Capitolo 11
Abby
Credo di aver messo troppo profumo. Sì, ho messo decisamente troppo profumo. Così lo stordirò, ma Tess ha insistito tanto e prima di vestirmi, dopo la doccia, mi ha svuotato addosso la sua bottiglietta di Hugo Boss, dicendo in tono solenne che la usava per una buona causa. Una causa persa, ho aggiunto io.
Sono a casa da un’ora e di Kevan non c’è ancora traccia. Eppure sono sicura di aver capito bene: ha detto che sarebbe venuto subito dopo la scuola. Me lo ha ripetuto anche oggi in classe, negli unici cinque secondi in cui mi ha rivolto la parola tra la fine della prima lezione e l’inizio della seconda. Dopodiché, è stato in silenzio per la maggior parte del tempo, oppure fuori dalla classe, nascosto chissà dove.
Ma ho notato con piacere, molto piacere, infinito piacere – e so di essere profondamente perfida per questo – che non ha rivolto la parola nemmeno a Dakota se non consideriamo uno: «Spostati, devo passare», pronunciato fra i denti e un: «È una decisione che spetta a me», in risposta a qualcosa che Dakota gli aveva precedentemente sussurrato, ben attenta a non farsi ascoltare da nessuno.
Hanno litigato. Non ho dubbi e non dovrei essere così felice. Insomma, mi sento malvagia, ma il ghigno soddisfatto persiste da ore sulla mia bocca. Non posso fare a meno di provare una certa soddisfazione. Sulla bilancia virtuale dei sentimenti, il peso del mio senso di colpa equivale a quello di uno spillo, mentre il diabolico compiacimento di saperli in rotta di collisione a un branco di elefanti.
Sono ufficialmente cattiva. Ma chi se ne frega!
Probabilmente è per questo che ho un mal di testa bestiale. Sarà il mio karma negativo.
Mi guardo allo specchio e faccio una piroetta su me stessa, sentendomi subito dopo una completa scema. Tess mi ha costretta a indossare una delle sue ridicole mise da ragazza socialmente inserita, una roba da videoclip alla Justin Bieber.
Ho indosso dei jeans strappati sul sedere e una maglietta finto stropicciata che secondo lei fa donna vissuta, ma non troppo. Non ho idea di cosa voglia dire. Mi ha cotonato i capelli per dar loro un po’ di volume, solo che ora sembro una che non si è pettinata dopo essersi alzata dal letto. Alle orecchie mi ha appeso due cerchi che sembrano quelli delle ruote della mia auto, al collo mi ha messo una serie di collane di diverse forme e fatture, e ai polsi sono piena di bracciali e ciondoli che tintinnano facendomi sentire una specie di allarme umano. Se casco in una piscina con questa roba addosso, vado a fondo in meno di mezzo secondo. Oh, per non parlare degli stivali con il tacco alto, un po’ da killer sadomaso.
Il verdetto finale è: un vero schifo.
La tizia che mi osserva dallo specchio non sono io. O meglio, è una versione fasulla di me.
Con una smorfia spazientita comincio a liberarmi della ferraglia che porto addosso. Prima le collane, poi i bracciali e infine gli orecchini. Gli stivali finiscono in un angolo buio dell’armadio, aspettando di essere restituiti alla loro legittima proprietaria. La maglietta finto stropicciata segue il destino delle calzature. Lascio solo i jeans che abbino a una felpa piuttosto vecchia. D’altra parte, se devo ridipingere le pareti che senso ha vestirmi come Madonna ai tempi di Papa don’t preach?
Le Converse ai piedi completano magnificamente il tutto. Adesso sono di nuovo io e, difatti, dopo aver fatto l’ennesima piroetta davanti allo specchio, non mi sento più tanto scema.
Tess non sarà contenta di vedere la sua opera completamente distrutta. Si è impegnata tanto. Resta il fatto che l’ho lasciata fare solo per compiacerla, ero già decisa a disfare tutto non appena se ne fosse andata.
