21

Non era solo la bile a bruciarmi dentro.

C’era anche la rabbia.

Quella che inizia giù in basso nella pancia e riempie ogni fibra del tuo corpo.

Ti può fregare alla grande. L’avevo visto succedere troppe volte. Può risucchiarti tutto l’ossigeno disponibile e spingerti a fare delle idiozie.

Ma se la indirizzi nella giusta direzione, può darti la carica nel momento in cui più ti serve.

Mi piegai di nuovo in avanti, sciolsi la sciarpa ricamata di Anna e me la premetti contro il viso cercando di bloccare l’emorragia. E, forse, per sentire il suo odore per un’ultima volta.

Le toccai ancora la guancia. Dissi a lei e a Nicholai che sarei riuscito a portarci tutti fuori, e che poi avrei ucciso gli stronzi che ci avevano fatto questo.

Sistemai la sciarpa attorno al collo e tornai dove i proiettili avevano colpito la porta. Non l’avevano ammaccata troppo, ma si erano conficcati nel rivestimento di piombo. Mi lavorai quello più in alto in su e in giù finché riuscii a estrarlo. Poi infilai il dito nel buco e cercai di allargarlo, se fossi riuscito ad arrivare sotto la copertura al centro del pannello, forse potevo raggiungere dall’interno la serratura a ruota.

Se no, sarebbero tornati presto, adesso che si erano fatti qualche risata. Avrei aspettato. Come fa la fanteria quando finisce le munizioni mentre il nemico sta ancora attaccando. Si tolgono gli elmetti e aspettano di ammazzare a botte quegli stronzi o, almeno di morire provandoci.

Il piombo non cedette di un millimetro.

Mi slacciai la cintura, sollevai la fibbia e provai con il rebbio. Al quinto o sesto tentativo iniziai a fare breccia.

Dopo un’ora di duro lavoro con il rebbio e la fibbia riuscii a ottenere qualche risultato. Grondavo di sudore, ma avevo aperto uno squarcio di circa dodici centimetri nel rivestimento, e più lungo diventava più facile era fare leva per aprirlo di più.

Con un angolo della sciarpa di Anna mi asciugai il sudore e il sangue dal viso. Se non altro il flusso si era quasi fermato.

E intanto pensavo. Riflettevo su cosa potesse essere l’oggetto che Dijani aveva portato qui, e dove l’avesse preso. Il viaggio della Minerva era iniziato a Odessa.

Una WMD, un’arma di distruzione di massa?

Non mi pareva possibile. Quelle erano tenute sotto stretto controllo dagli uomini di Putin.

Ma se ne potevano recuperare facilmente dei pezzi che brillavano fra gli scafi arrugginiti dei sottomarini sulla costa del mar Glaciale Artico.

Dopo un’ora arrivai dove volevo. Vidi quattro bulloni cavi che probabilmente fissavano il telaio del meccanismo a ruota. E nient’altro.

Cosa mi aspettavo? Un pomolo come quelli che giri per entrare nel cubicolo di una toilette?

Mi pulii le mani sui jeans e respirai a fondo.

Poi sentii del rumore dietro il metallo che avevo tormentato, e una serie di scatti per sbloccare la serratura. Mi alzai in piedi, con un pezzo di piombo per mano, pronto a sbatterli sulla prima faccia che vedevo per poi continuare fino a che non crollavano o non crollavo io.

Respiri profondi, pronto all’azione.

Finalmente la porta si aprì.

La prima sagoma che vidi indossava abiti neri dalla testa ai piedi, con la scritta CARABINIERI a lettere dorate sul torace, e uno scudetto sulla manica sinistra, la versione del GIS della spada alata del Reggimento. Non entrò, si limitò a fare un passo indietro nel corridoio, lasciando che Luca entrasse nella mia cella, la sua torcia aprì un varco nell’oscurità.

Guardò prima me e poi i corpi nell’angolo.

Non fece domande. Conosceva le risposte.

Serrò i denti, mi strinse per un attimo la spalla e mi accompagnò fuori.

«Nico…»

«No.» Mi posai un dito sulle labbra.

Altri GIS si spostarono mentre Luca mi seguiva nel corridoio e su nella stiva attraverso il portello. Non mi fermai fino a che non scesi la passerella e mi ritrovai sul molo tra le luci lampeggianti.

Scrutai l’area circostante cercando – senza successo – la BMW e la Land Cruiser.

A quel punto ero pronto ad ascoltare.

Il GIS era arrivato venti minuti prima, troppo tardi per beccare Dijani e Rexho, ma in tempo per convincere i due a guardia della stiva a consegnare le armi.

«SAW? Mirini ottici?»

Luca scrollò le spalle. «Forse. Quegli affari sono tutti uguali per me.»

Il portello era aperto, perciò non avevano perso tempo a ispezionare i container.

Indicai il cancello di ingresso.

«La sicurezza li ha visti scaricare qualcosa dalla barca?»

«Sì.» Aggrottò la fronte. «Hanno detto che sembrava una bara.»

«Luca, quando portano i cadaveri all’ospedale, chiedi al patologo di fare il test per l’avvelenamento da radiazioni. Non credo che sia stato quello a ucciderli, ma il piombo laggiù c’è per un motivo.»

«Puoi chiederlo tu.»

Indicò ciò che restava del mio viso e mi accorsi che faticava a parlare. Stava annegando nel dolore che io cercavo disperatamente di ricacciare nell’oblio.

«No. Hai un’auto?»

Indicò un’Alfa Romeo di media misura a poca distanza dal cerchio di VM 90, e mi consegnò la chiave elettronica.

«Un telefono?»

Mi diede anche quello.

«E un’arma?»

Compresi dalla sua espressione che l’avrebbe avuta se avesse potuto. La bara confermava i miei sospetti sull’attività nel fienile. Ciò che avevano prelevato dalla barca doveva essere nascosto nel cimitero. E adesso che il GIS gli era addosso, anziché stare a cazzeggiare a Brindisi, secondo i miei calcoli Dijani sarebbe stato costretto a cambiare i suoi piani e lo avrebbe tirato di nuovo fuori prima dell’alba.

«Una cosa ancora. Chiedi a Pasha se si ha notizia di furti recenti di uranio della Marina sovietica. Magari da un sottomarino dismesso. Murmansk è piena di schifezze del genere. Tocca a te, amico.»

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