23

Mi misi in cerca di un negozio di moto. Mi serviva un casco nuovo. Ne trovai uno integrale che poteva funzionare anche come scudo per il rientro dell’Apollo.

Quando tornai al bunker di Hitler, le Harley erano ancora schierate all’esterno, tutte inclinate verso sinistra. Alcune avevano il bloccasterzo inserito, altre no. Zurigo doveva essere fra i dieci migliori posti al mondo in cui i ricchi potevano riunirsi e mettere in mostra i loro giocattoli. Fuori dagli Stati Uniti, soltanto i commercialisti e i dentisti in pensione sembravano potersi permettere il lusso di possederne una. Quando il mutuo è pagato e i figli se ne sono andati di casa, dimentica che in vita tua hai cavalcato soltanto un motorino, e comprati una Harley, perché no? Non c’era da stupirsi che così tante vedove europee di cinquant’anni riscuotevano in anticipo le polizze sulla vita.

Non cercavo il modello più recente, o il più sfavillante, ma il più vecchio. Non ci misi molto a trovarlo. Una Electra Glide che aveva sulle spalle un bel numero di estati. I vecchi la preferivano perché entrambi i sedili erano comodi come poltrone. Consentivano di fare lunghi viaggi con le gambe distese.

Negli anni le selle di questa moto erano state usurate da parecchie chiappe, e anche le mie furono accolte calorosamente. La carrozzeria cromata era la versione metallica del grigio distinto. A me interessava soltanto una parte: l’interruttore di avviamento posto sul serbatoio, subito sopra il tappo della benzina. Incise sul coperchio personalizzato c’erano le parole Viaggia per vivere, vivi per viaggiare.

Curiosamente, la chiave di accensione non era la classica chiave di accensione delle vecchie Harley, ma serviva soltanto a sbloccare il pulsante di avviamento. Ed era questo il motivo per cui l’avevo scelta per fuggire. Presi la UZI e infilai la punta sotto il bordo del coperchio, per agganciare la linguetta che lo teneva in posizione quando si girava la chiave. Non m’importava se rompevo la linguetta. E neppure se rompevo l’interruttore. Avrei sempre potuto mettere in moto infilando la penna nel buco e girando.

Trovai la linguetta, poi tirai e spinsi con entrambe le mani fino a che cedette. Accesi e premetti il tasto dello starter sulla manopola destra del manubrio. I millesettecento centimetri cubici di pulsante virilità furono immediatamente sommersi dagli altoparlanti della radio ai lati della sella posteriore, che emisero una sonata di violino classico.

Inserii la frizione, misi la prima, e uscii sulla strada.

Verso le cinque avevo quasi raggiunto Annecy. Mi fermai alla successiva area di servizio e parcheggiai la Harley in fondo a una fila di parcheggi. Ai bagni c’era la coda, ma non ero lì per quello.

Mi tolsi il casco nuovo scintillante, lo posai su un tavolo da picnic e chiamai il numero di Laffont. Scattò subito la segreteria. Controllai il Suunto: 17.03. La precisione avrebbe dovuto essere la sua dote migliore, ma forse aveva perso il controllo. Quando l’avevo chiamato da Zurigo, la voce gli vibrava per la tensione.

Gli concessi dieci minuti prima di ritentare. Così ebbi modo di guardare nuovamente la cartina e vagliare le opzioni per un incontro. Due o tre posti a nord-ovest di Albertville promettevano bene. Fuori mano, raggiungibili con la scorta e con molte vie di uscita e di ingresso. Posti dove potevo arrivare per primo ed effettuare una ricognizione del luogo prescelto.

Se lui aveva suggerimenti migliori, lo avrei ascoltato. A patto che non fosse davanti al suo portone. L’avevo superato una volta, ed era già fin troppo.

Altri due tentativi di chiamarlo andarono a vuoto, e allora mi fu chiaro che non avevo scelta. Dopo aver superato la piazzola dei camionisti nei pressi di Ugine dove ero stato con Stefan, mi fermai e premetti il tasto di ripetizione dell’ultima chiamata. Segreteria. Brutto segno. Era già passata più di un’ora dal momento in cui avrebbe dovuto accendere il cellulare.

Tornai sulla strada e proseguii fino ai dintorni di Albertville. Il cielo del tardo pomeriggio era di quell’azzurro che si vede soltanto negli annunci pubblicitari delle vacanze ed era impossibile non notare il pennacchio di fumo che saliva dalla città vecchia. E i due furgoni della polizia che bloccavano la strada a cinquanta metri dall’ingresso della Banque Privée confermarono che l’incontro con Laffont era stato annullato.

Tornai indietro fino al parcheggio più vicino e raggiunsi a piedi la folla di curiosi radunati all’esterno del cordone. Gli edifici ai lati dell’ufficio di Laffont erano stati evacuati, e tre squadre di vigili del fuoco ce la mettevano tutta per impedire alle fiamme che fuoriuscivano dalle finestre di propagarsi.

