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Dopo aver fatto due passi lungo la discesa, già avevo le suole delle Timberland piene di terra e per il resto del percorso scivolai aggrappandomi ai rami che incontravo per non perdere l’equilibrio. Il mio piano era di cominciare a ispezionare il punto più lontano del porto, e di proseguire a ritroso attraverso la foresta di gru e carrelli elevatori fino ad arrivare il più vicino possibile al settore presidiato dalla polizia e dalla Vigilanza.

Il posto a quell’ora non era molto affollato, forse per le normative sindacali o per il costo proibitivo degli straordinari. Individuai un po’ di movimento sul ponte di tre o quattro imbarcazioni, e poco altro sui macchinari che le sovrastavano.

Nella banchina più vicina all’imboccatura del porto non c’era traccia della Minerva. La Diana era parcheggiata al sicuro nella quarta banchina che incontrai, con la parte a punta rivolta verso il mare. Quando mi avvicinai, vidi che aveva di fronte la Vesta. Entrambe avevano un carico molto alto. Due container erano stati depositati sui pianali degli articolati, un terzo stava per essere calato.

Questa volta non potevo piazzarmi vicino alla passerella, salutando a caso l’equipaggio e fingendo di essere lì per incontrare un amico prima dell’alba. Perciò rimasi nascosto, al riparo di una gru a cavalletto.

Quando il primo autoarticolato si allontanò puntando verso l’ingresso del porto, il buio sopra il nastro trasportatore venne squarciato all’improvviso da luci lampeggianti azzurre e da sirene. L’autista del camion accelerò, e anch’io non rimasi fermo. Mi staccai correndo dalla struttura di metallo, cercando di tenere il container in movimento tra me e i carabinieri in avvicinamento mentre attraversavo il terreno aperto.

Quando mi trovavo ancora a trenta metri dalla linea ferroviaria l’autista girò il volante in controsterzo. La cabina ruotò verso di me, i fari mi accecarono. Continuai a correre. Non avevo altra scelta. E già avevo il presentimento che l’autista stesse per perdere il controllo. La spinta in avanti del carico e la curva stretta fecero staccare da terra tutti e tre i set di pneumatici di sinistra della parte posteriore. Anche la parte anteriore iniziò a sollevarsi. L’autista cercò di rimediare, i freni fischiarono, ma non c’era più nulla da fare. Il veicolo sferzò l’asfalto, poi iniziò a rovesciarsi sul fianco.

Si sentirono uno schianto fragoroso e lo stridore del metallo torturato, accompagnato da una doccia di scintille alta cinque metri e lunga venti. Ora quel dannato affare veniva verso di me e le sue ruote giravano minacciose come se volessero frullarmi. Ma i fari mi mostravano la via di fuga.

Deviai bruscamente a sinistra, allontanandomi. Superai di corsa una catasta di traversine e attraversai i binari. Mi trovavo a un paio di metri d’altezza sul terrapieno e stavo zigzagando attraverso i cespugli quando le luci lampeggianti azzurre raggiunsero il tir abbattuto. Non mi fermai a guardare. Volevo trarre il massimo vantaggio da quel diversivo, e dalla fitta vegetazione davanti a me. Potevo riuscire ad aggirarla e poi sbucare alla fine della recinzione, sempre che non ci fosse un altro distaccamento di polizia pronto a circondarmi dalla strada.

Appena mi trovai al coperto osservai la zona del disastro.

Gli automezzi erano Iveco VM 90. E gli uomini avevano la divisa blu del GIS. Quelli del Gruppo di Intervento Speciale erano amici stretti del Reggimento, e non cazzeggiavano mai. Di certo non erano lì per staccare multe per eccesso di velocità.

Non mi avevano visto.

E subito mi fu chiaro che non erano lì per vedere me.

Appena il primo veicolo inchiodò rumorosamente, saltarono giù in quattro con occhiali ed elmetti. Due rimasero indietro, con le armi puntate. Due si avvicinarono per cercare di aprire a forza i portelli del container. Chissà cosa cazzo speravano di trovare.

Gli altri cinque Iveco sfrecciarono oltre, poi si staccarono in sequenza raggiungendo il posto dove mi trovavo poco prima. Si fermarono a dieci metri dal posteriore della Diana, bloccando chiunque avesse pensato di scappare dai due gommoni che si stavano avvicinando a balzi dal mare.

