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Alla stazione di Morzine mi procurai una cartina e un orario.

Da lì il percorso più diretto per la Svizzera era salire alla Vallée de la Manche e superare il Col de La Cou ma l’intera zona era un dedalo di sentieri per escursioni a piedi e in bici. Impossibile per le guardie di confine riuscire a presidiarli tutti.

Chiesi indicazioni alla signora dietro al bancone, e un sorriso speciale di Stefan rese tutto più semplice. Ruotai la cartina verso di lei, indicai il Col e le chiesi quanto ci si mettesse a piedi.

Rispose che potevo arrivare con l’automobile fino alla Mines d’Or, parcheggiare vicino al lago e avviarmi a piedi da lì. «In un’ora e mezza si arriva in vetta, forse lei può metterci anche meno.» Poi abbassò lo sguardo su Stefan e si morsicò il labbro. «Però non credo che vada bene per suo figlio, sono seicento metri di dislivello.» Puntò un dito verso il soffitto. «Molto ripidi.»

Ero giunto anch’io alla stessa conclusione. Non c’erano impianti di risalita e mai sarei riuscito a pedalare su e giù lungo il crinale con Stefan sul manubrio.

Le seggiovie più importanti avevano già aperto in altre località per la stagione estiva e avevo già individuato quelle che facevano al caso nostro un paio di valli più a ovest. Ma lasciai che continuasse a darci consigli, e annuii a tutto.

«Quindi deve assolutamente fare questo.» Mi porse un opuscolo con una riga verde bluastra e fotografie di papà, mamme e figli che si arrampicavano sulle rocce, pedalavano sulle mountain bike e si divertivano un mondo in piscina. «Il pass multiplo Portes du Soleil.»

Dava accesso a tutti gli svaghi su entrambi i lati della frontiera e ai trasporti necessari per raggiungerli. E a me forniva un ottimo posto in cui nascondere il ragazzino in piena vista, mentre tornavo indietro per recuperare l’automobile.

«Famiglia?»

«Scusi?»

Sorrise indicando Stefan.

«Vuole un pass famiglia?»

Ottima idea.

Mi rivolsi a lui. «Che ne dici? Alla tua sorellina piace la piscina.»

Non batté ciglio. «Anche a me piace nuotare!»

Scelsi l’abbonamento di sei giorni per me, mia moglie e i due bambini. Non mi costò molto e inviava un messaggio rassicurante: durante la vacanza noi quattro ci saremmo dedicati a un sacco di attività. Non eravamo noi due soli intenzionati a passare il confine senza dare nell’occhio.

Nella farmacia di fronte comprai dell’ibuprofene e una bomboletta di anestetico spray per Stefan augurandomi che la sua caviglia reggesse. Se no, l’avrei portato io. ’Fanculo, avevo trasportato uno zaino militare tre volte più pesante sulle Black Mountains con il termometro sotto lo zero e un sergente maggiore che mi strillava insulti nelle orecchie a ogni passo. In confronto questa sarebbe stata una passeggiata al parco.

La fermata successiva fu a un negozio di noleggio sci. Ora che la neve si era sciolta vendeva equipaggiamento per escursionisti. Comprai degli scarponi per Stefan. Non avevano i coccodrilli, ma l’avrebbero sostenuto meglio delle scarpe da ginnastica. Scelsi per lui un paio di racchette per mantenere l’equilibrio e moderare lo slancio, e ne presi un paio anche per me. Mi avrebbero aiutato a entrare nel ruolo.

Nello zaino finirono anche delle barrette energetiche e un paio di bottiglie d’acqua comprate al Casino lì vicino. Dopo aver dato a Stefan gli analgesici e una spruzzata al piede, eravamo pronti a partire.

Guidai fino a Les Lindarets e parcheggiai quasi subito accanto a un ristorante con grandi ombrelloni verdi e la salita come sfondo. In strada c’erano più capre che persone e nemmeno un vigile in vista. Il posto ideale, per me.

In pochi secondi raggiungemmo la ultime case del villaggio e proseguimmo oltre. Il primo dei quattro impianti di risalita che ci servivano era un chilometro e mezzo verso sud-est.

La valle non era piena di escursionisti, però non eravamo soli. Davanti a noi c’era un gruppo misto di fanatici, dagli ambientalisti sfegatati con barba e sandali che guidavano mogli e figli su per la salita ai maniaci della resistenza con attrezzatura d’avanguardia impegnati a battere ogni record di velocità. Noi stavamo benissimo in fondo alla classifica.