I getti d’acqua che andavano su e giù lungo la facciata si trasformavano quasi interamente in vapore appena toccavano i muri surriscaldati. Un pompiere in perfetta tenuta da disastro urbano era appollaiato in cima a una scala pronto a saltare dentro il palazzo non appena fosse arrivato abbastanza vicino. Ma, a meno che il fuoco non si fosse scatenato sopra il piano terra e che il personale della banca non avesse trovato il modo di chiudersi nella camera blindata, dubitavo che sarebbe riuscito a portar fuori qualcuno.

Non ero l’unico motociclista fra il pubblico, quindi non era un problema tenere addosso il casco. Protetto dalla visiera scura, controllai la zona cercando un volto conosciuto o qualcuno che fosse lì per controllare il risultato dell’esplosione che aveva innescato.

Ci misi un po’, ma ne individuai uno per ciascuna categoria. L’uomo che inquadrai come potenziale piromane non si era fatto scoprire per il suo atteggiamento. Lo beccai perché l’avevo già visto. Testa lucida. Giacca elegante. Mentre usciva da una Maserati all’esterno dell’albergo a Aix-les-Bains una mezz’ora prima che Mr Loverman precipitasse dal balcone. E poi ancora davanti al cantiere della Adler la notte prima.

Era in mezzo alla folla nel punto più lontano dalle fiamme, dove un’altra coppia di furgoni teneva a bada i curiosi.

Mentre studiavo il percorso per raggiungerlo vidi l’assistente di Laffont a quindici metri di distanza, più a destra. Non era in perfetto ordine come quando mi aveva accompagnato nel suo ufficio, ma non era neppure bruciacchiata. Guardò verso di me, ma non cambiò espressione. Non mi aveva riconosciuto, in parte a causa del casco e in parte perché ovviamente era sotto shock.

Non mi avvicinai. Attesi che decidesse di aver visto abbastanza e che si districasse dalla folla in continuo aumento. A quel punto mi defilai anche io e la seguii a distanza di sicurezza. Non era difficile. C’erano un sacco di persone che avanzavano a zig-zag verso il posto che noi avevamo appena lasciato e che tenevano gli occhi puntati sulla tragedia alle nostre spalle. Lei procedeva contro corrente con lo sguardo dritto in avanti.

Attraversò la strada, lontano dal punto in cui avevo lasciato la Harley, e prese la successiva a destra. Non sapevo dove fosse diretta e forse non lo sapeva neppure lei. Stava facendo un’imitazione piuttosto credibile di un automa. Dopo un altro paio di svolte entrò in un bar e si sedette. Le lasciai il tempo di sistemarsi, tempo che a me servì per controllare che non fosse stata seguita, poi entrai anch’io.

Mentre varcavo la porta mi tolsi il casco, poi mi avvicinai al suo tavolo e mi sedetti. Per un attimo mi guardò come se non mi avesse mai visto, poi finalmente apparve un cenno di riconoscimento.

Mosse le labbra come se fossero state azionate da un telecomando. «Stava aspettando una sua telefonata. Poi ha… io…»

Mi chinai in avanti e la guardai negli occhi. Le lacrime raccolte sul mascara caddero e le rotolarono lungo le guance. «Quindi era sicuramente dentro?» chiesi a bassa voce.

Mi afferrò il braccio come se volesse paralizzarlo. Annuì e le lacrime caddero dalle guance sulla tovaglia. «Mi ha lasciato uscire prima. Mal di pancia… avrei potuto… ero uscita soltanto da due minuti quando ho sentito l’esplosione…»

Tolse la mano e prese un tovagliolo di carta mentre arrivava la cameriera. Ordinai due caffè con la schiuma e le lasciai il tempo di mettersi in ordine prima di ricominciare a parlare.

«Quando l’ho chiamato stamattina, era davvero preoccupato. Aveva scoperto qualcosa. Le ha detto di cosa si trattava?»

Le sue sopracciglia si sollevarono di scatto. Figurarsi. «Il signor Laffont… parlava poco, ma so che stava… indagando… sulla compagnia di navigazione italiana del signor Timis.»

«Forse una portacontainer? La Minerva

Annuì di nuovo, questa volta più lentamente, ma con maggior convinzione. «Minerva

Un’altra lacrima si formò e cadde.

«Non è stato un incidente, vero, signore?»

«No.» Non c’era motivo di prenderla in giro. «Quindi domani deve riferire tutto alla polizia. E adesso, deve andare in un posto sicuro…»

«Dal mio ragazzo?»

Le dissi di restare lì e di chiamarlo perché la venisse a prendere. Di non parlare di me con la polizia se proprio non fosse stato necessario.

«Ah, un’ultima cosa. Conosce l’indirizzo della casa vicino a Brindisi del signor Timis?»

«Certo. Ho preparato io le carte.» Mi fornì i dettagli. «In effetti, è più vicina a un posto che si chiama Ostuni…»

Non attesi l’arrivo del caffè. Forse lo avrebbe bevuto il suo ragazzo, se fosse arrivato in tempo.

Pagai al bancone e uscii.

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