Ecco, mi sento di nuovo perfida. Sensazione che scompare all’istante, come uno sbuffo di fumo, non appena sento un’auto entrare nel viale di casa.
Sbircio dalla finestra e il cuore mi balza in gola come se fosse stato appena sparato da una fionda. Mi precipito in bagno cercando di dare una parvenza di normalità ai miei capelli. Non ci riesco, quindi li raccolgo in una semplice coda che non sarà sexy, ma almeno li tiene a bada.
Sussulto quando sento il campanello. Respiro a fondo un paio di volte per contenere la lava di emozione che mi scivola dentro ogni volta che sto per incontrare Kevan, e dopo essere tornata a respirare in modo normale, scendo di sotto. Prima di aprire la porta inspiro, mi stampo un sorriso spensierato in faccia, e finalmente apro. Dovrei essere preparata a quello che mi trovo davanti. Insomma, una a un certo punto dovrebbe farci l’abitudine, invece è come se lo vedessi sempre per la prima volta. Un colpo di fulmine continuo, perpetuo e infinito. Sollecita i miei sensi in una maniera che a volte mi spaventa. Sento il sangue rimescolarsi nelle vene, e non è un eufemismo: avverto davvero la strana sensazione che qualcosa mi ribollisca dentro. E non è la paella che ho mangiato ieri sera.
Kevan mi sorride. Il primo sorriso che gli vedo fare oggi. Il primo di una lunga serie, mi auguro. Indossa una vecchia tuta blu scuro e una delle solite magliette grigie. Pur essendo vestito in modo abbastanza anonimo, riesce a essere attraente come nessuno.
«Ciao», dice con quel suo tono sempre così particolare. Trascina la voce come se stesse accarezzando le parole e ha un effetto devastante sulla mia debole psiche.
«Ciao», ripeto, evitando di sospirare appoggiandomi allo stipite della porta. Sarebbe una dichiarazione in piena regola. Cerco di non pensare a quanto quella tuta gli valorizzi le gambe, e mi sposto di lato invitandolo a entrare.
«Tua sorella è in casa?», mi chiede dandosi un’occhiata intorno con sguardo sospettoso.
«È dal suo ragazzo. È scappata non appena ha saputo che saresti venuto per aiutarmi a ridipingere. Probabilmente aveva paura di essere invitata a darci una mano».
Conosco mia sorella talmente bene. Sapevo che la sua reazione sarebbe stata la fuga non appena avesse avuto anche solo il sentore di doversi sporcare le mani. Ecco perché gliel’ho detto.
«Meglio, così non dovrò fingere che mi stia simpatica».
Come potrebbe non piacermi questo ragazzo?
«Ti va di bere qualcosa? Una Coca. Condividi una Cola-Cola con Abby», mi esibisco stupidamente nella citazione di uno spot, poi ritorno seria e continuo: «Ma ce l’ho solo diet… sai, sempre per colpa di mia sorella che è fissata con la linea. Altrimenti c’è del succo di mela». Apro il frigo per accertarmene e gli faccio l’elenco della spesa di ieri. «Vediamo: c’è anche del succo d’arancia rigorosamente non ogm, oppure del latte, ma non mi pare il caso di offrirti del latte, vero? Già, no. Poi ho…».
«Il succo d’arancia andrà benissimo, grazie». Kevan mi interrompe incrociando le braccia sul petto e sollevando un sopracciglio, mentre fa un mezzo sorriso. Forse non si rende conto di quanto tali sue espressioni siano devastanti.
«Non ho birra, purtroppo. Presumo sarebbe stata meglio quella».
«Il succo d’arancia è perfetto. Sono un salutista».
«Ma dài? Non l’avrei mai detto notando il tuo fisico cesellato nel marmo». Mi pento delle mie parole mezzo secondo dopo averle pronunciate. Mi volto per nascondere una smorfia di biasimo verso me stessa, e l’imbarazzo mi pervade.
«Cesellato nel marmo?», mi chiede lui e vedo il sorriso ironico che gli spunta sulle labbra. L’imbarazzo cresce a dismisura e raggiunge livelli che nemmeno con la pertica della vergogna ho toccato.