Mentre un paio di uomini di mezza età in tenuta di Lycra ci superavano pedalando, mostrai a Stefan come usare al meglio le racchette. Non ci vuole un genio per capirlo, mi comunicò la sua espressione. E per chiarirlo meglio, partì a razzo, muovendo le braccia in su e in giù, zoppicando appena.

Gli dissi che dovevamo fare ancora molta strada, e non c’era un premio per chi arrivava prima. «E se t’incasini la caviglia di nuovo, dovrai trovarti un altro scemo che ti porti a cavalluccio…»

Quando la salita si fece più dura rallentò un po’ e a metà del percorso era già pronto per una sosta.

Una barretta energetica e mezzo litro d’acqua ci portarono alla base di Les Mossettes. Seggiovia a quattro posti fino alla vetta.

Quando da giovane recluta ci ero venuto per l’addestramento invernale, di solito ci fermavamo lì con un caffè a osservare i campioni che facevano il salto mortale sullo Swiss Wall, così lo chiamavano. Se sbagliavi ad affrontare la parte concava all’inizio della discesa eri condannato a rivedere i tuoi sci solo dopo essere uscito dall’ospedale.

Poco prima di arrivare, il mio orologio Suunto mi disse che eravamo duemiladuecento metri sopra il livello del mare. Mostrai la scritta a Stefan. Scrollò le spalle. Probabilmente la sua stanza a Courchevel era più o meno alla stessa altitudine.

Alla stazione di arrivo vidi un’uniforme, ma era di un assistente dell’impianto, molto più interessato agli scemi che si filmavano mentre pedalavano sul Col che a noi. Un tipo con un quad si aggirava sul terreno brullo giù in basso.

Mentre scendevamo verso la Svizzera mi resi conto che qualcosa che aveva detto il ragazzo dell’Oman, mentre ci procuravamo un cancro ai polmoni e facevamo amicizia, mi continuava a ronzare nella mente. Molto spirituale, aveva detto di Mr Loverman.

Un vero credente.

Mi sforzai di ricordare se avessi mai visto il nigeriano con il tappetino delle preghiere, ma senza successo. «La tua GdC, era il tuo padrino, vero? E quindi andavate in chiesa insieme?»

Lui stava guardando i tetti di Les Crosets, lungo i pendii alberati nella parte più lontana della valle. «Ci andavamo quando ero piccolo. Non spesso, però. Poi lui ha iniziato a frequentare la moschea.»

Non sapevo se fosse importante. Forse la psicosi del fondamentalismo che stava attanagliando l’Europa stava contagiando anche me. Il fatto che si fosse convertito all’Islam non significava per forza che si fosse trasformato in Jihadi John. Ma registrai l’informazione per il futuro.

Altri due impianti di risalita separati da brevi tratti di cammino ci portarono a Champéry, un altro villaggio Disney, ai margini dell’area Portes du Soleil. Grazie al nostro multipass riuscimmo a entrare nel parco ciclistico.

Stefan pensò di essere in paradiso quando varcammo l’ingresso. Ovunque adolescenti über-fighi, con la tuta sporca di fango facevano acrobazie con le mountain bike. Era in corso un qualche genere di gara.

La pista principale sembrava un percorso di montagne russe, in parte su terreno brullo, in parte su erba, per un tratto all’aperto e poi attraverso gli alberi. Circuiti più piccoli offrivano altri dossi, salti, rampe e ponti, in mezzo a cui potevi fare acrobazie per una settimana o più.

E Stefan fu ancora più felice quando gli comprai un casco integrale, un paio di occhiali da sole Ali G, una maglietta con fasce fluo, guanti e paragomiti. Non sarebbe salito su una bicicletta, ma non si sarebbe fatto notare. E con quell’attrezzatura non l’avrebbe riconosciuto nessuno, a meno che non andasse a sbattere contro qualcuno che conosceva.

Gli dissi di farsi trovare in zona traguardo ogni mezz’ora fino a che non chiudeva il parco, perché lì l’avrei cercato. Poi lo salutai con un gesto affettuoso da padre e tornai da dove eravamo arrivati.

Da Les Lindarets a Champéry c’erano due strade. Scelsi quella che passava lungo il lago di Ginevra. Era quaranta chilometri più lontana ma soltanto venticinque minuti più lunga.

Così due ore e mezzo dopo aver salutato le caprette e gli ombrelloni verdi ero di ritorno al parco delle bici con un bel rotolo di franchi svizzeri in tasca e uno ancora più grosso nello zaino, e dicevo a Stefan di darsi una mossa.

Ci aspettavano ancora trecento chilometri.

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