremo farai meglio a..."

 

"Piss off!" urlò Verlangen e buttò giù il ricevitore.

 

Ecco, adesso li ho sistemati a dovere, pensò, e ruttò soddisfatto. Si protese per prendere la lattina di birra sul tavolo e si domandò dove si fosse cacciato il telecomando.

 

Il giornalista disse di chiamarsi Hoegstraa e di lavorare al Poost.

 

"Perché mi chiama a casa?" volle sapere Van Veeteren.

 

"Ho provato in centrale, ma hanno detto che era già uscito."

 

"Che cosa vuole?"

 

"Si tratta della causa contro Jaan G. Hennan. Oggi è stato assolto, e si dice che in passato lei ha sempre risolto tutti i casi con successo..."

 

Fece una pausa, ma Van Veeteren rimase in silenzio.

 

"... perciò vorremmo sapere cosa ne pensa, commissario."

 

"Non ho nulla da dire."

 

"Ma se è vero che..."

 

"Forse non ha capito. Non ho nulla da dire."

 

Seguì un altro silenzio.

 

"Aha" fece il giornalista. "Va bene, grazie, allora."

 

"Prego" disse il commissario.

 

Il discorsetto con Erich durò mezz'ora.

 

O almeno trascorsero trenta minuti dal momento in cui Van Veeteren entrò nella stanza del figlio a quello in cui uscì. Erich era seduto sul letto, lui sul bordo della scrivania. Ciò che si dissero avrebbe potuto occupare un tovagliolo di carta o essere riassunto in un sonetto, pensò, se qualcuno si fosse preso la briga di trascriverlo. Malgrado ciò, in qualche modo si capirono.

 

Almeno questa fu la sua impressione, e la conferma venne quando, al termine del colloquio, Erich prese un'iniziativa.

 

"In realtà il problema è uno solo" disse.

 

"Sentiamo" disse suo padre.

 

"È difficile stare al mondo" spiegò il figlio. "Come fai a tirare avanti, quando non hai voglia di vivere?"

 

All'inizio non capì cosa avesse detto Erich, ma poi le sue parole si coagularono in... in un grumo di ghiaccio che lentamente scese dentro di lui andando a fermarsi da qualche parte subito sotto il cuore.

 

Quando non hai voglia di vivere?

 

Suo figlio.

 

Una sequenza infinita di brevissimi istanti passarono mentre il ghiaccio ora s'induriva, ora si scioglieva un po', mentre tutti e due, padre e figlio, sembravano rinchiusi nella propria solitudine.

 

Van Veeteren non trovò una risposta, né parole da dire.

 

O meglio, aveva diverse cose da dire, ma gli parvero tutte troppo pretenziose, così lasciò perdere. Invece, rimasero seduti in una sorta di rispetto per le parole di Erich e per il silenzio. Trascorsero cinque minuti, forse dieci. Poi Van Veeteren strinse il figlio in un abbraccio impacciato e raddrizzò la schiena.

 

Si fermò sulla porta.

 

"Ricordati che ti voglio bene" disse. "Se credessi in Dio, pregherei per te."

 

"Lo so" disse Erich. "Grazie."

 

Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire, per cui verso mezzanotte uscì per una lunga passeggiata notturna con Bismarck. Girovagò per il Randers Park così a lungo che finì per passare davanti a ogni singola dannata panchina e a ogni singolo dannato cestino dei rifiuti almeno tre volte.

 

Come si fa a non aver voglia di vivere a quindici anni? si domandò.

 

Cercò di ricordare se anche lui all'età di Erich considerasse la vita un'inevitabile necessità, ma non ci riuscì.

 

Ci illudiamo che la vita sia più facile per i giovani, pensava. I genitori lo danno per scontato, ma è solo un equivoco.

 

E a proposito di equivoci, si ricordò involontariamente delle sue assurde riflessioni sul terzo fattore dell'equazione - come pure l'intuizione di Heinemann a proposito di G.

 

Che non era tipo da servirsi di un complice.

 

Che non doveva necessariamente esserci un terzo fattore.

 

Devo archiviare tutta questa faccenda, pensò il commissario. Almeno per un po'. Altrimenti impazzirò.

 

Accese una sigaretta, alzò il bavero del soprabito per proteggersi dalla pioggia e si avviò verso casa.

 

Mami era andata via.

 

Lontano lontano, avevano detto. Sia zia Peggy sia Adam, quello con un occhio solo che era venuto a prendere lei e le sue cose.

 

In un altro paese, forse. Di preciso non lo sapevano, ma lei non poteva più abitare da zia Peggy. Era passato molto tempo. Molto più della settimana che aveva detto Mami. Forse due settimane, forse di più. Era estate. Lei aveva dormito a casa di zia Peggy molte, molte notti, ma adesso era venuto a prenderla Adam.

 

Sarebbe andata in una casa, le dissero.

 

Una casa.

 

No, non una casa dove c'era Mami. Un altro tipo di casa, lei non sapeva che altri tipi di case ci fossero. Adam aveva una grande, morbida valigia verde dove misero le sue cose e i suoi vestiti. Zia Peggy aveva fatto il bucato, non c'era niente che puzzasse più di pipì. Adam indossava una canottiera a quadri, una di quelle con i buchi attraverso i quali si vedeva che era tutto peloso sul petto e sul ventre. Anche sulla schiena, faceva proprio schifo.

 

Forse Mami sarebbe tornata, un giorno, dissero. Sarebbe venuta a riprenderla, ma non adesso. Adesso era via da qualche parte, aveva molto da fare e non aveva tempo per occuparsi di lei.

 

Alla casa sarebbe stata bene. Altri bambini con cui giocare e un letto tutto per sé e un armadio dove riporre le sue cose. Un laghetto dove fare il bagno, perfino. Proprio accanto alla casa c'era un pontile dal quale tuffarsi, ed era ancora estate.

 

Avrebbero viaggiato per qualche ora a bordo dell'automobile di Adam. Sarebbero arrivati a destinazione verso sera, così lei avrebbe potuto subito cenare e fare conoscenza con i suoi nuovi amici.

 

Zia Peggy la sollevò da terra e la strinse a sé con i suoi cattivi odori e i suoi grossi seni. Adam si sistemò la benda nera sull'occhio e disse sbrighiamoci adesso, è ora di partire.

 

E metti nella valigia anche quelle stramaledette bambole.

 

Lei aprì la cerniera lampo e infilò dentro Trudi, ma si tenne Bamba sotto il braccio. Bamba non era una bambola che si può mettere via come se niente fosse, ma questo né Adam né Peggy lo capivano. Adam prese la valigia e uscirono dalla porta.

 

Non sapeva se essere contenta oppure triste. Era tutto così strano, e sarebbero passati molti giorni prima che Mami tornasse, questo lo capiva. Settimane e settimane. Ma lei non avrebbe più dormito a casa di zia Peggy.

 

Mai più.