16

Ripetei la lezione il mattino dopo.

Le persiane dovevano restare chiuse, era più sicuro, e poi così la camera poteva sembrare non occupata.

«Puoi tenere accesa la luce del comodino. Puoi leggere Dostoevskij, guardare la televisione però senza audio. Se pensi che qualcuno stia cercando di entrare, non perdere tempo. Esci subito dalla finestra del bagno e scappa. Prima dentro la siepe, poi sotto la recinzione. Il varco è grande abbastanza. Ci sono passato io ieri sera. Come raggiungi l’ERV?»

Gli occhi si illuminarono. «Seguo gli alberi, prendo la stradina e raggiungo i binari. L’ERV è il capanno del riciclo…»

Molto bene. A me serviva che lo facesse d’istinto, prima ancora che potesse pensare di esserne fuori.

«E dove esattamente nel capanno?»

«Dietro il bidone del vetro. Non uscirò finché non ti vedrò.»

«Verranno tante persone a gettare la spazzatura. Come farai a sapere che sono io?»

«Busserai tre volte, e poi altre tre, e poi dirai la parola d’ordine.»

«E qual è la parola d’ordine?»

S’incupì come se gli avessi dato un brutto voto.

Sorrisi e gli posai le mani sulle spalle. «Non l’abbiamo ancora scelta. Deve essere qualcosa che sappiamo soltanto io e te.»

Si concentrò con serietà.

Ma io non avevo tutta la giornata. «Facciamo così: chi è il personaggio principale di Delitto e castigo? Sai lo studente mezzo matto?»

«Raskolnikov.»

«Usiamo lui, ti va?»

Annuì lentamente. «Ma cosa significa ERV, Nick?»

«Emergency rendez-vous. È un posto sicuro dove possiamo incontrarci e di cui nessun altro è a conoscenza.»

Voleva dimostrarsi coraggioso ma sapevo che non era del tutto convinto. Mi afferrò il braccio. «Ma perché non posso venire con te?»

Staccai piano la mano. «Purtroppo i bambini non sono ammessi, nel posto dove devo andare.» Era la prima scusa che mi era venuta in mente, mio padre me lo diceva sempre quando andava al pub.

«Quanto starai via?» chiese con il labbro tremante. Si sforzava di essere forte quanto avrebbe voluto suo padre, ma una parte di lui avrebbe voluto rannicchiarsi e sperare che tutto svanisse.

«Cercherò di fare presto. Prima del tramonto. Ma se non torno, non preoccuparti.»

Gli passai il sacchetto di cibo che avevo comprato a un supermercato poco distante prima che si svegliasse: acqua, aranciata, un croissant e una baguette con prosciutto e formaggio.

Indicai la chiave della camera, gli dissi che appena uscivo doveva dare due mandate e tirare il paletto e di aprire soltanto a me e a nessun altro.

«Sempre tre colpi, poi altri tre, poi Raskolnikov?»

«Esatto.»

Appesi l’avviso Non disturbare alla maniglia esterna. Poi mi strappai tre capelli dalla nuca, mi sputai sui polpastrelli e li incollai a distanza regolare sulla fessura tra lo stipite e la porta. Se al mio ritorno non erano al loro posto, non voleva dire con certezza che avevano rapito Stefan, ma io avrei saputo che dovevo organizzarmi prima di entrare.

La mia prima fermata fu alla farmacia, dove trovai un espositore di occhiali a ingrandimento e montatura di plastica nera. Se li avessi portati a lungo mi avrebbero fatto venire mal di testa, ma non era questo il mio piano. La tappa successiva fu in un negozio di abbigliamento, dove comprai il genere di giacca che la gente indossa quando va a trovare il direttore della banca. Mentre andavo alla cassa vidi un basco blu coordinato, ma non avevo intenzione di trasformarmi nella caricatura di un francese, volevo soltanto nascondere la ferita alla testa. Optai per un berretto da baseball blu. Non quello con il logo di Top Gun davanti: non era adatto all’occasione.

In una cartoleria lungo la strada acquistai un taccuino Moleskine tascabile con l’elastico. Scrivere durante una missione può creare un sacco di complicazioni, ma ancora non ero sicuro di riuscire a trattenere i dettagli che potevano aiutarmi a chiarire le cose. E se andava bene per Hemingway, andava bene anche per me.

Probabilmente i quartieri più recenti di Albertville erano stati costruiti una ventina di anni prima, quando la città aveva ospitato le Olimpiadi Invernali. Prima di raggiungere il centro, mi ero fatto l’idea che fosse un’accozzaglia di zone industriali messe insieme a casaccio.

