Capitolo 24

Kevan

 

 

 

 

 

 

Inchiodati dalla ruggine alle rotaie ci sono alcuni carrelli anneriti, con al loro interno dei resti di carbone. L’odore qui sotto è stantio, l’aria è ancora impregnata di particelle di pulviscolo nero. Man mano che proseguiamo, si dirada, ma la sento bruciare nel naso.

Le rotaie si interrompono di colpo davanti a una porta in legno. Qualcuno la apre, svelando una piccola anticamera dove a fatica riusciamo a entrare tutti. Ci appare di fronte un’altra porta, stavolta di acciaio, chiusa con pesanti chiavistelli della stessa lega metallica. Viene aperta anche questa e ci introduce in un corridoio stretto. Il pavimento sotto di noi è di lucido linoleum rosso, le pareti sono d’acciaio, si arcuano e si congiungono in una stretta linea sulle nostre teste. È come ritrovarsi a camminare in una piccola piramide.

Sento qualcuno che mi afferra la maglietta all’altezza del fianco. Mi volto e incontro lo sguardo preoccupato di Dakota. D’istinto le prendo la mano e la stringo nella mia. Per quanto sia sempre stata forte e decisa, il nostro attuale salto nell’ignoto la rende insicura, nervosa, come rende insicuro e nervoso me del resto.

Allungo il capo oltre la fila di ibridi davanti a me. Mi sento una specie di prigioniero, circondato da sconosciuti. Se non fosse per la presenza di Lexion a capo della fila, avrei seriamente paura per la mia incolumità.

Il gruppo si ferma di colpo. Sento l’ennesima porta aprirsi e all’improvviso una luce accecante mi colpisce gli occhi. Li chiudo e li riapro più volte per abituarli lentamente alla luminosità abbagliante, mentre un ragazzo dietro di me mi spinge a proseguire fino al confine tra il corridoio e qualcosa di assolutamente inaspettato: un atrio enorme. Si estende in un cerchio irregolare che ha un diametro di almeno cinquanta metri. Vecchie rotaie convergono l’una sull’altra, alcuni fari sono appesi alle pareti rocciose nere di fuliggine e illuminano lo spazio circostante puntando in luoghi precisi del cerchio. All’interno di questo spazio vi è un enorme acquario, alto un paio di metri e largo almeno quattro. È rinforzato ai lati da cerniere in acciaio e il liquido che contiene sembrerebbe essere acqua, ma non ne sono sicuro, perché ha un aspetto gelatinoso.

Un rumore di passi affrettati si fa sempre più vicino. Lexion si guarda intorno, fa un passo avanti, inciampa e ruota la testa da entrambi i lati. L’eco che c’è nella miniera impedisce di capire da dove giungano i passi, ma all’improvviso una lunga ombra si staglia contro la parete alla nostra sinistra, facendosi più piccola man mano che la figura a cui appartiene si mostra del tutto, sbucando da un cunicolo. Si tratta di una donna.

È giovane, ha un aspetto semplice. Una coda di cavallo bionda sfiora le esili spalle e i suoi abiti dal taglio sportivo indicano che le piace stare comoda. Non sembra affatto pericolosa. È quello che spero, perché neanche stavolta riesco a sentire alcun pensiero. È un ibrido anche lei. Rallenta l’andatura per qualche secondo, guarda verso il nostro gruppo e tira un sospiro portandosi una mano sul cuore, come se fosse sollevata per qualcosa. Le sue labbra si aprono in un sorriso e solo qualche secondo dopo vedo che il capitano lo ricambia. Con mio sommo stupore, mi accorgo che Lexion ha gli occhi lucidi quando inizia a procedere spedito verso la ragazza bionda. I due si corrono praticamente incontro. Si trovano a metà strada, Lexion la afferra per la vita e la solleva stringendola, tenendole il capo contro la propria spalla. Poi il capitano scioglie l’abbraccio, le prende il volto tra le mani e sembra sussurrarle qualcosa che non riesco a sentire, ma il suo atteggiamento è più eloquente più di mille parole. Quando la bacia sulle labbra, non ho più dubbi.

