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Un breve viale di cipressi portava al cimitero di Monopoli. I muri esterni intonacati e le due coppie di colonne ai lati dell’imponente cancellata lo rendevano simile a una caserma costruita per resistere a un attacco di fanteria in piena regola. Ci passai davanti mentre raggiungevo il promontorio immediatamente a sud-est della città vecchia.

Superai un paio di piccole baie sabbiose piene di gente del posto e di turisti che si godevano il sole del pomeriggio inoltrato, e parcheggiai abbastanza lontano da una pizzeria che doveva aver vissuto momenti migliori. Comprai un litro di acqua minerale e una fetta di pizza che pareva aver subito un bombardamento strategico di formaggio, pomodoro e peperoni. La addentai mentre uscivo diretto alla punta più vicina.

Trovai un posto in mezzo alle rocce che mi dava copertura, e mandai giù l’ultimo pezzo di crosta e qualche sorso prima di prendere il binocolo. La cartina aveva mantenuto la promessa di una visuale ottima sul mio obiettivo, senza alcuna interferenza.

Non mi trovavo in un parco giochi per super ricchi, quindi il mare non rigurgitava di moto d’acqua e di yacht di lusso per abbronzature perenni. Due o tre squadre di canottieri sudavano vicino alla riva dal lato opposto, c’era qualcuno che nuotava e una boa, ma niente di più.

Monopoli, vista da qui, sembrava un manifesto turistico da sogno, un miscuglio di edifici bianchissimi e beige, incorniciati dal blu intenso del mare e dall’azzurro più chiaro del cielo. Passai in rassegna gli edifici da sinistra a destra. La cattedrale dominava la scena insieme a due imponenti ciminiere di una vecchia fabbrica, a un’altra grande chiesa e a una piccola fortezza posta a difesa dell’imboccatura del porto.

Poi c’era quello per cui mi trovavo lì: il molo in pietra che Luca aveva visto con Google. Fungeva anche da frangiflutti e al momento aveva due mercantili parcheggiati. Nessuno dei due aveva la scritta NETTUNO, ma c’era posto per un terzo e forse anche per un quarto.

Non c’era nessuna traccia di gru a cavalletto o di strutture di stoccaggio di qualsiasi genere, ma due moderne gru a torre gialle e un terzo argano montato su cingoli grande la metà erano schierati lungo il muro dietro, pronti a entrare in azione.

Abbassai il binocolo e inquadrai il tratto superstite delle antiche fortificazioni. In parte erano state convertite in quello che sembrava un piccolo albergo di lusso, con ombrelloni bianchi che bordavano il parapetto. Controllai i balconi nel caso Dijani e i fratelli Uran lo usassero come base operativa. Erano deserti. Subito sotto due uomini con la pancia che sporgeva dai calzoncini pulivano polpi in una piscina di roccia. Una postazione circolare per cannone sporgeva tra l’albergo e la fortezza. A un centinaio di metri sulla destra, all’estremità del molo, c’era un piccolo faro a strisce rosse e bianche e quello che sembrava un bunker della Seconda guerra mondiale.

Mi spostai sull’altro lato della punta. Un peschereccio solitario avanzava lentamente al largo. Un paio di traghetti passeggeri procedevano a tutto vapore verso Bari, forse, o forse verso un porto ancora più a nord. In vista non c’era nessun container.

Tornai lentamente alla Seat, avvolsi in un sacchetto di plastica i passaporti, le carte di identità e i soldi, misi in tasca la torcia e lasciai lo zaino nel bagagliaio. Il sacchetto finì sotto una roccia al margine di un tratto di boscaglia a venti passi da dove avevo parcheggiato. Poi mi avviai sul pontile che costeggiava la prima baia.

Mentre attraversavo il promontorio che la separava dalla seconda, il Nokia vibrò.

«Nico, abbiamo le prenotazioni di Dijani per ieri notte, stanotte e domani. Tutte in alberghi cinque stelle. Tutte pagate in anticipo. In sei località diverse: Otranto, Brindisi, Bari, Ancona, Ravenna e Venezia.»

«Praticamente tutti i maggiori porti dell’Adriatico.»

«Giusto.»

«Monopoli?»

«Monopoli no.»

«Si è registrato da qualche parte?»

«Per ora no.»

«Sta cazzeggiando.»

«A quanto pare.»

«A meno che tu non abbia un avvistamento confermato o di Dijani o della barca da qualche altra parte, io mi attengo al piano A.» Non avevo scelta. Non aveva senso andare avanti e indietro lungo la costa sperando in un colpo di fortuna. E il luogo in cui mi trovavo rispondeva a tutti i requisiti.

Mi tolsi la giacca, la misi su una spalla e mi unii a un gruppo che stava lasciando la spiaggia. Feci cenno con la testa e sorrisi a una serie di perfetti sconosciuti ogni volta che volevo passare per uno che non cercava altro se non un posto carino dove bere una birra.

Ora la passeggiata sotto i balconi dell’albergo era completamente in ombra. Anche i pescatori di polpi se n’erano andati. Rimasi in mezzo al gruppo e svoltai a destra, giù per una stradina in pietra che seguiva le vecchie mura dal lato della città.

Ogni tanto qualche automobile e qualche furgoncino per le consegne avanzava lentamente alle nostre spalle, ma quasi tutti erano troppo educati per chiederci di levarci e lasciare libero il passaggio.

M’infilai in un negozio che sulla porta pubblicizzava di tutto, dalle case per le vacanze alle connessioni internet, e presi un paio di cartine, una ingrandita del centro storico e una della città.

