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Il rotolo di nastro adesivo volò dal braccio e slittò sul piano di lavoro mentre crollavo su mani e ginocchia, cercando di prendere fiato. Caddi in avanti e sperai che il bordo del trogolo si mettesse tra me e il colpo successivo.
I reni pulsavano come se mi avessero preso a cinghiate con una traversina ferroviaria e i polmoni non stavano meglio, ma prima di toccare terra ero riuscito a fare un respiro e a spostare la giacca in modo da liberare l’impugnatura della pistola. Rimasi per un attimo faccia a terra, piegando il corpo per assorbire il dolore ed estrarre la Sphinx. La mia mano destra inserì il pilota automatico e la tirò fuori dalla cintura mentre ruotavo per guardare in faccia chi mi aveva steso.
Sopra di me vidi soltanto una massa confusa di tuta e stivali di gomma. La testa girò mentre la Sphinx si sollevava e prendeva la mira, come se fosse dotata di un cervello autonomo. Una suola di gomma spessa a carrarmato, incrostata di letame, si levò su di me e impattò contro le mie nocche. La pistola volò via, colpì il fianco zincato del trogolo e turbinò nell’oscurità.
Rotolai, mi voltai e avanzai a fatica per riprenderla. Un metro davanti a me, gli stivali scricchiolavano nella stessa direzione. Avevo una sola possibilità, saltargli addosso e bloccarlo prima che la raggiungesse. Lottando per mantenere la concentrazione, lanciai le mani attorno alle sue gambe per rallentarlo o farlo cadere. Mi scalciò via da una gamba ma io mi aggrappai all’altra.
Ero un peso morto, agganciato alla sua caviglia come una palla da carcerato, ma lui era un bestione enorme. Fece altri due passi, trascinandomi con sé, e iniziò a piegarsi. Vidi una zampa gigante tastare il cemento davanti a me. Non potevo fare niente per fermarlo.
Quando la pistola fu nella sua mano destra, abbandonai la gamba e mi aggrappai al braccio. Impiegai tutta la forza che avevo per impedire che la bocca di fuoco puntasse verso di me. Inutile. Era come una morsa. Lentamente ma inesorabilmente, la canna si girò verso di me.
L’afferrai. Con un grugnito lottò per scrollarmi via. Le sue nocche si fecero bianche quando il pugno destro intensificò la pressione sull’impugnatura. Il sinistro mi colpì in cima alla testa, e poi sulla nuca. Sentii un liquido gocciolare dalla tempia destra.
Diedi uno strattone e mi contorsi, e in qualche modo riuscii a schivare il peso dei suoi colpi. Poi sentii il freddo del metallo contro la guancia e mi immobilizzai all’istante.
Data l’angolazione, prima di uscire il proiettile avrebbe attraversato la mia cavità orale, facendo saltare qualche dente, le gengive e l’arcata superiore.
Se avessi continuato ad agitarmi, potevo spostare la canna, ma rischiavo che un 9mm mi spappolasse il cervello.
Avvenne tutto al rallentatore.
Lui si schiarì la voce.
Sentii la puzza di aglio nel suo fiato.
Sentii le gocce di sudore cadere dal suo palmo e scivolarmi lungo il mento.
E quasi mi sembrò di sentire il dito premere il grilletto.
Se la storia finiva qui, allora ’fanculo: era sempre stato parte del gioco.
Il cane raggiunse il punto critico e fece schizzare il percussore verso il proiettile.
Ma anziché perdere un bel pezzo di faccia, sentii l’inconfondibile suono del «clic dell’uomo morto».
Ogni secondo di vita dopo quel suono era un extra.
Allungandomi, afferrai due ciuffi di capelli umidi e unti e tirai con forza la sua faccia contro il mio cranio. Cercò di resistere, e allora mi proiettai in avanti finché non entrammo in collisione e lui urlò. Non sapevo dove l’avevo colpito e non m’importava. Serrai la presa e lo colpii un’altra volta. Vidi le stelle, ma ci ero preparato. È così che funziona.
Guadagnai il tempo necessario per alzarmi in piedi, ma non per mirare il primo calcio. Non era importante. La precisione non era in cima alla lista delle priorità. Qualsiasi cosa pur di farlo restare giù. Per cominciare attaccai la massa centrale, poi mi spostai più in su. Non volevo causargli danni permanenti. Ma d’altra parte, non volevo perdere tempo. Dovevo farlo smettere di pensare, e impedirgli di fare quello che non volevo che facesse.
Mantenne la posizione, ma cominciò a piegarsi.
Gli assestai un paio di colpi al lato della testa, furono sufficienti a fargli alzare bandiera bianca. Crollò come un sacco di merda.
La porta chiusa in fondo al fienile fu scossa da una serie di colpi dall’interno. Il primo mangia-carote pareva molto preoccupato. Urlò «Claude» una o due volte, poi sciorinò un fiume di insulti. Non era necessario un interprete dell’ONU per aiutarmi a capirne il senso: Fammi uscire da qui, maledetto bastardo…
Non m’importava. Nessuno l’avrebbe sentito. E fino a che urlava, non era al telefono con la polizia.
Claude non sarebbe andato da nessuna parte. Lo lasciai dov’era caduto e recuperai il nastro adesivo e la pistola vicino a un pallet carico di pali da recinto. La pistola tornò nella cintura.
Quando mi avvicinai di nuovo Claude si mosse. Forse lo avevo risvegliato srotolando il nastro adesivo. Forse i colpi sulla porta e il suo amico che urlava gli avevano fatto breccia nel profondo.
In ogni caso, lo colpii altre due volte. Non sapevo se gli stavo facendo male e non mi importava. Volevo che gli fosse ben chiaro che il maschio dominante là dentro ero io, in modo da poterlo legare. Era fortissimo, e se avesse recuperato il controllo era difficile prevedere cosa avrebbe potuto fare.