Dakota lascia andare all’improvviso la mia mano ed espelle a singhiozzo l’aria dai polmoni. Sul viso ha dipinti la delusione, lo sconcerto e un pizzico di rabbia. È chiaro che quello che è appena accaduto, è qualcosa che non si aspettava.

Con un braccio sulle spalle della donna, Lexion torna verso di noi. La sua espressione è diversa da quella severa di sempre. Sorride e sembra non riuscire a smettere. Il gruppo di ibridi si apre davanti a noi, lasciandoli passare.

«Kevan, Dakota, lei è Emily, mia moglie». Quando lo dice, la sua voce è decisa, colma di orgoglio.

Non ho idea di cosa dire o fare. Tutta la situazione ha degli aspetti inconsueti, se non addirittura incredibili. Non avrei mai immaginato che Lexion potesse avere una moglie. Che è anche un ibrido, tra l’altro. Quante altre cose ha nascosto quest’uomo?

«Kevan, Lexion mi ha parlato molto di te. So che sei un ragazzo di cui ci si può fidare, uno dei pochi che non odia la nostra razza», commenta la donna, guardandomi dritto negli occhi. Subito volge lo sguardo verso Dakota. «Tu invece devi essere Dakota». Emily non prosegue oltre, come se temesse di sbilanciarsi troppo.

«Suppongo che il capitano non ti abbia parlato affatto di me. Già, perché io al contrario di Kevan, la vostra razza la odio eccome».

“Smettila!” le impongo con la mente, ma prosegue imperterrita.

«Non so che diavolo ci faccio qui. Non mi interessano le vostre stupide crociate pro Abby. Lasciatemi…». Indietreggia e fa per voltarsi. La sua intenzione è quella di scappare, ma si scontra contro un muro imprevisto.

«Dove credi di andare… aliena?». Il ragazzo che ha dato fuoco allo sciame, fa un ghigno mentre troneggia su Dakota. Si passa una mano nei capelli scuri e, quando la ritira, schiocca le dita. Sul pollice appare una piccola fiammella che allunga minacciosamente verso di lei.

«Jay, basta così!», lo rimprovera Emily. «Perdonatelo, mio fratello non conosce le buone maniere».

Il ragazzo si esibisce in una smorfia di disappunto, ma costringe Dakota a voltarsi di nuovo. La afferra per le spalle in malo modo e la spinge in avanti. Contraggo la mascella, ma il mio istinto di protezione prevale. Mi frappongo fra lui e la mia amica e, con il viso a pochi centimetri dal suo, lo minaccio dicendo: «Non provare mai più a toccarla».

«Non ho paura di te, alieno. Posso schiacciarti come un moscerino».

«Devi solo provarci, ibrido».

«Ora basta!», tuona la voce di Lexion. Si avvicina a noi e, con uno spintone per ognuno, ci allontana l’uno dall’altro. «La guerra là fuori non è abbastanza per voi? Jay, Kevan non siete nemici. Dakota, in quanto a te, ti consiglio di lasciare da parte i tuoi ideali. Nessuno ti farà del male e, se anche provassi a fuggire, non andresti molto lontano. Nessuno ti permetterà di andartene, correndo il rischio di svelare la nostra posizione».

«Sei solo uno sporco traditore. Credevo che fossi…», comincia Dakota, ma si interrompe incapace di proseguire. La voce le trema e sembra sul punto di piangere, ma stoicamente trattiene le lacrime.

«Non giudicare ciò che non conosci, Dakota», si limita a dirle il capitano. Torna a rivolgere l’attenzione alla moglie. «Come sta Abby?».

Tendo le orecchie e mi faccio più attento. «Le abbiamo iniettato un’altra dose di sedativo, ma la ferita che ha riportato è più grave del previsto. Ha bisogno dell’acquario, altrimenti rischia di morire».

«Che cosa?». Percorro la breve distanza che mi divide dal capitano e lo prendo per un braccio. «A che cosa è servito tutto quello che ho fatto se Abby morirà?».

Emily posa una mano sulla mia e con gentile fermezza mi costringe ad abbandonare la presa. «Non morirà, ma solo il siero criogenico contenuto nell’acquario è in grado di salvarla. Rigenererà i suoi tessuti e compenserà la perdita di sangue. L’ho appena preparata, vuoi vederla prima dell’operazione?».