Mi volto tatuandomi sul viso un’espressione di indifferenza. Sollevo le spalle come se non mi importasse molto di quello che ho detto. «Certo. Hai un fisico piuttosto scolpito. Non dirmi che sei uno di quelli che fa finta di non saperlo e va in cerca di facili complimenti».
«No, lo so benissimo di non essere proprio mingherlino, ma nessuno mi aveva mai detto che ho un fisico cesellato nel marmo». Insiste nel sorridermi come se avessi detto qualcosa di sconcio. E il bello è che sembra che gli piaccia.
«Magari ci mettiamo al lavoro adesso, ti va?», propongo per togliermi definitivamente dall’imbarazzo.
«Non mi avevi offerto da bere?». Kevan ha uno sguardo confuso e non c’è da biasimarlo. Mi sto di nuovo comportando come una deficiente.
«Hai ragione, scusami. Ma dove avrò la testa?». Ostento una risatina che dovrebbe essere sexy, invece risulta forzatissima. È palese che non sto dando una buona impressione, anche se lui continua a sorridere imperterrito. Vorrei tanto sapere cosa gli passa per la testa.
Riempio un bel bicchierone di succo d’arancia e glielo passo sul bancone della cucina. Lui si siede su uno sgabello con aria rilassata. Afferra il bicchiere e comincia a berlo prima a piccoli sorsi, poi tutto d’un fiato e mi restituisce il bicchiere. «Grazie, ci voleva davvero».
«Dovresti dirlo fra qualche ora, quando sarai stanco e sudato». Il solo pensiero mi fa salire il sangue alla testa e ho una specie di capogiro, tanto che devo appoggiarmi al bancone per non finire a terra.
«Tutto bene?». Kevan allunga una mano verso la mia, ma non mi tocca. Decisamente un fatto positivo.
«Sì, tutto bene», mi affretto a dire, ma mento. Non va bene per niente. Le tempie mi pulsano come se avessi due trivelle a perforarle. Ho il respiro affannato e non è per l’affascinate presenza di Kevan, stavolta. Riesco a raggiungere il frigo e a prendere una bottiglietta d’acqua; la apro e ne bevo un lungo sorso.
Sento Kevan giungere alle mie spalle. Mi chiede di nuovo se sto bene e il suo tono serio mi rende ancora più agitata. «Sto bene», gli ripeto. «Stamattina non ho fatto colazione e ora capisco perché gli esperti dicono che è il pasto più importante della giornata».
«Forse dovresti stenderti un po’. Rimandiamo il lavoro a un’altra volta, okay?»
«Neanche per sogno!», esclamo voltandomi verso di lui. «Ho detto che sto bene. Possiamo cominciare quando vuoi». Non accetto l’idea che se ne possa andare solo perché sono troppo stupida per riuscire a nascondere un banale capogiro.
«Ne sei sicura?», mi domanda e ha di nuovo quel tono eccessivamente preoccupato.
«Più che sicura. Sicurissima», rispondo facendomi una croce sul petto e allargando le labbra in un sorriso.
Lui annuisce, ma non sembra molto convinto. Ciò nonostante dice: «Scarico l’occorrente dall’auto. Ti aspetto sul portico».
Si allontana e all’improvviso provo l’impellente bisogno di prendermi a ceffoni da sola. Non riesco a capire cosa mi succede in questo periodo. È la sola presenza di Kevan a farmi sentire come se mi fossi scolata un’intera bottiglia di Jack Daniel’s, oppure in me c’è qualcosa che non funziona più a dovere?
Quando lo raggiungo sul portico, dopo aver elucubrato anche troppo sul tipo di malattia che posso aver contratto, lui si è già messo al lavoro. Indossa un berretto per proteggere i capelli dalle gocce di vernice e l’ombra che la visiera getta sul suo viso, gli conferisce un’aria misteriosa. Su chiunque altro quel cappello sembrerebbe ridicolo, su di lui ha lo stesso effetto di uno smoking. Ma direi che sono decisamente di parte. L’obiettività riguardo a questo ragazzo l’ho persa nel momento in cui ha varcato la soglia della mia classe.
