Capitolo 3
Ancora Abby
Io e Tess siamo in mostruoso ritardo, e solo perché oggi ha deciso di indossare un sexy tacco dodici invece delle solite, comodissime Nike; così mi tocca camminare come un bradipo per evitare che le vengano le vesciche ai piedi.
La campanella che segnala l’inizio delle lezioni dovrebbe suonare fra non meno di cinque minuti, e alla prima ora abbiamo proprio la verifica di matematica. Se arriviamo in ritardo, la professoressa Perkins ci abbasserà il voto di almeno un punto. La cosa non mi preoccupa perché in matematica sono un mostro di genialità, però Tess stenta a ricordare la tabellina del due, perciò dovrebbe sbrigarsi nonché temere seriamente di vedere la sua media precipitare nei profondi abissi dell’insufficienza. Motivo per cui, negli ultimi cinquanta metri, la costringo a correre rischiando che la poverina si ritrovi con almeno una caviglia slogata.
Il risultato è che entriamo in classe tutte trafelate e con i capelli totalmente in disordine. Ci sediamo al nostro posto, una accanto all’altra, e tiriamo fuori gomma e matita in attesa che la professoressa distribuisca i test, ma la Perkins, appoggiata con il sedere alla cattedra, le braccia incrociate sul petto e l’aria sorniona, non accenna a muoversi. Tutti sembrano chiedersi la stessa cosa: si sarà dimenticata che abbiamo il test? È quello che molti sperano, compresa Tess che ha gli occhi fiduciosi.
Il silenzio viene spezzato da uno sbadiglio in fondo alla classe. La Perkins allunga lo sguardo ferino verso il coraggioso che ha osato tanto e sta per aprire bocca quando viene interrotta dal cigolio della porta che si apre. Il preside Michaelson fa il suo maestoso ingresso nell’aula. Centoventi chili di grasso ambulante coperti da un completo di tweed, e un incerto riporto sulla testa, appaiono alla nostra vista. Ha il solito sorriso che gli gonfia e gli solleva le guance fino agli occhi, e le mani incrociate sulla pancia costretta a malapena in una sofferente camicia bianca.
Sono così presa a immaginarmi i danni che potrebbe subire la mia vista se uno di quei bottoni saltasse e mi arrivasse dritto in un occhio che non mi accorgo di altre due figure che appaiono accanto al preside Michaelson.
Evito un gemito di straziante piacere solo perché Tess mi dà un pizzicotto alla coscia sotto il banco, e riesco quindi a trasformarlo in un verso di acuto dolore. La professoressa Perkins si volta a guardarmi e io vorrei solo rimpicciolire fino a scomparire del tutto, ma è questione di un attimo.
Il brusio di approvazione nella classe cresce di intensità, e non sono l’unica a guardare con desiderio i nuovi venuti. Gli occhi di tutti sono rivolti su due esemplari di ragazzi, rispettivamente di sesso maschile e femminile. Non mi soffermo a guardare lei, lo farò dopo. Sono completamente accecata, ammaliata, abbagliata, affascinata, stregata, conquistata, dal ragazzo che sta in piedi accanto al preside Michaelson; o almeno credo che sia Michaelson, perché d’un tratto non vedo più nessuno oltre a questo stupendo angelo sceso da chissà quale paradiso.
Il colpo di fulmine allora esiste! Eccomi: prova vivente di questa inconfutabile verità, prima per me solo ipotesi. Il festival dell’ovvio, potrebbe dire qualcuno. La classica ragazza anonima (col cavolo) rimane folgorata da un figo sconosciuto. Be’, si fotta chiunque lo pensi; la realtà è anche questa.
Se qualcuno avesse dei dubbi sull’effettiva esistenza di Dio, questo ragazzo potrebbe facilmente far cambiare idea a qualsiasi ateo, perché solo una mano divina può aver creato una tale meraviglia.
Lo so, odio doverlo fare perché mi sembra alquanto ridicolo descriverlo come il personaggio maschile di un romanzetto rosa da supermercato – di quelli in cui l’autrice trascorre quattrocentoventimila battute a rappresentare l’eroe maschile come un modello di Vogue, senza nemmeno un difetto, con i muscoli guizzanti e il sudore che profuma di muschio bianco, che rendono il soggetto credibile quanto un puffo; oh, senza dimenticare l’evidente protuberanza che si manifesta a ogni respiro dell’eroina femminile, che trovo piuttosto imbarazzante in un uomo seppur fittizio – ma giuro che le uniche frasi che mi vengono in mente adesso sono citazioni prese dalle storie che legge mia sorella:
Lui trasudava sensualità da tutti i pori.
La maglietta nascondeva a fatica i pettorali che si alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro.
I suoi occhi color del mare erano in grado di sondarle l’anima.
Le sue mani sembravano fatte per scivolare vigorose sul corpo di una donna… (il mio magari) eccetera, eccetera, eccetera.
Potrei star qui fino a domani mattina a snocciolare frasi sulla portata di energia sessuale che è capace di spostare questo ragazzo, usando una vasta gamma di ah, oh, eh, in tutte le tonalità che sono in grado di produrre.
Le ragazze dietro di me sembrano annusare l’aria come cani da tartufo, e non serve nemmeno un ventilatore sulla cattedra (vedi Twilight). Sento lo tsunami di ormoni travolgermi le spalle. Vorrei ripararmi, ma sono troppo occupata a tentare di tornare a respirare.
