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Mi liberai delle pistole e del coltello Laguiole ben prima di avvicinarmi alla periferia di Milano, poi mollai la Harley in centro e sostituii il casco con il berretto da baseball.
Ad Albertville avevo acquistato un cambio di vestiti, boxer compresi, in modo da non avere l’aspetto di uno che ha vissuto un mese per strada. Li indossai prima di prendere un taxi per Malpensa e arrivai al salone partenze del Terminal 2 poco prima delle tre del mattino. Il primo volo per Napoli era alle nove e quaranta.
Non c’era una sola sedia libera in vista, così m’infilai in un cubicolo dei bagni. Appesi lo zaino dietro la porta, posai il sedere sul sedile di plastica e aprii la cianografia della Minerva per l’ennesima volta. La allargai sulle ginocchia, nella speranza che qualche dettaglio innescasse il ricordo dell’incontro con Frank. Mi aveva detto perché cazzo era così importante? Mi aveva informato su dove avrebbe attraccato e quando?
Lo rivedevo mentre mi parlava indicando qualcosa. Vedevo le sue labbra muoversi, ma non avevo idea di cosa stesse dicendo. Era come guardare un film muto, o sorvegliare una persona dall’altro lato della strada senza ricevere nessun suono nell’auricolare.
Decisi di fare un pisolino. Con una spalla incastrata nell’angolo del cubicolo e un tizio fuori che sbatteva lo spazzolone dappertutto per pulire il pavimento, non era certo la situazione ideale. Ma da quando avevo lasciato Zurigo avevo passato nove ore sulla moto, e non mi andava di farne altre nove.
Mi tirai su alle sei. Occhi e lingua erano come carta vetrata, e mi facevano male il collo e la schiena. Infilai qualche euro in un distributore e mi lavai i denti, poi riempii un lavandino di acqua fredda, mi sciacquai la faccia e mi sentii di nuovo un essere umano, o quasi.
Non vedevo, né sentivo nessun gonfiore sulla testa, perciò tolsi la medicazione e controllai da vicino. La ferita non si era rimarginata del tutto, ma non avrebbe più sanguinato, a meno che qualcuno non mi avesse picchiato di nuovo. Fino a quel momento, poteva bastare il berretto da baseball.
Quando il salone partenze prese vita comprai un biglietto aereo e una copia di Il Diavolo in un’edicola. La sfogliai con un caffè e quattro o cinque fette di pizza, seguite da una brioche con la marmellata d’arancia.
In quel numero Luca Cazale firmava due articoli importanti. Il primo analizzava il ruolo della mafia nel traffico di esseri umani. Una moltitudine di rifugiati – dall’Ucraina, dalla Siria, dal Nord Africa e perfino dalla lontana Indonesia e dalle Filippine – consegnavano tutto ciò che avevano per sfuggire ai casini nella loro terra d’origine e poi venivano abbandonati a cavarsela da soli.
Verso la fine del 2013 il governo italiano aveva inaugurato l’operazione Mare Nostrum, un tentativo di salvare le vittime dei naufragi in acque internazionali, ma aveva dovuto rinunciare l’anno successivo. Costava nove milioni di euro al mese. Potevo soltanto immaginare quanti soldi guadagnassero i trafficanti.
Il secondo articolo di Cazale riguardava lo scempio fatto dallo Stato Islamico a Mosul e in Siria. Seguivo le vicende del Medio Oriente fin da quando ero stato fottuto in Iraq durante la Prima Guerra del Golfo, e il ragazzo davvero non le mandava a dire. La sua foto comunicava che non avrebbe fatto prigionieri e il suo modo di fare il giornalista manteneva quella promessa.
Chiamai il suo ufficio da un telefono pubblico, nominai Pasha e fissai un incontro.