Capitolo 1

Abby

 

 

 

 

 

 

Non ce la posso fare. Non ce la posso fare. Non ce la posso fare. Sono autolesionista. Mi sto autoconvincendo di qualcosa di negativo. Mio padre mi darebbe uno scappellotto, mia madre mi direbbe che non è così che si comporta una donna con le palle. Be’, cara madre, per definizione una donna non è provvista di palle, quindi perché dovrei averle?

Perché una donna deve sempre dimostrare di essere forte e capace, altrimenti verrà sottomessa da questo stupido mondo maschilista. Dio, mi sembra di sentire mamma e le sue menate sul potere maschile. Se conoscesse i miei amici, le sue certezze si sgretolerebbero come il polistirolo.

Sono in palestra e guardo dal basso verso l’alto la pertica che svetta minacciosa sopra di me, come un mostruoso gigante portato alla fame che non aspetta altro che banchettare con le mie esili membra. Il professor Duncan, dietro di me, mi spinge con una bacchetta lunga una trentina di centimetri. Mi punge le scapole come se fossi un insetto da stuzzicare. Il mio istinto è quello di girarmi e colpirlo con un calcio rotante o con qualche altra mossa di arti marziali, ma non so nemmeno voltare una frittata in padella, figurarsi metterlo ko.

Rimango ferma qualche altro secondo con una miriade di occhi puntati su di me. Stanno tutti aspettando che io compia la mia scalata. D’un tratto, la pertica sembra essere diventata il k2. Sento già il fiato corto e le braccia sotto sforzo, e non ho ancora mosso un passo. Potere della suggestione!

«Abby Allen, muoversi, non abbiamo tutta la giornata!», tuona il professor Duncan e mi fa sentire ancora più in imbarazzo. Mai che si aprisse una voragine sotto i miei piedi quando serve.

Mi ripeto che non deve essere poi così difficile salire lassù e mi immagino di scalare la pertica veloce come Spiderman. «Ain’t no mountain high enough», canticchio sottovoce in modo che nessuno possa sentirmi e, investita da un’improvvisa sferzata di coraggio, muovo il primo passo verso la mia personale montagna. Metto una mano sopra l’altra e, con un piccolo saltello mi isso sulla pertica. Spingo con i piedi e percorro lentamente la sottile barra verticale.

Sono piuttosto brava, tutto sommato. Intanto la colonna sonora di Momenti di gloria risuona con prepotenza nella mia mente, e immagino che tutto il mondo stia guardano la mia impresa in slow motion.

Finalmente raggiungo la vetta e sorrido come una stupida; una scarica di adrenalina mi scorre lungo la schiena insieme a un brivido di eccitazione. Vorrei esultare, ma non ci penso minimamente ad abbandonare la presa sulla pertica.

«Ottimo lavoro, Allen», dice il professore. «Ora scendi».

E dopo quelle due terribili parole, il mio mondo si capovolge. Un’ondata di nausea si abbatte sul mio stomaco con la forza di uno tsunami. Non oso guardare giù; so che se lo faccio avrò una vertigine da record.

Dannazione!

«Non credo di farcela, professore», gli dico senza guardarlo, mentre gli altri studenti scoppiano in una fragorosa risata. Appoggio la fronte contro la pertica e vorrei diventare invisibile.

Clark Kent, dove diavolo sei?

Lui non riderebbe di me. Si arrampicherebbe quassù e mi tirerebbe giù con grazia e dolcezza, sussurrandomi parole di incoraggiamento all’orecchio. Naturalmente arrivando all’ultimo secondo, come da copione.

Forse non è ancora l’ultimo secondo. Forse se aspetto ancora un po’ lo vedrò apparire dalla porta della palestra, guardare verso di me e sorridermi, pronto a salvarmi.

E come per magia, la porta della palestra si apre davvero. Spalanco gli occhi aspettando di vedere il mio eroe e… riprendo a sbattere la fronte contro la pertica quando scorgo Devon Williams, uno dei bidelli della scuola. La sua faccia rubiconda, l’altezza inesistente e la pancia prominente, lo fanno somigliare a uno gnomo. Non credo che mi salverà.

Lo gnomo mi vede e comincia a ridersela pure lui. La vita sa essere veramente ingiusta a volte.

E la cosa più indecente è che uno così non può chiamarsi Devon Williams. È come se David Beckham si chiamasse Evaristo Smith. Capite?

«Forza Abby, puoi farcela», mi urla la mia migliore amica Tess da quelli che mi sembrano chilometri di distanza.

Apprezzo il suo incoraggiamento, ma avrei tanto bisogno di una scala.

Sento qualcuno dire: «Forse dovremmo chiamare i pompieri». Non so se è questo che mi dà il coraggio necessario per staccare la fronte dalla pertica e decidere di cominciare a scendere, o la fame che mi attanaglia lo stomaco.