«Hai intenzione di metterti al lavoro oppure resti lì a guardarmi?».
La sua voce mi scuote dai miei profondissimi pensieri. Non mi ero accorta di essere rimasta incantata a fissarlo. Un’altra volta. «Stavo riflettendo sulla sfumatura del colore che hai scelto».
«È bianco, Abby».
«Appunto. Riflettevo sulla sfumatura che non ha».
Dopo l’ennesima stupidaggine, decido che è il caso di mettermi al lavoro. Se mi tengo impegnata è probabile che riesca a dire meno fesserie.
Afferro un pennello poggiato sul pavimento del portico che Kevan ha provveduto a coprire in buona parte con un telo di plastica; dipingiamo per un’ora, alla fine della quale ci ritroviamo sudati e assetati. Rientro in cucina ed esco un minuto dopo con due bicchieri di succo d’arancia.
«Grazie, ci voleva proprio», dichiara Kevan scolandoselo in tre secondi netti.
«Te l’avevo detto che lo avresti detto».
«No, tu mi hai detto che avrei dovuto dirlo dopo, non che lo avrei detto». Ci sediamo uno accanto all’altra sulle scale del portico, l’unica superficie priva di telo, come due che si conoscono da una vita. La mia fantasia galoppa e si impenna imbizzarrita perché, più che pensare a due amici che si conoscono da una vita, sto pensando a una coppia che sta insieme da una vita; dietro di noi ci dovrebbe essere la casa in cui viviamo, felici e contenti, con un cane, un gatto e un pesce rosso. Già, magari dovrei andare a cercare il mio cervello che deve essere caduto nel secchio della vernice. Meglio lasciar perdere.
«Fa tanta differenza?», gli chiedo.
«Certo. Supporre di dover fare qualcosa non equivale a farla… Ma di che diavolo stiamo parlando?».
Mi stringo nelle spalle e allargo le braccia. «Non ne ho la più pallida idea».
Lui scoppia a ridere e si appoggia all’indietro sugli avambracci.
«Sei troppo divertente, Abby».
«Spero che sia un bene».
«Lo è, te lo posso assicurare».
Kevan si fa improvvisamente serio e inclina leggermente il corpo verso di me, togliendosi il berretto e passandosi una mano fra i capelli umidi. «Non ho mai conosciuto nessuna come te. Sei sempre così… spontanea e mi piace, mi piace molto. E poi sei così bella nella tua semplicità, persino più bella di Dakota, tanto che ho improvvisamente voglia di baciarti».
Fermi tutti!
Ci avete creduto, vero? Magari fosse capitato davvero!
Rewind. In realtà, le cose sono andate così.
«Sei troppo divertente, Abby».
«Spero che sia un bene».
«Lo è, te lo posso assicurare».
Kevan si fa improvvisamente serio e inclina leggermente il corpo verso di me, togliendosi il berretto e passandosi una mano fra i capelli umidi. «Se penso che dobbiamo ancora finire quel pallosissimo progetto di storia…», sbuffa.
«Già, una vera rottura di scatole».
Kevan si alza in piedi, si rimette il berretto e si spolvera energicamente i pantaloni. Lo guardo estasiata, seguendo ogni movimento come se fossi ipnotizzata.
«Ti va di continuare a lavorare sul progetto prima che me ne vada? Con la pittura direi che per oggi abbiamo finito».
Mi alzo anche io e annuisco con un sorriso, mentre mi prende all’improvviso un altro capogiro. Stavolta molto più forte del primo. Barcollo all’indietro e sento travolgermi da un’ondata di nausea. Alzo lo sguardo su Kevan e cerco di parlare. Ho la saliva azzerata e un rivolo di sudore freddo mi scende lungo la schiena, lento come un serpentello che si avvicina pigramente alla preda.
«Credo di non sentirmi bene».