14

Più tardi, dopo aver spento la luce, rimasi sdraiato completamente vestito e con gli scarponcini ad ascoltare i rumori all’esterno e il respiro di Stefan. Ripensai a quando l’avevo sfilato da sotto il corpo di Frank e a quando mi aveva stretto il collo con le braccia. Non ho mai avuto molto tempo da dedicare alle emozioni. Incasinano tutto quanto.

Stefan si girò per mettersi più comodo, le molle cigolarono. Seguì un momento di silenzio e poi un sussurro. «Nick…»

«Sì.»

«Dove seppelliranno mio padre?»

«Non lo so. Prima o poi lo riporteranno a casa.» Non avevo intenzione di dirgli che Frank era seduto su una nuvoletta con un gruppetto di angeli, e che vegliava su di lui. L’avevo già fatto qualche anno prima. Non serve.

«A casa?»

Lasciai la domanda in sospeso. Dovevo interrogarlo su Frank, ma quel genere di conversazione non mi era affatto utile. Casa? Non ero certo un esperto del settore, sarebbe stato meglio se non l’avessi mai nominata. Avrei dovuto sapere che quel ragazzino si stava domandando chi si sarebbe occupato di lui.

Un treno passò sferragliando, in lontananza.

«Nick…»

«Cerca di dormire. Ci provo anch’io.»

I tubi tremarono come se qualcuno al piano di sopra avesse tirato la catena. Chiunque avesse costruito l’edificio, non aveva sprecato i suoi preziosi euro per l’isolamento acustico. Per me non era un problema. Almeno avrei sentito se qualcuno si fosse avvicinato.

«Nick…»

«Sì.»

Non potevo biasimare il suo desiderio di spezzare il silenzio. Era un tipetto tosto, ma quando chiudeva gli occhi vedeva soltanto una cosa.

«Hai un figlio?»

Respirai a fondo. «Non ho mai avuto tempo per i bambini.» Feci una risatina. «Comunque, sono già abbastanza occupato con te.»

Rifletté per un paio di minuti.

«E allora quando invecchierai o morirai, chi porterà avanti i tuoi affari?»

Questa volta la risata fu sincera. Ero davvero in camera con un Frank in miniatura. «I miei affari non sono come quelli di tuo padre. E se avessi un figlio, vorrei che facesse qualcos’altro nella vita…»

«Cosa?»

«Ah, non lo so. Forse dei film. Toy Story, Monsters & Co.?» Non so da dove mi venissero quelle cazzate. Volevo solo stare alla larga da tutta la faccenda del padre.

«’Verso l’infinito e oltre…’» La sua imitazione di Buzz Lightyear fu piuttosto convincente.

«O un fuoriclasse del calcio.»

«Io gioco a calcio. Dopo aver finito i compiti.»

«Nel Brindisi?»

Rise di gusto alla battuta. «Non essere sciocco, Nick. Non sono abbastanza grande. Ma lo guardo quando papà mi porta…»

Ammutolì.

«Quando papà… mi… portava.»

Ricordavo vagamente che Frank aveva nominato l’Italia quando avevamo parlato nello studio verde. Ero precipitato dal versante italiano della montagna. E nella Range Rover c’era una cartina dell’Italia.

«Perché il Brindisi? Perché non il Manchester United o il Barcellona?»

«Mio padre non è proprietario né del Manchester United né del Barcellona. E da quelle parti non abbiamo nessuna villa.»

«Ci andate spesso?»

«Due o tre volte quest’anno.» S’illuminò di nuovo. «Mi piace molto stare in Italia, Nick. Mio padre è… era sempre felice in Italia. Tranne l’ultima volta.»

«L’ultima?»

«È successo qualcosa che lo ha reso triste.»

«Sai che cosa?»

«Un pessimo affare. Così mi ha detto.»

«Non ha aggiunto altro?»

Smise di parlare.

Non aveva senso insistere, se avesse saputo altri dettagli li avrebbe detti, era dell’umore giusto. Pensai anche che, per quanto Frank desiderasse che il figlio seguisse le sue orme, non lo avrebbe tenuto aggiornato su tutta la merda che galleggiava nella sua piscina.

Mi alzai dal letto, mi tolsi la giacca e andai in bagno a spruzzarmi gli occhi con l’acqua calda. Mi passai le mani fra i capelli. Il viso che mi guardava dallo specchio sopra il lavandino non sembrava più quello di uno sconosciuto. E avevo ripreso un po’ di colore.

La medicazione che avevo applicato allo chalet era pulita e copriva bene il lato destro della fronte, con piccoli lividi ai bordi. Non mi avrebbero mai confuso con un George Clooney pronto per il red carpet, ma non avevo neppure l’aspetto di uno che aveva appena fatto a botte.

Lavai il viso e le mani con uno schizzo di sapone e acqua, ma lasciai gli scarabocchi sul braccio. Il sudore del pomeriggio aveva pasticciato l’aquila della Adler, ma non mi serviva più. E l’indirizzo di Laffont era perfettamente leggibile.