Subito dopo il piccolo albergo di lusso incontrai una piazza con parcheggi su ogni lato. La strada si restrinse di nuovo all’altezza di un condominio avvolto da ponteggi e cerate. Nell’insieme, tutto sembrava appartenere a un altro secolo. A cinque metri dal marciapiede una serie di pali sporgevano dall’impalcatura con un’inclinazione di quarantacinque gradi. Sostenevano una tettoia di legno che doveva proteggere i passanti dalla caduta di materiale o di operai.

La strada si biforcava, a sinistra proseguiva in un dedalo di vicoli. Io andai a destra, verso il porto.

Attraverso l’arco che avevo di fronte vidi una serie di ormeggi. La fortezza di fianco era un buon punto da cui fare una ricognizione su ciò che – se avevo ragione riguardo alla Minerva – sarebbe diventato il fulcro dell’azione. Ospitava una mostra di quadri e sculture locali e restava aperta fino alle 21.00, perciò seguii una giovane coppia nell’interno freddo e poco illuminato.

Nessuno di noi era molto interessato alle opere d’arte.

Salii la scala in pietra e quando raggiunsi la sommità fortificata compresi che era il punto di osservazione perfetto. Con me c’erano una decina di visitatori che si trovavano lì per ammirare i trecentosessanta gradi di panorama. C’erano già cinque binocoli in vista, dunque il mio passava inosservato. A una prima impressione, nessuno dei presenti era affiliato alla mafia albanese.

Questa volta iniziai guardando il mare aperto. All’orizzonte, altri tre pescherecci e una nave per il trasporto di gas liquido. Feci scorrere il mio Pentax in senso antiorario fino a raggiungere la prima imbarcazione del molo mercantile, poi la seconda.

Cercavo tre cose.

Una via di accesso a quella parte del porto.

Posti in cui Dijani avrebbe potuto collocare la sua base operativa avanzata.

E un qualsiasi segno della sua presenza o di quella degli Uran.

A parte i due uomini in uniforme accanto al cancello di ingresso, nel porto non c’era nessuno.

Esaminai la zona attorno alla guardiola.

Ai lati del cancello c’era una recinzione nuova.

Di fronte c’era una rotatoria.

Poi due condomini, forse di più.

Seguii la recinzione verso sinistra. Si estendeva su un muro di pietra alto che scendeva fino al mare. Poi la seguii verso destra, dove era inserita nella diga alla base del molo. Nel punto in cui il metallo incontrava la pietra vidi un mucchio di quei giganteschi cubi di cemento che venivano buttati lato mare per creare una barriera contro le onde.

Ciò che mi mancava era la prova evidente che trovarmi lì fosse stata la scelta giusta.

E se avevo preso una cantonata?

Mentre la possibilità di aver fatto una cazzata colossale mi invadeva la mente, abbassai il binocolo e mi presi virtualmente a schiaffi. Nessuno aveva mai detto che sarebbe stato facile. Non esisteva una formula che garantisse il successo, bisognava farsi bastare ciò che si aveva, ma in quel preciso momento avrei tanto voluto che quella formula esistesse.

Respirai a fondo un paio di volte e pulii con la camicia le lenti del binocolo.

Mi concentrai sulla zona del cantiere navale a ridosso delle due ciminiere. Barche in acqua. Barche su carrelli, su invasature, su sostegni sparsi per tutto lo spiazzo. Pezzi di barca sparpagliati a terra e negli ingressi scuri di officine in lamiera ondulata. Molto caos. Molti punti in cui nascondersi. Senza dubbio valeva la pena andare a vedere da vicino.

Ancora più a sinistra, a circa cento metri dalla fortezza, c’era un ampio scalo di alaggio in cemento nel punto più interno e più nascosto del porto. Scendeva verso un pontone, che costeggiava un tratto di mare dove erano ormeggiate le barche a remi. E fu in quel momento che vidi Elvis Uran per la quarta volta in sei giorni.

Aveva messo da parte la giacca di camoscio con i risvolti a punta ma aveva ancora la camicia di raso nera, i jeans neri a sigaretta e gli stivali di pelle di serpente. Dava l’impressione di voler recitare la parte del protagonista nel remake di I magnifici sette.

All’inizio non vidi la faccia ma solo la cocuzza lucida. Era affacciato dal pontone e, a giudicare dal linguaggio del corpo, stava impartendo una serie di istruzioni a un tipo su una barca a remi. Quando si rialzò e ritornò sul molo, non ebbi più dubbi. Aveva quella camminata non-provate-a-fottermi che non lo avrebbe mai fatto passare inosservato.

Elvis costeggiò lo scalo e attraversò spavaldo un passaggio ad arco che conduceva al cuore della città vecchia. Solo per un istante vidi la sua sagoma controluce sulla strada dietro l’arco, ma fu sufficiente a farmi capire che andava a sinistra.

Indossai la giacca, misi il binocolo nella tasca esterna e uscii dalla fortezza.

La mia cartina ingrandita mi disse che il modo migliore per raggiungere l’albanese era evitare il porto e andare a sinistra, e una volta all’esterno prendere la prima a destra.

Non potevo correre sulle strade lastricate: non era il caso. Ma dovevo muovermi in fretta. Se Elvis avesse svoltato verso la piazza principale, che aveva sei uscite, o verso il museo, che ne aveva sette, sarei rimasto fregato.

Quando via Orazio Comes diventò via Barbacana scorsi la nuca di tre teste lucide, ma non di quella che cercavo. Superai veloce la cattedrale. Ormai il sudore mi colava dalla fronte, e mi trovai all’angolo di una piazza più moderna e alberata. Guardai la fila di persone in attesa di comprare un gelato al Caffè Roma, e vidi Elvis uscire con due palline dai colori sgargianti in bilico su un cono.

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