La Banque Privée apparteneva a un mondo più elegante, ed era chiaro che aveva più storia. Ci passai davanti, dall’altro lato della strada, poi, prima di avvicinarmi, effettuai le solite mosse antipedinamento. I posti noti sono sempre rischiosi e io dovevo supporre che Mr Loverman e i suoi compari sapessero del mio legame con la banca. Incastonato fra due raffinati caffè, era uno di quei posti dove non varchi la porta se chi è all’interno non ti ha guardato per bene.

«Quoi?» chiese una voce femminile in francese da una griglia di ottone lucidissimo posta sotto la telecamera di sorveglianza.

Girai la testa all’insù e dissi a chiunque mi stesse ascoltando che ero inglese, che ero lì per i miei rapporti con il signor Timis, e che avevo bisogno di incontrare il signor Laffont.

Il portone principale era fatto con lo stesso cristallo dei finestrini posteriori della Range Rover di Frank. Uno sguardo al mio riflesso fu sufficiente a comprendere la loro esitazione a farmi entrare. Ma poi ci fu un tenue ronzio e quando spinsi il portone si aprì.

L’atrio era una profusione di beige e oro sormontata da un lampadario di cristallo che avrebbe fatto di Glen Campbell un uomo molto felice. Nessun cassiere in vista. Non era il genere di posto in cui si andava a versare i risparmi. O li trasferivi via cavo o con una valigetta diplomatica blindata legata con le manette al polso di una montagna umana con indosso occhiali da sole avvolgenti.

Quando superai il metal detector, incastonato nello stipite della porta, una bionda in completo sartoriale scelse di ignorare il beep. Mi accolse in modo formale e mi invitò a sedermi.

Strappai la prima pagina del mio Moleskine e scribacchiai il numero che avevo dato la sera precedente al telefono al mio gnomo di Zurigo.

«La prego, consegni questo al signor Laffont.»

Girò sui tacchi a spillo e sparì lungo un’ampia scalinata coperta da un tappeto spesso. Le videocamere erano posizionate in modo discreto, ma io sapevo che il signor Laffont mi stava esaminando da vicino sul suo monitor.

La biondina si materializzò dopo dieci minuti: «Il signor Laffont la attende». Avevo passato il primo esame.

Non chiesi come.

Mi guidò al pianerottolo del primo piano, dove un paio di imponenti vasi orientali fiancheggiavano l’ingresso di un salone grande quanto un piazzale.

Quasi tutto dell’uomo che si alzò per salutarmi da dietro un’enorme scrivania in mogano era grigio. I capelli, i baffi curatissimi, il vestito, gli occhi che brillavano dietro lenti senza montatura. Tese la mano, ma io non ero sicuro di riuscire a raggiungerla. Poi capii che mi stava indicando una poltrona, del genere che si vede nei palazzi e nei musei.

Quando ebbi posato lo zaino e fummo entrambi seduti, iniziò la procedura. «Signor…»

Non sapevo quale nome gli avesse dato Frank, e neppure se avevo voglia di dirgliene uno, perciò mi limitai a togliere gli occhiali e a dirgli che ero socio in affari del signor Timis e avevo bisogno del suo aiuto.

«Certo, signore. Abbiamo sentito… il notiziario… ieri pomeriggio. Una tragedia, la sua povera moglie…»

Sapevo di essere sotto esame. Un tempo, gli avrei risposto di smettere di cazzeggiare e di darmi le informazioni che mi servivano. Ma riempire i caveau di una banca svizzera con i soldi dei trafficanti messicani mi aveva insegnato che nel loro mondo il gioco aveva regole differenti. «Sono quasi certo che fossero separati. E non credo proprio che sia povera. Ma il figlio è distrutto.»

«Ah… il piccolo Bogdan. Deve essere…»

«Stefan.»

Mi fece un cenno di scuse. «Ho un’altra domanda, se la cosa non la offende.»

Gli dissi che non ero permaloso, ma che avevo poco tempo. Piazzai il passaporto di Frank sulla scrivania.

Lo guardò, ma proseguì imperterrito. «Vorrebbe essere così gentile da dirmi il collegamento fra la casa in campagna del signor Timis e il vostro signor Le Carré?»

Per fortuna non mi aveva fatto quelle domande ieri. Non sarei mai riuscito a recuperare i dati. Ma oggi mi ero ricordato del primo incontro con Frank, quando mi aveva ingaggiato per trovare Stefan e uccidere i suoi rapitori.

