Capitolo 10

Dakota

 

 

 

 

 

 

Il dottor Shentius mi sta dicendo che l’esame del dna che ho recuperato ha dato esito negativo. Non si tratta di ibridi, ma di semplici umani. Annuisco alle sue parole, ma sto pensando a tutt’altro. La rivelazione di Kevan poco fa mi ha lasciata stupita, senza parole. Come ho fatto a non accorgermene in tutto questo tempo? Come posso non aver notato alcuni piccoli indizi che ora si affacciano molto chiaramente nella mia testa? Mi sentirei lusingata se non mi sentissi nella confusione più totale. Ciò cambia tutto. Cambia il nostro rapporto finora basato sulla fiducia reciproca. E soprattutto cambierà il modo in cui mi comporterò con lui d’ora in poi.

È naturale che non possiamo più andare avanti con la recita dei fidanzatini felici e appassionati, recita che mi rendo conto solo ora di quanto sia stata stupida e infantile.

Il dottor Shentius si schiarisce la voce per attirare la mia attenzione, e io scuoto la testa. Punto lo sguardo sul suo volto pieno di rughe e macchie di vecchiaia, e scioccamente riesco a pensare che un giorno anche io sarò così. Non ha senso, sto solo cercando di distrarre la mente dai pensieri che mi agitano, per non soffocare nel limbo confuso in cui Kevan mi ha gettata.

«Porta i risultati al capitano Lexion. E fa notare con tatto che la sua squadra non sta facendo altro che buchi nell’acqua». Shentius mi mette in mano la documentazione e lo osservo bene per la prima volta da quando sono qui. Sembra stanco. I capelli grigi, le occhiaie dello stesso colore e le ossa sporgenti del volto, gli conferiscono un’aria davvero inquietante e poco sana. Annuisco con un piccolo cenno del capo, senza proferire parola. Il dottore si allontana borbottando qualcosa a proposito del fatto che non ci sia più rispetto tra i subordinati, ma non gli do peso. Esco dal laboratorio e con passo incerto mi dirigo verso l’ufficio del capitano, sperando di non incrociare Kevan. La fortuna mi assiste e, quando arrivo da Lexion, Kevan è già andato via.

«Capitano, gli ultimi risultati delle analisi di oggi. Nessun ibrido, solo umani», dico mentre fisso lo sguardo su di lui. Ha ragione Kevan, è molto più grande di me, lo si capisce dall’aspetto e dall’atteggiamento. Ha un’aria sempre così sicura di sé, ti mette di continuo nella scomoda posizione di dover supplicare anche solo per una sua occhiata. Stavolta non serve che io mi metta troppo in mostra, perché solleva subito lo sguardo su di me. Si appoggia allo schienale della sedia e mi fa cenno di lasciare il referto sulla scrivania.

«Altri ordini per me?», chiedo educatamente. La schiena dritta, lo sguardo fisso su di lui. Non sembro nervosa, non lo sembro mai. Ho il totale controllo delle mie emozioni e la mente chiusa, sigillata.

«Nessuno in particolare, Dakota. Ma voglio parlarti di qualcosa. Siediti».

Giro intorno alla sedia bianca e immacolata. Mi siedo restando sempre dritta con la schiena, le mani appoggiate sulle ginocchia. L’unica nota di colore in questo quadretto sono i miei capelli rossi. Difficile che non si notino. Sono come una macchia di sangue su una tela immacolata.

«Kevan sta attraversando un pessimo periodo», comincia Lexion e non posso fare a meno di trasalire. Il pensiero che quel cretino gli abbia raccontato ciò che è accaduto, mi sfiora la mente solo per una frazione di secondo. Per quale motivo Kevan dovrebbe andare a raccontare gli affari suoi a Lexion? Mi rilasso immediatamente riprendendo il controllo della situazione e lascio che sia il capitano a proseguire.

«La storia di Abby Allen lo ha riportato sulla strada che speravamo avesse abbandonato in Ohio, ma ho motivo di credere che si riprenderà».

La faccenda dell’Ohio ultimamente torna con eccessiva costanza nei nostri discorsi, ma non posso prenderla sottogamba come in realtà vorrei fare. Per Kevan è stato un periodo molto difficile e ho temuto davvero che non riuscisse a superarlo. Quando Lexion ha proposto il trasferimento qui in Kansas ho ringraziato il cielo infinite volte, perché solo così Kevan avrebbe potuto dimenticare quello che era successo. Non mi aspettavo certo che ci affidasse subito un nuovo caso di cui occuparci. Terapia d’urto, l’ha definita il capitano.

«Pensavo che avesse superato la cosa, ma mi sbagliavo», sta dicendo ancora Lexion. «Perciò ho deciso di concedergli dell’altro tempo per decidere se proseguire o meno con la missione. Lasciagli il suo spazio, Dakota».

«Perché…». Lo guardo sorpresa. Ora sì che sono nervosa. «Perché mi dice questo?»

«Perché so chi sei e cosa pensi. Sei sempre stata così… decisa è un eufemismo. Sei un rullo compressore quando ti viene affidata una missione e lo apprezzo, sei uno dei migliori soldati con cui mi sia capitato di collaborare».

Ammiro il fatto che Lexion abbia usato il termine collaborare. Mi fa sentire al suo stesso livello, anche se è palese che non sono affatto una sua pari, né per grado né per forza né per nient’altro.

«Ma stavolta devi farti da parte. La missione è sospesa fino a nuovo ordine. Quando Kevan si sentirà pronto a prendere una decisione, allora agiremo di conseguenza. Se dovesse abbandonare, subentrerai tu».

Annuisco mentre una sottile soddisfazione si impossessa di me. Farò di tutto per compiacere Lexion, per mostrargli tutto il mio valore.

«Quando e se verrà il momento, sarò pronta».

«Non mi aspetto altro dalla sorella di Killian».

Killian. Quel nome non mi riporta nessun ricordo alla memoria, se non quelli che Lexion mi ha dipinto nei suoi racconti. So che lui e mio fratello erano molto amici prima della guerra su Niviux, durante la quale Killian ha perso la vita. Da allora Lexion per me è diventato una specie di tutore, fedele alla promessa che ha fatto al suo migliore amico di prendersi cura della sorellina in fasce. Solo che non sono più in fasce da molto tempo. Sono una donna, ma Lexion sembra non essersene accorto.

È lui che mi ha salvata, lui che mi ha portato sulla nave dei tremila che insieme a Rhio sono giunti sulla Terra, e non so se sia per tale motivo o meno che sento un legame speciale con quest’uomo nonostante i suoi trentadue anni. So per certo che è l’unica persona al mondo capace di minare il mio noto autocontrollo.

Dovrei vergognarmi dei miei pensieri, ma non ci riesco.

Lexion si alza in piedi. Ha un aspetto magnifico nella sua divisa bianca. Le spalle larghe, che nella mia fantasia sarebbero in grado di sopportare il peso dell’universo, si aprono come le ali di un angelo; e angelico è anche il suo volto: le labbra piene perfettamente disegnate, gli occhi di un verde che non è decisamente di questa Terra e i capelli castani, corti e perfettamente in ordine.

«Puoi andare, Dakota».

Non vorrei in realtà, vorrei stare qui a guardarlo per sempre.

«Dakota?»

«Sissignore». Mi alzo con uno scatto improvviso che mi fa quasi inciampare nei miei stessi piedi. Lexion mi fa cenno di raggiungere la porta e con passo affrettato mi dileguo dal suo ufficio.