Quello che so con certezza è che, fra non meno di tre minuti, sarò il video più cliccato su YouTube. Spero solo che i miei e la mia perfida sorella non lo vedano, altrimenti dovrò darmi in adozione da sola.

Bel cavolo di modo per diventare famosi. La ragazza che non sapeva scendere dalla pertica. Riderei anche io se non mi sentissi così umiliata.

Un centimetro alla volta riesco a scendere. Compio piccoli scatti verso la salvezza, fino a che non mi trovo nuovamente con i piedi per terra. Giuro che mi metterei in ginocchio e bacerei il linoleum della palestra.

I ragazzi continuano a ridacchiare, qualcuno mi indica come se fossi un esperimento riuscito male e il professor Duncan si avvicina per chiedermi se sto bene. No, non sto bene. Vorrei piangere, sotterrarmi, svanire, mimetizzarmi, evaporare. Qualsiasi cosa pur di non dover subire questa cocente umiliazione.

Kenneth Anderson, quarterback della squadra del liceo, continua a filmarmi con il suo iPhone, e per tutta risposta, gli alzo il dito medio a mo’ di saluto cameratesco.

«Avanti con la lezione, schiappe!». Il professor Duncan riporta l’ordine dopo la mia performance da Cirque du Soleil, e io posso finalmente rilassarmi.

«Tutto bene?», mi chiede Tess avvicinandosi. Ha quello sguardo pieno di compatimento che mi fa sentire una vera fallita e so che è davvero preoccupata.

«Diciamo che potrebbe andare meglio». Sbuffo prima di allargare le braccia, rassegnata. «Dimmi che non sono già su YouTube».

«Non sei già su YouTube».

«Il tempo dell’elaborazione video, e ci sarò».

Tess mi fa un sorriso di circostanza e mi guarda comprensiva.

«Ti prego, non dire niente». Le mie spalle si afflosciano come verdura molle.

«Okay, non te lo dico».

Scuoto la testa e le chiedo il cellulare. Mi collego al sito della scuola e vado alla sezione video, dove in primo piano campeggia l’anteprima della mia esibizione con un titolo da far desiderare l’espatrio: AbbyNerdAllen e la pertica della vergogna.

E così titola anche il giornale digitale della scuola. Lo hanno scritto in diretta questi maledetti?

Mi do una manata sulla fronte e mi lascio andare a un gemito sofferto, mentre Tess mi massaggia amichevolmente una spalla.

«Come capita sempre in questi casi, mi verrebbe da dire che la mia vita è finita e tu mi risponderesti che non è affatto così e che, fra un giorno o due, tutti avranno dimenticato questo momento imbarazzante; io replicherei che è meglio che sia davvero così, altrimenti dovrei cambiare scuola, ma sicuramente ogni altro cretino al mondo che sappia usare YouTube, fra qualche minuto, potrà godersi il mio spettacolo, quindi cambiare scuola non servirebbe a niente. A quel punto, tu mi ricorderesti che hanno pubblicato di peggio, e io ti direi che in fondo è vero e che, dopotutto, chissenefrega. Non mi suiciderò per una puttanata del genere. Meglio riderci sopra, giusto?»

«Giusto», conferma Tess, lieta di non doversi sottoporre al solito discorsetto consolatorio. «Ricordi il tizio del secondo anno che soffriva di flatulenza?». Come scordarlo? «Una storia che puzzava quella».

«Se hanno dimenticato quello, dimenticheranno anche questa sciocchezza», mi incoraggia Tess.

Annuisco con convinzione. E quando sarò la prima donna Presidente degli Stati Uniti d’America, saprò prendermi la mia rivincita.

 

Sono sudata come se avessi corso la maratona di New York sotto il sole cocente di agosto. È vergognoso. Mi sono solo arrampicata su una pertica.

Ho i capelli appiccicati alla fronte e al collo, la maglietta mi sta incollata addosso come una seconda pelle e questo, invece di farmi sembrare sexy, mi fa sentire solo sporca e unta, come un camionista dopo essersi ingozzato di ali di pollo fritte.

Negli spogliatoi, Tess è già nuda sotto la doccia. Invidio la sua completa nonchalance mentre si strofina con la spugna piena di schiuma. Come se stesse andando al mercato a comprare un cesto di mele. Mi gratto la testa e realizzo che, se potessi scegliere, eviterei questo momento come avrei evitato la presa della Bastiglia se mi fossi trovata a Parigi quel famoso Quattordici Luglio, ma, dopo due ore di ginnastica, non posso andare in giro conciata così. Queste sono le due ore settimanali che abbassano il mio livello di autostima sottozero. Impiegherò il resto della settimana a farlo risalire.

Di solito ci riesco benissimo.

