Capitolo 31
Dakota
«Hai intenzione di seguirmi anche mentre vado in bagno?». Jay mi sta addosso provocando in me un attacco di claustrofobica inquietudine. Vorrei solo che sparisse, che si volatilizzasse. Non mi è mai capitato di detestare tanto qualcuno.
«Vuoi lasciarmi in pace?», gli chiedo ancora, ma lui si limita ad accompagnarmi al piano di sopra e a sorridere con quel suo ghigno sprezzante che mi manda in bestia.
«Il bagno è da questa parte, e.t.». Jay indica una porta bianca alla mia sinistra, con una cornice intarsiata. Sulla parete di fianco alla porta, una serie di fotografie appese attira la mia attenzione. Raffigurano i ragazzi che ho visto di sotto in varie attività: pesca, campeggio, cene attorno a grandi tavole imbandite con ogni ben di Dio. Sembra tutto così… normale. Ma quello che ho visto poco fa su quei video, sommato a quello che ho sentito, allontana immediatamente dalla mia mente l’idea di normalità.
Non sapevo. Semplicemente, ignoravo tutto. Preferisco non pensarci nemmeno adesso. Sarei costretta ad affrontare una realtà che credevo essere giusta, e invece mi accorgo che non lo è affatto.
La mia mano è sulla maniglia della porta, ma esito ad aprirla. Jay è appoggiato con una spalla alla parete e sembra in attesa di seguirmi in bagno.
«Hai intenzione di seguirmi davvero qui dentro?». Spero che mi dica no, lo spero con tutto il cuore e invece…
«Certo. Non devo perderti di vista nemmeno per un secondo e…». L’ibrido apre la porta e mi indica una finestra, «da lì potresti scappare».
«Non lo farò, come te lo devo ficcare in quella testaccia dura?»
«Eseguo solo gli ordini».
«Devo fare pipì. Vuoi assistere anche a questo?».
Jay fa spallucce. «E che cosa c’è di straordinario in qualcuno che fa pipì?»
«È un momento intimo, non puoi pensare sul serio di…».
Mi interrompe subito con un cenno della mano, scuote la testa e solleva un sopracciglio. «Fare pipì è solo fare pipì. Farsi un cinque contro uno è un momento intimo».
Sono confusa. «Un cinque contro uno?». Che diavolo significherà?
Jay si accosta al mio orecchio e mi sussurra qualcosa. Un secondo dopo gli scoppio a ridere in faccia. «Già, sembri proprio il tipo. Quando nessuno ti concede le sue grazie, devi poter ovviare in qualche modo, vero?»
«Dovresti provarci qualche volta, magari ti sciogli un po’, piccola e.t.».
«Non chiamarmi e.t. stupido ibrido. Secondo te gli assomiglio?»
«A dire il vero no. e.t. è più carino».
La voglia che questo tipo mi suscita di prenderlo a pugni, ha dell’incredibile. «Per favore, posso avere un momento per me, adesso?»
«Ma anche no», risponde lui con la solita strafottenza.
Inspiro a fondo, cercando di mantenere la calma, anche se ogni singola cellula del mio corpo mi sta dicendo di scaraventargli addosso una scarica elettrica così forte da stordirlo. «Va bene, come vuoi tu. Guardami pure. Sono sicura che è l’unico modo che conosci per eccitarti, porco».
«A dire il vero, ne conosco diversi. Ma adesso agisco solo per senso del dovere». Mi spinge in bagno e si richiude la porta alle spalle. «Avanti, fai pure pipì».
«Puoi almeno voltarti?».
Di nuovo scuote la testa in segno di diniego. Lo so che lo fa apposta, e lo detesto ancora di più per questo. «Sappi che sei un maiale e ti odio talmente tanto che spero che qualcuno possa farti fuori al più presto. Ballerò sul tuo cadavere quando succederà».
«Sono certo che non vedi l’ora».