Scesero altri uomini con occhiali ed elmetti, e con le armi puntate confluirono sugli articolati che non avevano ancora lasciato la banchina. I due autisti scesero e misero in chiaro che non erano in cerca di grane. Il terzo container era ancora appeso alla gru. Aprirono a forza le porte del secondo, collocato sul pianale.

Erano dall’altra parte rispetto a me e quindi dovetti aspettare prima di vedere cosa c’era dentro. Inizialmente uscì un’infinità di casse. I GIS si disposero a catena e le scaricarono passandosele. Quando gli ultimi avevano costruito una catasta di una certa altezza, sentii un urlo. Di nuovo armi spianate. Dieci minuti dopo, circa una ventina di persone erano a schiena china ed erano state radunate. Probabilmente si chiedevano cosa cazzo fosse successo, e chi fosse il traditore. Non erano destinati ad accamparsi nel parco.

Guardai l’autoarticolato disteso su un fianco. L’autista era riuscito a uscire dal parabrezza e gli era stato ordinato di sdraiarsi a terra con le mani dietro la nuca. Gli uomini del GIS stavano ancora cercando di aprire con una leva il container. Urlavano e agitavano mani e fucili, finché un incredibile boato concluse il lavoro al posto loro.

Qualsiasi cosa avesse innescato lo scoppio, il retro e il fianco del container esplosero e il contenuto schizzò ovunque come le schegge di una mina. Non riuscii a vedere quanti del GIS fossero sopravvissuti all’esplosione e non mi sarei fermato per contarli.

Mentre mi avvicinavo alla Seat la strada era ancora libera, ma quando avviai il motore, tre veicoli si erano già fermati accanto alla recinzione per godersi lo spettacolo. Partii, diretto a sud. Dovevo allontanarmi il più possibile da quella banchina.

E poi volevo controllare la costa per cercare un posto in cui una barca portacontainer potesse parcheggiare senza problemi. Perché più pensavo al casino che era appena successo, più mi dava l’impressione di una manovra diversiva.

Se una cosa non suona giusta, di solito non lo è.

Mi misi nei panni dei miei nemici.

Stavano progettando di trasportare qualcosa di nascosto. Non potevano permettersi di essere scoperti.

Palermo e Napoli, i due porti principali del quadrante sud-ovest, erano le maggiori centrali del traffico di esseri umani, quindi sarebbero stati anche il primo posto in cui chi era sulle loro tracce sarebbe andato a cercare.

Brindisi era più tranquilla, ma comunque gestiva carichi mercantili considerevoli. Era a meno di due giorni di mare da Istanbul e a soli centotrenta chilometri dall’Albania. Chiunque avesse Google a portata di mano, lo sapeva.

Allora, cosa avrei fatto al posto di Dijani?

Premetti il pulsante replay nel mio schermo mentale, rividi il primo autoarticolato in azione.

L’autista poteva essere una testa calda, o un uomo con la coscienza molto sporca, ma che bisogno aveva di partire a razzo, sterzare a destra e poi a sinistra? Sicuramente sapeva che avrebbe finito per rovesciarsi.

E poi l’esplosione.

Non si era trattato di una crepa nel serbatoio e di una scintilla vagante, ma di una scena perfettamente coreografata, con la garanzia di produrre il massimo impatto.

Hesco aveva praticamente confermato che avevano passato ai GIGN e ai TIGRIS informazioni su di me e su Stefan, per distogliere la pressione da loro e rendermi la vita più difficile. Quindi fornire ai GIS una dritta su un carico di clandestini in arrivo all’alba rientrava nello schema.

Parcheggiare due barche in un posto molto visibile, entrambe con un carico considerevole, e poi allestire uno spettacolo con fuochi d’artificio finali, avrebbe sicuramente attirato la loro attenzione.

Cose del genere non si fanno per puro divertimento, ma per tenere occupate le squadre di emergenza per le successive ventiquattro ore. Nel frattempo la barca numero tre sarebbe scivolata senza farsi notare in qualche posto tranquillo, dove avrebbe fatto quel che doveva.

E non si può attivare un’esplosione con tanta precisione se non si hanno occhi puntati sul bersaglio.

Quindi io non ero l’unico infiltrato nel porto.

C’era qualche altro stronzo, con il binocolo puntato e il pollice sul pulsante del detonatore. Rexho Uran era stato avvistato a Brindisi. Ora sapevo perché.

Detonator
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