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Nell’angolo più lontano dell’edificio, un tubo bianco e puzzolente saliva oltre la ringhiera. Mi avvicinai tenendo il punto di accesso tra me e i fasci di luce, e guardai giù.
Il tubo di plastica rigida correva verticale lungo i quattro piani della facciata laterale dell’edificio, sparendo nel muro all’altezza di ognuno dei tre terrazzi non illuminati. Testai la resistenza scrollandolo, e compresi che i supporti di metallo non mi avrebbero garantito una discesa sicura.
Ma era ben fissato a ogni giunzione, e poi non avevo altra scelta.
Non potevo tornare indietro.
Non potevo usare le scale.
Misi in tasca la UZI e scivolai tra la sbarra superiore e quella mediana. Stringendo la barra inferiore, mi abbassai quanto mi consentiva il muro. Mi fermai un attimo, rallentai il respiro e scrollai la pioggia dalle palpebre. Poi afferrai il tubo con la sinistra e incastrai la punta dello stivale sinistro tra il tubo e il muro, appena sopra la staffa.
Il tubo si curvò immediatamente verso l’esterno, ma la staffa resse abbastanza per farmi raggiungere il balcone più in alto. Un’occhiata attraverso la finestra mi confermò che in casa non c’era nessuno, quindi appena i piedi furono sulla superficie solida, mi spostai nella nicchia ad arco. Non mi offrì riparo dalla pioggia, ma mi permise di non farmi vedere nel caso qualcuno sopra di me avesse guardato in giù, o qualcuno di sotto avesse alzato gli occhi verso l’alto.
Rivolto verso il vetro e con la schiena contro la ringhiera, girai la testa all’insù, e molto lentamente mi sporsi in fuori fino a vedere tutto il parapetto, dal tubo puzzolente fino all’angolo opposto dell’edificio.
Mi parve di cogliere del movimento sul tetto e mi ritrassi.
Ma quando guardai di nuovo mi resi conto di avere la visuale annebbiata dalla pioggia battente.
Replicai il procedimento, con una mano sulla sbarra più esterna del balcone, l’altra sul tubo, la punta del piede che cercava un appiglio sulla parete, e riuscii a raggiungere il balcone successivo senza staccare né il mio corpo né il tubo dal muro.
Una luce si accese appena superai la ringhiera del balcone numero tre: non aspettai di vedere chi fosse entrato nella stanza né quanti fossero. Una sola telefonata ai carabinieri sarebbe bastata a incasinarmi davvero la serata.
Per la seconda volta nell’ultima ora fui costretto a muovermi senza aver controllato prima dove stessi andando. Strinsi di nuovo il tubo con la mano sinistra, infilai il piede sinistro contro l’intonaco nel punto più lontano, lo feci scivolare sotto la mano e scesi di due passi lungo il muro.
Se qualcuno si fosse affacciato dal terrazzo che avevo appena lasciato mi avrebbe visto, ma la vergine dea della pioggia impediva che accadesse.
Altri due passi.
Poi altri due.
Anche se neppure lì le staffe erano solide, la mancanza di stabilità fra i giunti lavorò a mio favore, e riuscii a superare gli ultimi due metri con un salto atterrando sulla ghiaia del piazzale.
Pur piacendomi l’idea che la squadra dell’asporto si consolasse con la pizza, immaginavo che stessero tornando giù per intercettarmi mentre scendevo o per recuperare ciò che restava del loro amico.
Il motorino è un mezzo adatto a una sola persona, quindi ero convinto di essere sceso molto più in fretta di loro. Ma non avevo comunque tempo da perdere. Avanzai schivando e zigzagando nel dedalo di vicoli e strade senza uscita che collegavano i vari isolati alla via principale, incontrando un sorprendente numero di persone che non mi volevano uccidere e che erano molto dispiaciute di non aver portato l’ombrello.
Strizzai via più acqua possibile dalla giacca e l’appesi al sedile del passeggero dell’auto a noleggio prima di infilare nella macchinetta gli euro richiesti per un giorno di parcheggio.
Appena superata la sbarra, infilai una sim e una batteria nell’ultimo Nokia e digitai il numero di Luca mentre guidavo.
«Pronto…»
«Sono stato beccato all’uscita del vicolo.»
«Beccato?»
«Individuato. Poi seguito. Chissà chi cazzo erano. Due giovani, testa pelata, e un capellone con il motorino. Ti dice qualcosa?»
Ci pensò un po’ su. «Ho visto un paio di ragazzi rasati nella via davanti all’ufficio… sì… e il tipo in motorino. Ho pensato che stessero soltanto rubando borse.»
«Penso ci sia anche altro. Mafia, forse. Ovviamente il negozio di materassi del tuo amico è un posto controllato. Quindi non tornarci. A meno che tu non voglia far finire i tuoi figli nella ruota degli orfani.»
«Non ho figli.»
«Vale anche per i figli di tua sorella.»
«Ho capito.»
«Stai bene?»
«Sì. Ma grazie dell’avvertimento.»
«Ti richiamo.»
Premetti il pulsante rosso e gettai il telefono dal finestrino appena imboccai il cavalcavia che conduceva fuori città. Tutte le frecce puntavano verso Brindisi, e non soltanto quelle sull’autostrada. Rexho Uran era stato avvistato lì. Quando avevo nominato l’Italia Hesco si era bloccato.
Frank era stato ucciso sulla strada per Torino.
Suo figlio indossava la divisa di una squadra di calcio chiamata Brindisi Football Club.
Tre volte erano stati alla loro villa quest’anno.
Un pessimo affare, Nick… un pessimo affare…
La Minerva era diretta lì da Odessa, via Istanbul.
Adesso ero quasi certo che dove era la Minerva, ci fossero anche Dijani e i fratelli Uran.
Se un palo a strisce e una discesa da montagne russe lungo la scarpata non mi avessero mandato in tilt il cervello, forse questo viaggio l’avrei fatto prima. Ma ero dove ero, ed ero ancora vivo. Questa era l’unica cosa che contava.
Accelerai. Secondo i miei calcoli potevo essere al porto prima dell’alba.