Afferro un telo da bagno e me lo avvolgo intorno al corpo. È abbastanza lungo da coprirmi fino alle ginocchia. Con qualche difficoltà, riesco a liberarmi della tuta e ad abbassarla fino alle caviglie. «Goditi pure lo spettacolo, pervertito». Mi siedo sulla tazza del water e aspetto. Dieci minuti fa mi scappava, ora sembra che la mia vescica sia in sciopero.
«Si può sapere quanto ci metti?», mi chiede spazientito mentre picchietta un piede sul pavimento.
«Con te che mi guardi non ci riesco», gli rispondo con altrettanta impazienza.
Lo vedo allontanarsi di qualche metro nel bagno che è grande come il mio alloggio alla base, avvicinarsi al lavandino e aprire il rubinetto. «Così?», domanda. Pensa davvero che lo scorrere dell’acqua mi servirà da stimolo? È più stupido di quanto pensassi.
«Non serve, grazie tante». Subito dopo, incurante, richiude il rubinetto.
Per controllare l’imbarazzo, la rabbia e l’impellente voglia di strangolare il ragazzo, mi distraggo osservando l’arredamento del bagno. Le pareti sono color crema, mentre il pavimento è in parquet di un caldo color rovere. Di fronte a me ci sono una vasca da bagno e una doccia, e sulle mensole attaccate alla parete, diversi bagnoschiuma in differenti profumazioni: iris, giglio, rosa, vaniglia, sandalo. È tutto talmente diverso dagli alloggi della Confederazione. Non sono abituata all’assenza di bianco e qui ogni cosa ha un colore diverso, acceso, vivo. Mi fa quasi male agli occhi.
Jay finalmente si volta. Osserva il suo viso allo specchio di fronte e finge di controllare la ricrescita della barba. Non mi illudo, lo so che continua a controllarmi, ma ciò non mi impedisce di osservarlo a mia volta. I capelli corti, tagliati a spazzola, lasciano scoperta la nuca e il collo, su cui intravedo di nuovo cicatrici da bruciatura che, mio malgrado, mi incuriosiscono ancora di più. La giacca di pelle gli fascia le spalle muscolose, forse irrigidite da un accenno di tensione. Vago con lo sguardo sul resto del suo corpo e siccome non sono una che nega l’evidenza – il più delle volte almeno – mi fermo ad ammirare un paio di natiche niente male, strette in jeans scuri e consunti. I fianchi stretti si allungano su gambe dai muscoli tesi e sodi.
«L’acqua forse non è servita», comincia Jay voltandosi verso di me. Si appoggia al lavabo dietro di lui e incrocia le braccia sul petto. Il sorrisetto indica che sta per dire un’altra delle sue idiozie. «Ma l’accurato esame a cui mi hai appena sottoposto direi che ha sortito il suo effetto. Ti sei ammorbidita in più posti, dolcezza».
Arrossendo fino alla punta dei capelli per quello che ha appena avuto il coraggio di dirmi, annaspo in cerca d’aria, accorgendomi di essere riuscita a svuotare la vescica. Mi rialzo con il telo da bagno saldamente stretto al mio corpo. In poche mosse, ma impacciate, riesco a rivestirmi e solo allora lancio da una parte l’asciugamano.
I denti stretti e la mascella tirata sono il primo sintomo della rabbia che non riesco più a trattenere. Con uno slancio rapido mi abbatto su di lui che, colto alla sprovvista, non fa in tempo a reagire. I suoi piedi scivolano sul parquet e si piega sul lavandino in modo scomposto, battendo poi con il sedere sul pavimento.
«Maledizione!», esclama con un gemito.