«La dacha di Frank si trova in un posto chiamato Peredelkino. Gli piaceva il fatto che fosse citata nel romanzo di Le Carré La casa Russia

A quel punto il signor Laffont accennò una specie di sorriso. «Ottimo. Il signor Timis aveva detto che lei si sarebbe messo in contatto in caso di… incidente.»

«Che altro ha detto?»

«Che era molto preoccupato per certe recenti acquisizioni. Non ha fornito dettagli, ma si augurava che il contenuto della sua cassetta di sicurezza aggiungesse informazioni importanti a ciò che vi siete detti due sere fa.»

Non volevo ammettere di aver perso qualche rotella in quell’«incidente» e di fare ancora parecchia fatica a ricordare anche un singolo elemento chiave dell’ultimo incontro con Frank. Volevo che condividesse la fiducia che Frank aveva in me e che mi aiutasse. Non avevo bisogno che chiamasse il centro di salute mentale più vicino. E volevo che si desse una mossa.

Si alzò e fece il trucchetto alla James Bond con i polsini, prese un piccolo astuccio in pelle e mi indicò di seguirlo verso un arco nell’angolo più lontano dietro la scrivania. Si apriva su un’altra rampa di scale che scendeva nel caveau.

Laffont passò allo scanner l’impronta del proprio indice e l’iride destra, e la porta di acciaio si aprì per poi richiudersi subito dopo il nostro passaggio. E finalmente giungemmo in una stanza che apparteneva al futuro e non a due secoli prima. L’illuminazione e l’arredamento erano minimalisti.

Laffont scostò una pesante tenda di velluto rosso scuro e la lasciò ricadere dopo il nostro ingresso nell’universo delle cassette di sicurezza. Ricoprivano le tre pareti dal pavimento al soffitto. Fece scivolare due chiavi dall’astuccio e le inserì in una cassetta della parete di destra ad altezza spalle.

Le girò insieme, in senso orario, fino a che si sentì un debole scatto. Poi estrasse la cassetta e la posò con cautela sul tavolo coperto di velluto sotto una lampada bassa al centro della stanza.

Chinò il capo e si ritirò nell’anticamera. Conosceva più che bene il contenuto, ma mantenere l’illusione del distacco faceva parte del suo ruolo.

Sollevai il coperchio.

I primi a uscire furono sei passaporti. Tre per me, con patenti abbinate. Stesso nome ma tre cognomi differenti: Saunders, Savage e Browning. Tre per Stefan – diventato Steven – che lo identificavano come mio figlio. Frank sapeva che, dopo il caso di Madeleine McCann, anche il più assonnato posto di frontiera europeo avrebbe reagito molto male al tentativo di far attraversare illegalmente il confine nazionale a un minore. E chiunque li avesse fatti si era dato da fare con Photoshop. Tre diversi tagli e tinte di capelli, una con gli occhiali, due senza.

Li misi da parte.

Il documento successivo era la cianografia di una nave portacontainer commissionata da una compagnia di navigazione che si chiamava Nettuno, con sede sulla costa pugliese non lontano da Brindisi. La aprii e la guardai sotto la lampada. L’intricata struttura innescò un barlume di ricordo, ma forse veniva da un passato più lontano, quando mi era capitato di esaminare la pianta di un edificio, o di un aereo o di una nave prima di un lavoro.

C’era un fascicolo di atti relativi a un castello sul lago di Costanza. Un castello che avevo sicuramente già visto. Nel cassetto di Frank. Adesso sapevo che era stato comprato da una finanziaria con sede in Svizzera, che doveva far parte della rete internazionale delle società di Frank.

Li misi accanto alla cianografia e li scorsi tentando disperatamente di non farmi venire il mal di testa. Quei documenti non erano un rompicapo, secondo Frank erano da leggere nel contesto del nostro ultimo incontro, ma per me lo erano e basta.

C’era anche un fascio di banconote, euro e dollari americani. Frank era convinto che i contanti ti descrivessero meglio di qualunque American Express.

Infine, in un sacchetto di camoscio con i lacci, una sagoma decisamente conosciuta. Un’altra Sphinx nero opaco, due caricatori e una scatola da cinquanta di proiettili calibro 9mm Parabellum. Era un nome raffinato, che significava «preparati per la guerra».

Se non altro l’ultima parte del messaggio di Frank era chiara.

Avrei tanto voluto che lui si fosse preparato meglio.

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