Annuisco, sospirando. Sento che la testa potrebbe scoppiarmi da un momento all’altro.

«Seguimi».

Osservo Dakota mentre mi incammino con Emily verso il cunicolo da cui è comparsa. Il capitano e gli altri ragazzi del gruppo la tengono d’occhio. Sono certo che non proverà a scappare, ma con le labbra le mimo un: «Torno tra poco. Resta lì».

Lei distoglie lo sguardo, indispettita, ma ora non ho tempo di occuparmi dei suoi sentimenti feriti.

 

Io ed Emily percorriamo un altro lungo corridoio per poi giungere in una sorta di sala operatoria. È piena di strumenti medici e l’odore di farmaci è così forte da risultare quasi insopportabile.

«Questo è il mio regno», mi dice Emily. «Sono un medico. In realtà la mia specializzazione è la biochimica, ma con i ragazzi ho imparato presto a cavarmela in altri rami della medicina. La cardiochirurgia è uno di questi. Il cuore è il centro del potere di noi ibridi, il motore che lo genera. Come lo è anche in voi alieni».

Le rivolgo un sorriso stentato. Non capisco niente di quello che mi dice e a un certo punto sembra accorgersene. «Scusami, tendo a essere prolissa quando parlo del mio lavoro. Eccoci, siamo arrivati».

Emily mi introduce in un piccolo stanzino adiacente alla sala operatoria, illuminato da una luce piuttosto fioca. Abby è stesa su un lettino. Delle brutte lenzuola dalla fantasia a fiori coprono il suo fragile corpo. I suoi occhi sono chiusi, il respiro sembra regolare. Mi accorgo solo in un secondo momento che il lenzuolo sotto di lei è impregnato di sangue. I capelli sono attaccati alla fronte per il sudore, ha la bocca leggermente aperta, le labbra secche.

Stringo la mascella. La pena che sto provando in questo momento mi sommerge. Deglutisco a fatica, la bile mi risale in bocca e ha un sapore amaro. I ricordi di un volto sorridente e di un vulcano di energia, mi soffocano e bruciano. È come se mi trovassi in balia di un fiume di lava.

L’uomo accanto a lei non sembra stare meglio di me. Lo riconosco, è lo stesso che me l’ha strappata dalle braccia.

«Ti do un minuto, non un secondo di più», mi dice. Il suo tono non ammette repliche. Lascia andare a malincuore la mano di Abby, si allontana di qualche metro insieme a Emily, e li sento confabulare qualcosa, ma la mia attenzione in questo momento è tutta rivolta verso la ragazza sul lettino. Ho solo un minuto.

«Ehi, piccola… sai sempre come attirare l’attenzione su di te, vero?». Stringo un pugno contro le labbra, chinandomi su di lei. Mi sento stupido. «Hai scatenato una specie di apocalisse e non so nemmeno come hai fatto. Non so chi sei adesso, ma so chi eri prima. Ed è quella ragazza che ho cercato invano di proteggere. Mi dispiace, piccola. Mi dispiace immensamente di non averti evitato il dolore e…». Mi blocco quando gli occhi di Abby si aprono leggermente. Mi fissa e mi pare di notare un leggero sorriso sulle sue labbra.

«Ca-cavolo», sussurra debolmente. «Morire è… meraviglioso». Poi sviene di nuovo.

Scuoto la testa con forza. «No, no che non morirai». Sto per prenderle una mano quando qualcuno mi afferra per le spalle e mi allontana con forza da lei. «No, per favore, dammi solo un altro minuto con lei, ti prego».

«Tempo scaduto, ragazzo». L’uomo mi mette una mano sul petto per tenermi lontano. La scosto da me con violenza, in preda a una rabbia improvvisa e a lungo repressa. Sono capitate troppe cose perché io possa mantenere la calma a questo punto.

«Si può sapere chi diavolo sei? Che cosa vuoi da Abby? Che diritti hai su di lei?».

L’uomo contrae la mascella e stringe i pugni. «Risponderò a tutte e tre le tue domande, Kevan. Chi sono? Sono Samuel Fitzgerald. Che cosa voglio da Abby? Voglio salvarla. Che diritti ho su di lei? Tutti i diritti che hanno i padri: Abby è mia figlia».