Sentivo ancora un leggero indolenzimento sopra i reni. Tirai su la maglietta e mi girai. Sulla schiena era ben evidente la sagoma del palo da recinto, e il livido si stava scurendo. Claude ce l’aveva messa tutta per fottermi la spina dorsale e le costole quando mi aveva steso a terra, e anche se non aveva finito il lavoro si meritava un bel voto.

Mi chiesi se i due ragazzi fossero ancora chiusi nel fienile o se la loro mamma li avesse rimproverati e messi in castigo.

Claude doveva essersi incazzato ancora di più per non avermi sparato alla testa dopo aver scoperto che ero fuggito con una delle loro Honda. Non c’era da temere che mi riconoscesse in qualche foto segnaletica. Il nostro piccolo dramma si era svolto al buio.

Mentre rimettevo la giacca e mi sdraiavo, Stefan rimase in silenzio. Non credo che dormisse. Anch’io non ci riuscivo. Avevo troppe cose per la mente. O troppo poche. I ricordi delle ore prima dell’incidente erano ancora frammentari. E ogni tentativo di ricomporli non portava a niente. Forse la visita al banchiere di Frank avrebbe colmato qualche vuoto.

Nell’oscurità mi apparve un volto. Il volto di una donna. Bionda e triste. Aprì le labbra. Mi stava parlando. «Riesci sempre a cacciarti nei guai. Non puoi farci niente… sei fatto così.» Aveva un accento russo.

Anna? Forse avevo detto il suo nome a voce alta.

Mi allungai. Tentai di toccarla.

Ma ormai si stava allontanando, dove io non potevo raggiungerla.

Quando Stefan era andato a letto avevo spento la televisione, ma mentre lasciavo vagare la mente, due parole continuavano a venire a galla. Putin… Ucraina… Putin… Ucraina. Che ci fosse o meno una connessione tra lo psicopatico a torso nudo ex KGB e quello che era successo sulla montagna, non potevo correre rischi.

Presi lo zaino e a tastoni trovai il secondo Nokia, una batteria e le sim. Mentre giravo la chiave sentii una voce dal letto in alto. «Nick… dove vai?»

«Devo fare una telefonata. Non ci metto molto.»

Richiusi a chiave e tenni il portachiavi nel pugno. In un incontro ravvicinato poteva fare danni quanto la mia Sphinx fuori uso e sarebbe stato più facile spiegare perché l’avevo.

Andai sul retro dell’edificio con le camere, scivolai dentro un varco della siepe, e poi sotto la rete metallica che circondava la proprietà. Attraversai la striscia di terra che correva dietro e mi diressi verso i binari. Quando fui nell’ombra dietro il capanno dell’isola ecologica, infilai la batteria e la sim nel telefono e lo accesi.

Digitai un prefisso piantato così a fondo nel mio archivio mentale che anche un impatto a velocità massima non era riuscito a rimuoverlo.

A Mosca erano le cinque meno dieci del mattino, ma Pasha rispose subito.

«Amico, ho bisogno del tuo aiuto. Puoi richiamarmi su questo cellulare da una linea sicura?»

Pasha Korovin era un uomo di punta a Russia Today, e uno dei pochissimi di cui mi fidavo ciecamente. Era stato il direttore di Anna quando si era messa in testa di cambiare il mondo, e sapeva quando restare nell’ombra.

Chiusi premendo il pulsante rosso e attesi. Lo schermo del Nokia s’illuminò pochi secondi dopo.

Numero sconosciuto.

Andai subito al punto. Non c’era bisogno di convenevoli. «Due cose. Primo, sai dirmi se Frank Timis era nella lista nera del vostro capo supremo?»

«Frank è stato trovato morto ieri. Sulle Alpi.»

«Lo so. C’ero. Per questo te lo sto chiedendo.»

«Sono girate delle voci. Non sono mai stati… molto amici.»

«Puoi controllare?»

«Secondo?»

«Anna. Chiunque abbia ucciso Frank vuole morto anche me. Quindi se questo è un complotto di Putin, anche lei potrebbe essere nella merda. Potrebbero usarla per arrivare a me. Potrebbero ucciderla soltanto perché il suo nome è nella rubrica di Frank. Riesci ad avvertirla? Dille di mettersi in salvo con il bambino, fino a che non risolvo la faccenda. Lei sa cosa fare.» Non c’era bisogno di dirgli niente telefonate, messaggi o email, niente di tracciabile. Altrimenti mi sarei arrangiato io da qui.

«Adesso vado.»

Ci fu un clic.

Stavo per sfasciare il Nokia e pestarlo sotto il tacco quando i binari iniziarono a ronzare. Il ronzio si trasformò in un rumore sordo ritmato e qualche minuto dopo apparve un fascio di luce lungo la linea.

Attesi che il treno merci arrivasse dove mi trovavo, uscii dall’ombra, portai indietro il braccio e lanciai il telefono nel primo vagone aperto che passò. Se la risposta di Mosca al GCHQ aveva intercettato la telefonata, avrebbe subito concluso che stavo andando a Lione. E se non era così? Nessun problema, se non altro mi aveva strappato un sorriso.

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