Capitolo 4
Sempre Abby
Sono seduta su un lettino con un paio di tamponi ficcati nelle narici, mentre l’infermiera traffica nell’armadietto dei medicinali. È la prima volta che finisco in infermeria, e devo dire che è triste esattamente come tutti la descrivono.
È tutto bianco e beige qui dentro. Asettico e senza personalità.
Una pianta che ha sicuramente visto tempi migliori campeggia sul davanzale della finestra. La tapparella è sollevata per metà, e da qui riesco a intravedere il professor Duncan che tiene lezione di ginnastica all’aperto a quelli del primo anno. Non è ancora primavera, ma un tiepido sole ha iniziato a riscaldare la terra del Kansas.
Torno a rivolgere la mia attenzione alla stanza in cui mi trovo e la stazza dell’infermiera, piegata a novanta gradi poco lontana da me, mi riporta alla mente immagini di dirigibili volanti. Non è divertente, penso. La donna si rialza a fatica e si volta verso di me con il volto arrossato per lo sforzo. Sarà più o meno come sollevare un centinaio di chili con la sola forza del pensiero?
Respira con un leggero sibilo asmatico. Tutto quel grasso le sta sul petto come un macigno. Sento i suoi polmoni gridare aiuto, ma il sibilo persistente e un colpo di tosse li mettono a tacere. La donna si avvicina con passo pesante. Ha una borsa del ghiaccio in una mano e uno spray nell’altra. Senza proferire parola mi sbatte la borsa sulla fronte e me la tiene premuta, mentre appoggia lo spray sul lettino; mi toglie i tamponi dalle narici e, ripreso lo spray, me lo spruzza senza tanti complimenti prima in una narice, poi nell’altra, facendomelo andare in gola.
Tossisco sentendo un saporaccio amaro scendermi in bocca. «Resta ferma qui per qualche minuto. Torno subito», mi dice la donna con il suo vocione da mamma orsa. Quando sparisce, emetto un Bleah di protesta, mentre sento un fastidioso pizzicore. Sembra che abbia bevuto della Coca-Cola con il naso. Mi chiedo perché nella realtà non ci siano mai dottori in stile Grey’s Anatomy a curarti, ma grosse infermierone col tatto di un orco. Be Ok canta Ingrid Michaelson nella mia testa.
Approfitto di questo momento di pausa per continuare a guardarmi intorno nella stanza del terrore. Alle pareti ci sono diversi poster che spiegano la natura di varie malattie, ma uno in particolare attira la mia attenzione: quello sui diversi metodi anticoncezionali. Un preservativo gigante con occhi, bocca, braccia, mani e gambe, troneggia nel mezzo del foglio e sotto l’immagine terrificante c’è scritto: “Usami, se vuoi evitare gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili”.
Lo trovo inquietante e quasi quasi preferisco non fare sesso. Non che sia una decisione che ho preso in questo preciso istante terrorizzata da Mr. Condom. In realtà non ho mai fatto sesso. E che cavolo, ho diciotto anni, che diavolo avete da scandalizzarvi tanto? Regalerò il mio prezioso fiore all’uomo che mi chiederà in moglie.
Sì, certo, credeteci. Semplicemente non ho mai conosciuto qualcuno che mi interessasse tanto. Insomma, ci sarebbe Alex, il tizio che insiste nel farmi il filo, ma non è che sia disperata al punto da darla al primo che capita solo perché la maggior parte delle mie amiche lo ha già fatto, Tess compresa. E dai suoi racconti, non è che il sesso sia poi tutta questa gran cosa. Meglio che mi goda la mia innocente purezza ancora un po’, anche se la mia solerte amica continua a dirmi che dovrei fare il grande salto. Sotto sotto, spera che incontri un riccone supersexy con il macchinone, che mi insegni l’arte dell’amore a forza di bondage. Legge gli stessi libri di mia sorella, già.
Qualche minuto dopo, così come aveva promesso, l’infermiera Solinsky torna con un documento da farmi firmare. Mi viene chiesto se voglio tornare a casa, e in quel caso dovrebbero chiamare uno dei miei genitori, ma al momento i miei si trovano a Kyoto, nel lontano Oriente, perciò sarebbe un viaggio piuttosto lungo per venirmi a prendere. Ho comunque già deciso di rimanere a scuola. Il compito di matematica mi aspetta, e ho bisogno di dimostrare la mia bravura almeno in qualcosa.