Le bestemmie continuarono a riecheggiare nel fienile mentre giravo Claude sulla pancia, univo con forza i suoi polsi dietro la schiena e li avvolgevo con il nastro adesivo. Legai stretto, molto stretto, in modo che le mani iniziassero subito a gonfiarsi. Volevo che si concentrasse sul dolore anziché pensare a dare l’allarme.
Gli sfilai gli stivali e seguii lo stesso procedimento con le caviglie, poi gli piegai le gambe in modo da poter unire mani e piedi.
Rimase con la guancia posata a terra e gli occhi chiusi anche quando gli sigillai la bocca con il nastro adesivo girandolo un paio di volte attorno alla nuca. Non avrei saputo dire se fosse svenuto o si fosse arreso. Non era importante.
Infine, lo legai a una gamba del trogolo. Scavalcai il palo da recinto con cui mi aveva steso e uscendo presi le corde elastiche da uno scaffale. Per sicurezza chiusi la porta principale con il lucchetto e buttai via la chiave.
Spingere la Honda non era più necessario. Le urla si erano ormai trasformate in lamenti, e appena premetti il pulsante il rumore del motore li sommerse completamente. Mi fermai accanto al ponte e scesi nel canale.
Quando lo raggiunsi Stefan aveva finito la cioccolata e quasi tutta l’acqua. Ma a parte questo non si era mosso di un millimetro. O si fidava completamente di me, oppure era ancora così scosso da restare immobile sul posto. Era chiaro che il piede gli faceva molto male, ma lo aveva comunque tenuto nel torrente. Quanto al resto, soltanto il tempo poteva dire se si sarebbe ripreso.
Mi guardò, aprì la bocca e indicò la mia tempia. La toccai con le dita, augurandomi che Claude mi avesse sputato addosso. E invece i miei polpastrelli erano appiccicosi e rossi.
Scrollai le spalle. «Adesso non c’è tempo. Ci penso dopo.»
Ancora una volta lui non disse nulla, ma scorsi un’ombra di sorriso quando lo portai sul terrapieno, e vide la Honda. Lo sistemai sulla sella e legai i bagagli sul portapacchi posteriore con le corde elastiche. Non mi preoccupai di riempire la bottiglia dell’acqua. Adesso che avevamo le ruote, non c’era il rischio di morire di sete.
Montai dietro di lui e gli dissi di aggrapparsi alle mie braccia. Quando girai la chiavetta, neppure le mucche ci fecero caso. Puntai il veicolo direttamente attraverso il pendio verso gli alberi. La pendenza non era eccessiva, ma non mi avventurai in un’andatura da Red Bull Extreme. Ribaltarci ci avrebbe messo in guai grossi.
Dopo una ventina di metri al coperto, individuai un viottolo che probabilmente in inverno era una pista da sci. Lo seguii e quando la pendenza lo consentì accelerai. Non era la prima volta, oggi, che viaggiavo in discesa a tutta velocità in mezzo agli alberi, ma adesso vedevo la strada che avevamo davanti, e più procedevamo, più avevo la certezza che non saremmo precipitati nel vuoto.
Ogni tanto mi fermavo per controllare lo spazio aperto che avevamo di fronte, la bussola e la cartina. Non ero preoccupato di sbagliare strada: avevo bisogno di fissare nella mente le coordinate del nostro viaggio. Adesso avevo smesso di perdere colpi.
Tracce del passato si facevano strada nel mio cervello. Forse lo scontro nel granaio aveva riacceso qualcosa molto al di sotto della superficie.
Sapevo di essere un ex Forze Speciali.
Sapevo che Frank Timis era un oligarca ucraino.
Sapevo di aver salvato suo figlio in Somalia, tempo prima.
Sapevo che aveva avuto di nuovo bisogno del mio aiuto.
Sapevo che chiunque l’avesse ucciso voleva morto anche me.
Ma non sapevo perché. Forse la casa di Timis a Courchevel mi avrebbe fornito delle risposte.
L’aria di montagna rendeva lo scenario estremamente nitido. Ero ancora lontano da un recupero totale, ma il vento contro il viso disperdeva un po’ di confusione. E in più mi asciugava a puntino il giubbotto.
Quando fummo abbastanza lontani dal cadavere sulla montagna e dai lampeggianti attorno ai resti della mia automobile, fermai la Honda. Sollevai Stefan e gli dissi di fare pipì mentre slegavo i bagagli e prendevo la mia maglietta sporca dallo zaino. Ci svuotai sopra l’acqua che restava nella bottiglia e tamponai alla meglio il sangue sulla fronte. In quel momento non c’era un cazzo di niente che potessi fare per la ferita, ma se non altro avrei avuto un aspetto più ordinato.
Poi guardai con attenzione il contenuto del suo zainetto. Sotto l’asciugamano e l’astuccio da bagno c’era un libro con la copertina morbida grande quanto un piccolo blocco di cemento. «È uno scherzo, vero?» Il mio russo non era niente di che, ma ero in grado di riconoscere Delitto e castigo di Dostoevskij. Alla sua età io ero riuscito a malapena a cavarmela con Jack e Jill.
Mi lanciò un’occhiata che mi ricordò suo padre. No, non era uno scherzo.
Portai la mia maglietta macchiata di sangue e la sua casacca del Brindisi a una decina di metri dalla strada sterrata, scavai un po’ di terra e foglie morte alla base di un albero e le seppellii. Essere beccato con il figlio di Frank mi avrebbe messo in una situazione complicata. Ma avere il sangue del morto sui miei vestiti e su quelli del figlio sarebbe stato ancora più difficile da spiegare.