Non esito a colpirlo con un pugno in pieno volto. La sua guancia destra si scontra contro la mia mano, mentre quella sinistra contro il pavimento. Sputa sangue e a sorpresa mi afferra per il collo stringendolo. Mi mozza il fiato rendendomi abbastanza debole da riuscire a liberarsi di me. Si alza, ma non calcola che i miei piedi e le mie ginocchia sono ancora liberi. Con uno scatto allungo un piede fino a colpirlo su uno stinco e infine gli mollo una ginocchiata in prossimità dell’inguine. Impreca ad alta voce mentre serra le braccia intorno al mio corpo. Mi tiene stretta a sé in una morsa bollente. Sento il suo corpo surriscaldato dalla lotta. Mi trascina verso la doccia, continuando a tenermi talmente tanto stretto che ho paura mi spezzi qualche osso. Ho braccia e mani bloccate nella sua stretta energica e non riesco a usare il mio potere per inibire il suo, anche se ho il sospetto che contro di lui avrei ben poche speranze. Scivoliamo entrambi sul parquet, continuo a dibattermi fra le sue braccia, ma lui non molla la presa. Con un colpo secco tira giù la tenda di plastica che circonda la doccia e ci spinge entrambi verso il piatto di ceramica. È sopra di me, i suoi occhi sono un bacino di lava incandescente che mi terrorizza. Non ho mai visto nulla del genere.
Allunga una mano e apre l’acqua. Un getto gelido ci colpisce spegnendo parte della mia rabbia. Ora ho solo paura. Paura che mi possa fare del male, paura che la sua evidente voglia di vendetta possa trovare sfogo su di me, paura di diventare il suo bersaglio. Ha già ampiamente dimostrato che prendersela con me per lui è piuttosto divertente.
«Lasciami… lasciami, bastardo!», gli urlo contro. Cerco di liberarmi, ma lui stringe di più.
«Devi imparare che aggredirmi porta sempre a delle conseguenze spiacevoli, stronza!».
Mi parla a pochi centimetri dal viso. Il suo alito è un fiotto di vapore bollente.
«Fottiti!».
«Perché non lo fai tu? Posso accontentarti se vuoi, lo so che ti piacerebbe e…». Non riesce a terminare la frase, perché all’improvviso lo vedo sollevarsi da me e finire contro una parete. Una mensola trema per il colpo e i bagnoschiuma cadono nella vasca da bagno con un tonfo.
«Toccala ancora e ti pentirai di essere nato». Kevan troneggia al centro della stanza, facendola sembrare davvero piccola. Abby è sulla soglia, Emily le sta al fianco. Le tiene una mano sulla spalla nel tentativo di tranquillizzarla, ma Abby non sembra affatto impaurita, solo confusa.
Kevan si piega su di me e mi aiuta a rialzarmi. Leggo nel suo sguardo una preoccupazione sincera che mi rincuora, e sento che in questo momento ho davvero bisogno del mio vecchio amico. Scorgo la mia immagine nello specchio del bagno. Ho un aspetto a dir poco indecente: sono fradicia, i capelli sono attaccati alla fronte e al viso in ciocche scomposte, ma godo nel constatare che Jay è messo peggio. Il suo labbro continua a sanguinare il che provoca in me un profondo moto di soddisfazione.
«Voi due d’ora in poi starete ad almeno tre metri di distanza l’uno dall’altra». La voce di Lexion, sopraggiunto da qualche secondo, tuona fra di noi come un temporale.
Jay si rialza con una certa fatica, cercando di nascondere una smorfia di dolore. Il volo che Kevan gli ha fatto fare non deve essere stata un’esperienza piacevole.
«Stargli lontano non sarà affatto un sacrificio», dice, guardandomi come se fossi l’organismo vivente più disgustoso del pianeta.
«Credimi… non hai idea di quanto la tua lontananza mi faccia piacere», gli rispondo stringendo i pugni e soffocando a stento l’improvvisa, stupida voglia che ho di piangere.
Lo vedo lanciarmi l’ennesimo sguardo pieno di odio e lasciare il bagno a grandi passi, scostando in malo modo persino la sorella.
Kevan mi stringe nel suo abbraccio rassicurante e, quando sollevo il viso oltre la sua spalla, mi accorgo che Abby ci sta osservando con uno sguardo indecifrabile. Emette un pesante sospiro prima di dire: «Siete una manica di pazzi».