L’infermiera mi infila due tamponi puliti nel naso e mi rispedisce in classe. Lungo il tragitto mi capita di specchiarmi in un trofeo vinto dalla squadra di basket, racchiuso in una teca della scuola. Vorrei mettermi a urlare. Sono un disastro, un vero disastro. Tralasciando il fatto che la superficie del trofeo fa apparire la mia faccia grossa e ovalizzata come un pallone da rugby, il dramma maggiore sono le chiazze rossastre di sangue raggrumato intorno al naso, e quel velo violaceo che è apparso sotto gli occhi. Sembro una che non dorme da mesi. O peggio, una che si fa di cocaina dalla mattina alla sera.
Raccogliendo gli ultimi residui di dignità che ancora non mi sono finiti del tutto sotto i piedi, mi dirigo verso la classe. Afferro la maniglia e faccio un profondo respiro – con la bocca, dato che ho i tamponi nelle narici – stampandomi un sorriso da deficiente sulle labbra.
Se mi comporto come se non me ne importasse niente, non importerà nemmeno agli altri.
Quando entro in classe, il preside Michaelson non c’è più. La professoressa Perkins è seduta dietro la cattedra e si sollazza giocando a sudoku. I miei compagni sono tutti concentrati sul test di matematica, ma non si lasciano sfuggire l’occasione di rivolgermi dei sorrisi ironici o di compassione. Non so quale delle due varietà di sorriso mi fa vergognare di più. Tess alza lo sguardo su di me e respira profondamente, come se fino a questo momento fosse rimasta in apnea. Capisco che è in seria difficoltà con il test e che non vedeva l’ora che tornassi in classe. Le sorrido, ma la mia espressione allegra muta in una di puro sconcerto quando mi accorgo che nei due banchi dietro di noi si sono sistemati Kevan e Dakota. Chiunque stia scrivendo questa pagina del mio destino, non brilla certo per originalità.
La Perkins alza lo sguardo dal suo sudoku e, con un minaccioso movimento della testa, mi fa cenno di prendere posto. Il mio test è già sul banco. Mi dirigo a piccoli passi verso la mia postazione, con gli occhi fissi su Kevan. Spero follemente di potergli tenere la testa abbassata sul test con la sola forza del pensiero, evitando che guardi il mio volto ridotto come quello di un pugile peso mosca. Speranza vana, perché nel momento in cui faccio il giro tra i banchi per raggiungere il mio, lui e Dakota si mettono a osservarmi. Mi guardano come se fossi un grosso errore della natura e per un attimo, mi convinco di esserlo davvero. Forse dovrei nascondermi nelle torri di una cattedrale e far compagnia ai gargoyle.
Sposto la sedia sul pavimento con un rumore molesto, ma tanto ormai peggio di così non può andare. Quando finalmente mi siedo, Tess mi arpiona il braccio e mi fissa implorante, sempre tenendo d’occhio la Perkins che è tornata a concentrarsi sul suo sudoku.
«Non ci capisco niente», mi sussurra, gli occhi fuori dalle orbite. «Aiutami, ti prego», aggiunge con il tono di una che è in una situazione da cui dipende la sua vita.
Le do una leggera pacca sulla mano e le mostro la mia migliore espressione da: Non preoccuparti, ci penso io. Do uno sguardo di sottecchi al suo test, diverso dal mio, proprio per evitare che ci si copi l’un l’altro. Ma la Perkins non sa delle mie doti da supereroe per quanto riguarda la matematica. Sono una specie di Rain Man, e sono in grado di risolvere il più difficile degli esercizi in pochissimi minuti. La verifica di Tess riguarda grafici di una funzione, equazione della tangente a una curva, operazioni delle derivate, funzioni crescenti e decrescenti, studio del grafico di funzioni e per finire, calcolo di aree e volumi. Un bel po’ di roba per la povera Tess. Non per me, che ho già la testa piena di numeri che si sovrappongono fra loro, si allineano, si intersecano a lettere e linee, fino a completare tutte le soluzioni. Riesco persino a fare le controprove per assicurarmi che sia tutto giusto. Sottobanco, passo a Tess il foglietto su cui ho praticamente fatto il suo test e mi concentro sul mio. Mi rimane meno di mezz’ora, ma non è un problema.
