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Un altro uomo scese dal lato del passeggero. Aveva i capelli rasati così corti che la testa scintillava sotto le luci intorno all’ingresso. Giacca di pelle. Forse scamosciata. Articolo standard da Europa orientale, ma più elegante. Non un giubbotto. Con i risvolti. Jeans neri aderenti.
Mi fermai il tempo necessario per impugnare la UZI e annotare il numero di targa sul Moleskine. Poi attraversai di corsa il parcheggio verso l’atrio mentre i due entravano.
Raggiunsi l’affollata reception in tempo per vederli inghiottiti dalle porte di un ascensore. Le frecce mi dissero che salivano ma non a quale piano.
Merda. Non conoscevo i loro nomi. Non sapevo neppure se alloggiassero lì.
Mi restavano due opzioni.
Sorvegliare le automobili.
Ottenere aiuto da qualcuno all’interno.
L’ideale era il servizio in camera. O chi le puliva. Loro sanno praticamente tutto ciò che avviene dietro le porte chiuse. Chi è più generoso con le mance. Chi è disposto a pagare grandi cifre per un «cuscino extra», come vengono chiamate nel codice alberghiero le prostitute.
Così avrei potuto beccarli tutti e tre insieme e chiudere la faccenda una volta per tutte. E se non ci fossi riuscito, avrei atteso che uno di loro prendesse l’auto.
Ma il mio primo obiettivo era l’ingresso delle cucine. Per trovarlo dovevo anzitutto individuare il bar o il ristorante. Il bagliore tremolante delle candele e la luce soffusa nelle finestre a destra dell’atrio mi convinsero che la direzione era quella. Il tintinnio dei bicchieri e qualche avventore che si gustava un liquore dopo la cena sul retro dell’edificio me lo confermarono.
Continuai a perlustrare la zona in cerca di Mr Loverman. Avevo visto gli altri due nell’ascensore, ma questo non voleva dire che fosse salito anche lui. Diversi gruppi e cinque o sei coppie sedute sotto stufe a infrarossi appese a tende parasole in stoffa si godevano la vista sul porticciolo colmo di yacht e la luna che luccicava sulla superficie del lago. Il ronzio delle conversazioni e gli occasionali scoppi di risate si mescolavano alla musica in lontananza e, più vicino, al cigolio delle sartie contro la foresta di alberi.
Costeggiai i tavoli tenendomi nell’ombra, ma salutando e sorridendo a chiunque posasse lo sguardo su di me, come si fa quando ci si trova sulla stessa barca. Puntavo alla rampa di scale che portava al piano inferiore. Non m’interessava il salone di prima classe, ma la sala motori.
Il porticciolo era illuminato, ma verso la fine, sotto al patio da cui ero sceso, era leggermente più buio. Girai dietro l’angolo e trovai ciò che cercavo: un paio di ragazzi in divisa da camerieri che facevano una breve pausa accanto alla porta. Pentole e padelle sferragliavano all’interno e qualche poveraccio veniva rimproverato per aver cotto troppo il filetto o per aver avuto la mano leggera sul condimento. Era l’ingresso posteriore, quello che portava in cucina.
Un ragazzo staccò la punta della sigaretta, s’infilò nella tasca dei pantaloni il mozzicone non fumato e rientrò. L’altro rimase dov’era con il pollice infilato nella cintura non proprio di alta moda. Tirò un’ultima boccata, gettò la cicca nel lago e si strofinò la barba sul mento.
Gli sorrisi in modo complice, pescai il pacchetto semivuoto di Marlboro ucraine dalla tasca e gliene offrii una. Chinò il capo giovane e ricciuto, ne prese una, e un’altra per dopo, e si sporse per accendere a entrambi. Odiavo quelle schifezze, ma bere e fumare è sempre stata la via più rapida per diventare amico di un perfetto sconosciuto.
«Français?»
Ridacchiò. «Non. Je suis d’Oman.»
Risi anch’io. «Muscat? Adoro Muscat.»
C’ero stato con il Reggimento, per addestrare l’esercito del sultano, ma questo non doveva saperlo.