 

Il tempo sembra fermarsi di colpo e risucchiarmi in un vortice di sensazioni che non riesco a controllare. Paura, dubbio. Per qualche secondo tremo. Sono al cospetto dell’uomo più temuto dalla Confederazione. Ed è il padre di Abby.

«Perché non ti riconosco? Il tuo volto dovrebbe essere stampato a fuoco nella mia mente».

Samuel mi guarda per un lungo attimo. «Te lo spiegherò, ma non adesso».

«Sam, è ora. Dobbiamo portarla all’acquario». Emily stacca la flebo inserita nel braccio di Abby, mentre Samuel la trasporta sulla barella fino all’acquario. Trovo ancora tutti lì ad aspettarci. Il primo ad avvicinarsi è Lexion.

«Sam… mi dispiace. Avrei dovuto… È colpa mia». Il tono incerto del capitano lo fa apparire stanco e fragile.

Fitzgerald gli mette una mano su una spalla con decisione. «Non rimproverarti di nulla, amico mio. Sappiamo entrambi di chi è la colpa e giuro su quello che ho di più caro, che farò pagare anche questa a quel bastardo psicopatico».

Emily scopre Abby, rivelando il suo corpo seminudo, coperto solo da due larghi bendaggi sulle parti intime e sui seni. La spalla sinistra, dove è stata colpita, è squarciata. Un taglio lungo e profondo si estende fino a sparire sotto la benda – ormai del colore del suo sangue – all’altezza del cuore.

Samuel prende Abby in braccio e un gemito di dolore le sale alla bocca. La depone su un’altra barella e la lega con delle cinghie di cuoio. Sembra uno strumento di tortura. Preme un pulsante su un display accanto all’acquario e la lettiga si solleva fino a trovarsi in posizione orizzontale sul pelo di quello strano liquido. Lentamente si sposta compiendo un semicerchio e affonda in verticale nel siero. Abby si ritrova improvvisamente immersa fino al collo nell’acquario. Non apre gli occhi nemmeno una volta.

Resto a guardare il suo fragile corpo inchiodato alla lettiga con delle fasce di cuoio, coperto da uno strano fluido, con la testa riversa da un lato. Mi sembra l’innocente sacrificio per qualche dio.

Mi invade una marea di emozioni contrastanti, confondendomi le idee e lasciandomi preda di una poderosa morsa alla bocca dello stomaco, una via di mezzo fra i crampi della fame e la nausea.

Non riconosco più la piccola Abby dalla lingua lunga. Vedo solo una fragile creatura che combatte per vivere e vorrei solo trovare un modo per aiutarla.

«Ci vorranno almeno dodici ore per capire se il siero sta facendo effetto. È il caso di andare a riposare. Torneremo domani. Io la monitorerò attraverso le telecamere, se succede qualcosa di rilevante, vi avviserò», dice Emily.

«Io non mi muovo da qui», ribatte Samuel.

«Io resto qui», dico quasi nello stesso istante. Entrambi ci guardiamo duellando con lo sguardo e, con mia grande sorpresa, il primo a cedere e a distogliere gli occhi è Samuel.

«Io e il ragazzo restiamo qui con lei. Voi andate pure a riposare».

Emily solleva le spalle. La vedo affrettarsi verso il cunicolo e tornare qualche minuto dopo con una valigetta del pronto soccorso. «Hai bisogno di far cicatrizzare questa ferita», mi dice strappando del tutto la manica della maglietta lacerata dal pungiglione dello scorpione. Afferra uno spray e lo spruzza direttamente sul taglio. L’arto sembra congelarsi all’istante. È doloroso, ma dura solo pochi secondi e subito sento la lesione cominciare a rimarginarsi.

Passano pochi minuti prima che io e il padre di Abby ci ritroviamo completamente soli. Lo sguardo di entrambi è rivolto verso la debole creatura davanti a noi. Non posso leggere i pensieri dell’uomo, ma so per certo che il suo dolore deve essere immenso. Lo leggo nei suoi occhi. E leggo nel mio cuore la sua stessa identica preoccupazione.