Il tipo è alto, più della media. Sfiorerà almeno il metro e novanta. Il suo viso ha linee definite e forti, un velo di barba sulla mascella gli dà un’aria da selvaggio del west. Il taglio di capelli sembra essere curato nei minimi dettagli. Sono castani, corti sulla nuca, e con un ciuffo più lungo sul davanti che gli copre parte della fronte. Soffia verso l’alto per spostare una ciocca dagli occhi, e un improvviso e inaspettato sciame di farfalle mi svolazza nello stomaco. Indossa un paio di jeans sbiaditi, una maglietta grigia e una giacca verde militare sbottonata sul davanti. La maglietta è per metà fuori dai jeans e ai piedi porta un paio di stivaletti Timberland, slacciati.
Persa ad analizzare ogni più piccolo particolare di questa bellissima espressione del creato, non mi accorgo che Michaelson ha appena fatto il nome dei due, presentandoli alla classe come nuovi studenti. Do di gomito a Tess e le chiedo: «Come ha detto che si chiama?».
Tess si inclina leggermente verso la mia parte, senza mai staccare gli occhi dai due. «Kevan», mi sussurra.
«Kevin?»
«No, Kevan e qualcosa. E lei, Dakota e qualcosa».
«Cognomi diversi?». Tess annuisce.
Oh. La prima cosa a cui penso è: non sono fratelli.
Mi soffermo a esaminare la presenza femminile accanto a Kevan. È molto alta anche lei, forse troppo per la media femminile. Ha gli occhi ancora più chiari di quelli di lui, i capelli rossi e lisci, talmente lisci da sembrare finti. Sono tagliati in un caschetto che le incornicia il volto a forma di cuore, e sfoggia una frangetta perfettamente allineata che le copre la fronte quasi fino agli occhi. Mi chiedo se ci vede. Come da copione, ha un corpo perfetto, statuario, fasciato in un paio di jeans che lasciano poco spazio all’immaginazione. Il seno – prosperoso – è nascosto da un maglioncino leggero, bianco, bucherellato e trasparente, che le scopre la spalla sinistra con sapiente maestria. Tiene fra le mani una borsa piuttosto grande e una giacca di pelle.
Mi sporgo sul banco convinta di poterle trovare anche solo un difetto, ma succede l’imprevisto. Il mio gomito incontra la matita e ci rotola sopra. Scivola all’indietro fino all’estremità del banco; mentre la matita mi cade sulle gambe, il gomito perde l’appoggio imbattendosi nel vuoto. Mi sbilancio, e nel giro di un secondo mi ritrovo prima con il mento, e poi con il naso sbattuto sul banco.
Strizzo gli occhi per il dolore. Lacrime brucianti mi bagnano le guance. Il naso mi pulsa e accanto a me sento un’imprecazione non troppo silenziosa da parte di Tess. Riapro gli occhi e tutti mi stanno fissando. Di nuovo.
Purtroppo anche Kevan e Dakota.
Invece di sentire un coro angelico che canta l’alleluia per quegli occhi divini posati su di me, sento il D’oh di Homer Simpson che mi risuona maligno nelle orecchie, e mi immagino come Bart a riempire la lavagna della classe di:
l’invidia è pericolosa, l’invidia è pericolosa, l’invidia è pericolosa, l’invidia è pericolosa…
Le risatine dei miei compagni sono smorzate dall’«Ohhhhh» della professoressa Perkins, che mi corre incontro sventolando un fazzolettino di carta arraffato in fretta e furia da un cassetto della cattedra.
Me lo schiaccia sul naso e penso che da un momento all’altro mi dirà di soffiare. E invece mi costringe ad alzarmi e mi trascina con sé. Guardo Tess senza capire e la mia amica mima con la bocca le parole sangue e naso.
In un ralenti mentale mostruoso, vedo la mia figura spinta per la classe senza troppa grazia. Il preside che dice alla Perkins: «La porti in infermeria», con la voce di uno che ha le batterie scariche. Io che passo davanti al dio della bellezza Kevan con un fazzoletto sporco di sangue e gli occhi gonfi. Lui che distoglie lo sguardo, probabilmente schifato, e l’algida Dakota che fa un passo indietro, timorosa forse che le possa imbrattare il maglioncino candido starnutendo.
Questo episodio sale di volata al primo posto nella mia personale classifica dei momenti più imbarazzanti della mia vita, sorpassando persino la pertica della vergogna.
La Perkins mi fa uscire dalla classe e mi suggerisce di andare in fretta in infermeria. Ha un’aria preoccupata. Credo tema che possa morire dissanguata. Mi spinge nel corridoio e torna in classe chiudendosi la porta alle spalle. La sento battere le mani e tornare a rivolgersi agli studenti dicendo: «Bene, diamo un caloroso benvenuto a Kevan e Dakota».
Mi arriva alle orecchie un applauso esagerato, qualche gridolino e gli uhh uhh dei maschietti arrapati, che grazie a Dakota sembrano aver visto d’improvviso la luce.
La Perkins li rimprovera e riporta l’ordine, mentre io, a testa bassa, proseguo la mia umiliante camminata verso l’infermeria.
Dead Man Walking.