«Salalah.»
Tesi la mano e strinsi la sua. «Magnifica.» Presi un tiro di Marlboro e mi sforzai di non vomitare. «Salalah. Magnifica. Forse anche di più di Muscat.»
Non avevo tutta la notte per scambiare ricordi di vacanze, ma ero disposto a perdere cinque minuti per scoprire se il ragazzo era in grado di indicarmi la camera di Mr Loverman.
«Davvero? Ci sei stato?»
Annuii. «In visita a mio fratello che lavorava in una banca. HSBC…»
La parola «banca» mi aveva fatto immediatamente guadagnare tutta la sua attenzione.
«Anche lui adorava l’Oman, mi ha portato dappertutto.» Mi fermai. «E tu? Come sei finito qui?»
Scrollò le spalle e guardò oltre la mia spalla sinistra. Forse aveva visto una barca che gli piaceva molto. Forse stava per rifilarmi una balla gigantesca. «Frequento l’università. A Lione.» Sospirò. «Ma cos’è che fa finire tutti dal nostro mondo al vostro, signore?»
«Il mio mondo non è così speciale. Credimi. Ma, sai, forse possiamo darci una mano a vicenda…»
Gli brillarono gli occhi quando presi una banconota da cinquanta dal fascio di euro di Frank e gliela infilai nella tasca della camicia. «Che turni hai fatto questa settimana?»
«Il solito. Attacco alle cinque e finisco alle due del mattino…»
«Al ristorante?»
«Annuì.»
«Fai servizio in camera, ogni tanto?»
«Capita, ma preferisco il ristorante.»
«Mance migliori?»
Era giunto il momento di altri cinquanta. La sua cintura era di pelle e aveva il logo Gucci, ma molto probabilmente era falsa. I segni e i buchi malfatti mi dissero che negli ultimi mesi era molto dimagrito, e tutto di lui, incluso l’orologio Casio graffiato, diceva che anche un centesimo gli faceva comodo.
«Sto cercando un tipo…»
Si ritrasse. Non molto, ma abbastanza da lasciarmi intendere che di colpo la nostra conversazione non era più piacevole quanto aveva pensato.
«Non preoccuparti. Non… in quel senso. E lui non è nei guai. È un mio amico. È un po’ che non lo vedo. Un nero grande e grosso. Nigeriano. Rasta. Sembra un rapper.» Sorrisi ancora e sollevai il pacchetto di sigarette. «Anche lui fuma queste.»
Lui si rilassò. «È arrivato ieri. Mi sta molto simpatico. Molto… spirituale. Un vero credente.»
«Sai il numero della sua stanza?»
«Il numero? Il numero della stanza è…» Gli brillarono gli occhi e la mano si mosse.
Altri cinquanta euro uscirono dalla mia tasca, ma prima che glieli passassi sentii una colluttazione da qualche parte sopra di noi. Poi un urlo e il rumore di vetri infranti. Cazzo. Perché ancora vetri rotti? Ma questa volta non erano di un’automobile. Forse di una bottiglia di vino. Sulla terrazza smisero le chiacchiere, e anche le risate. Una donna urlò. Guardammo entrambi in alto.
Non vidi niente fino a che non mi spostai all’indietro verso gli ormeggi. Buttai quel che restava della mia Marlboro nell’acqua e allungai il collo.
La colluttazione non era all’esterno del ristorante. Era su uno dei balconi dell’ultimo piano. Due sagome ne pestavano una terza, spingendola contro la ringhiera. Di lui vedevo soltanto la schiena. Ma fu sufficiente per capire che non avevo più bisogno dell’aiuto del mio nuovo amico dell’Oman per trovare Mr Loverman.
Se fosse stato più minuto, sarebbe stato più difficile farlo cadere. Ma il suo centro di gravità non era in basso e quindi quando perse l’equilibrio i suoi rasta potevano finire soltanto da una parte.
Riuscì ad aggrapparsi alla ringhiera e a guadagnare qualche secondo in più.
Poi, in un turbinio di braccia e gambe, disegnò un arco precipitando verso il basso.