Mi tolgo la maglietta e rimango in reggiseno. Non che mi serva a dire il vero: ho due meline appena pronunciate. Non sono da buttar via, anzi, ma tutte le diciottenni che conosco hanno un davanzale ben sviluppato da sfoggiare nelle più svariate occasioni, io invece somiglio più a una tavola da surf. Mi svesto completamente ed è proprio allora che mi passa davanti Bridget Stevenson. Nuda, algida e perfetta. Incede con sicurezza lungo il corridoio delle docce come se stesse sfilando su una passerella. La pelle liscia e bianca come porcellana, i lunghi capelli biondo miele (naturali) che non sembrano subire assolutamente l’attacco del vapore che fuma dalle docce. Il sudore la fa sembrare la testimonial di un bagnoschiuma. Mi preoccupo sempre di nascondermi quando c’è lei nelle vicinanze, anche se non dovrei, ma mi fa sentire a disagio, inadeguata, inappropriata.

Probabilmente è tutto nella mia testa perché, come ho detto, non sono malaccio. Ho il mio seguito maschile anche io. Non ai livelli di Bridget, ma solo perché io non sono una che la distribuisce come il Big Mac al Mc Donald’s.

Quella vacca mi guarda come se fossi un ragnetto da schiacciare e prosegue la sua camminata perfetta verso una delle docce.

Sospiro rassegnata. In fondo, la giornata peggio di così non può andare. Mi infilo sotto la doccia e mi insapono per bene. Metto una quantità considerevole di shampoo sulla massa di boccoli biondi (tinti e arricciati con lo stupefacente potere di venti bigodini) che mi ritrovo in testa, e comincio a massaggiare con forza. Chiudo gli occhi per evitare che la schiuma me li faccia bruciare, e intanto penso a svariati modi per sabotare il sito della scuola, e rimuovere il video che mi vede protagonista della scalata sulla pertica della vergogna.

Non dovrebbe essere difficile. Se c’è una cosa con cui sono brava sono i computer. Ma se lo facessi, saprebbero tutti che sono stata io. Sarebbe come ammettere di aver subito un’umiliazione. Dovrei semplicemente lasciar perdere: se non do peso all’avvenimento, perderà il suo clamore abbastanza in fretta. Ma sì. In fondo fra qualche mese sarò lontana da qui, diretta in qualche università degli Stati Uniti, oppure al Polo Nord. Ho sempre desiderato andare al Polo Nord.

Nel tragitto verso casa sto ancora pensando al modo per riscattarmi agli occhi della comunità, quando Tess, accanto a me, mi trattiene per un braccio e mi costringe a voltarmi.

«Che c’è?», le chiedo sorpresa.

«Siamo arrivate».

«Oh». Guardo davanti a me e scorgo il viale di accesso della mia fattoria. Pochi metri più avanti, si snoda quello della fattoria di Tess.

«Domani prendiamo il pullman, però. Non mi va di camminare con questo freddo». Tess si sfrega le braccia con forza per riscaldarsi. «Mio padre non mi permetterà di prendere la macchina fino a quando non la smetterò di superare i limiti di velocità».

«Cioè mai».

«Esattamente quello che temo».

«Fra qualche giorno dovrei andare dal meccanico a riprendere la mia. Quindi risolto».

«Mi farai guidare?»

«Solo se rispetterai i limiti di velocità», le dico con tono di ammonimento e, come risposta, ricevo un grugnito di disapprovazione.

«Ci vediamo domani mattina. Nel pomeriggio ho un sacco di compiti da fare, quindi me ne starò rintanata in camera per tutto il tempo», mi dice prendendo la strada verso casa. Si volta e mi saluta sbracciandosi come se fosse in partenza alla stazione.

«A domani», le grido mettendo le mani a mo’ di megafono sulla bocca.

Quando entro in casa la trovo deserta. Sorrido e mi fiondo verso il frigo, felice di poter mangiare indisturbata qualunque schifezza. Adoro quando non ci sono mia madre o mia sorella che monitorano ogni cosa che esce dal frigo per entrare nella mia bocca. Sono delle salutiste convinte e mi costringono a seguire il loro esempio. Non morirò certo per una fetta di crostata alle fragole, della panna cotta, dei wurstel con il ketchup, dei tramezzini al tonno e burro, delle patatine e degli M&M’s. Tutte cose che mio padre si ostina a comprare, perché anche lui, come me, non ne vuol sapere di essere un salutista.

Preparo il lettore dvd, mi siedo sul divano davanti alla tv con il mio lauto pasto, e spingo il pulsante play sul telecomando. Le immagini di Tom Welling in maglioncino rosso e jeans allietano la mia vista all’istante. Dimentico persino la pertica. Alla fine di questo episodio, avrò tutto il tempo che voglio per vergognarmene ancora.