Dieci minuti prima che finisca, Dakota e Kevan si alzano contemporaneamente per consegnare il loro compito. Dopo che anche io e Tess abbiamo consegnato il nostro, la Perkins ci invita a uscire per permettere a chi non ha ancora terminato di proseguire.
I corridoi sono quasi deserti, se non fosse per qualche bidello e qualche professore che li percorre di tanto in tanto. Siamo ancora nel pieno delle lezioni. Vedo Kevan e Dakota allontanarsi di qualche metro da noi come se fossimo delle appestate, ma non ci bado più di tanto. Probabilmente sono disgustati dalla mia vista, perché Tess non potrebbe disgustare nessuno con la sua meravigliosa pelle color cioccolato al latte, gli occhi verdi che creano un meraviglioso contrasto con la pelle scura e i lunghi capelli neri e lisci, risultato di numerose e faticose stirature dal parrucchiere.
La mia amica fatica ancora a nascondere l’eccitazione per il risultato del compito di matematica, e d’istinto mi butta le braccia al collo. «Grazie, Abby, grazie. Non so cosa avrei fatto senza di te. Ti devo un mega favore. Chiedimi qualsiasi cosa e l’avrai».
Faccio finta di pensarci su, picchiettandomi l’indice sul mento. «Mmh… vediamo. La pace nel mondo? No, troppo energie da spendere. Allora facciamo la capacità di non fare più pessime figure come sbattere il naso sul banco. Mmh… mi sa che è più semplice la pace nel mondo».
Tess si esibisce in uno sguardo triste e mette un leggero broncio. «Mi dispiace, è stato un brutto momento. Ti fa molto male?»
«Mi fa male l’orgoglio. O meglio, mi faceva male, perché l’ho lasciato sul banco, in classe. Spiaccicato da una valanga di inadeguatezza».
«Dài, non dire così. Non è stato peggio della pertica della vergogna».
La guardo come se avesse detto l’idiozia più stupefacente della storia. «Stai scherzando? Ho fatto la figura della scema con quelli nuovi». Con lo sguardo le indico Brad e Angelina che stanno amoreggiando… cosa?
Spalanco la bocca. Kevan ha le mani posate sui fianchi di Dakota e lei gli tiene le braccia allacciate dietro al collo. Gli sta spalmata addosso come il burro d’arachidi su una fetta di pane e lo bacia. In maniera decisamente vietata ai minori, strusciando il corpo su e giù contro il suo.
Ogni tanto vedo Kevan aprire gli occhi e controllare che non ci siano professori di passaggio. Lancia uno sguardo anche dalla nostra parte, ma non sembra preoccuparsi molto del fatto che li stiamo osservando a bocca aperta, perché continua imperterrito la spedizione di speleologia nella cavità orale della sua compagna.
«Ma… lo stanno facendo nel corridoio della scuola?», chiedo strabiliata a Tess che alza un angolo della bocca in un mezzo sorriso, e piega la testa di lato per osservare meglio.
«Ehi! Pervertita!», esclamo dandole un leggero pugno sul braccio. «Quelli stanno facendo un porno qui in corridoio e a te piace?»
«Non mi piace!», si difende parlando piano perché non la possano sentire. «E di certo non è un porno quello. Documentati sul genere».
Spalanco le braccia e a quel punto mi chiedo se la mascella mi ritornerà mai in posizione normale.
«Sono osceni», dico in tono sostenuto.
«Non sono osceni, andiamo. Sono dei ragazzi che…».
«Che dovrebbero prendersi una camera».
Tess scuote la testa. «Sei troppo perbenista, lo sai? E un po’ bacchettona».
«Io. Non. Sono. Bacchettona». La scruto con il mio sguardo da non sarò più amica tua se dici un’altra puttanata del genere.
«Sì che lo sei. Non sono i primi che fanno certe robe in corridoio. Non è che per caso la signora Invidia ti sta facendo il solletico da qualche parte, eh?».
Il mio volto si fa più serio del previsto. Lo stato in cui è ridotto mi aiuta ad apparire ancora più drammatica. Tragica direi. I miei occhi passano da Tess alla coppia in amore, soffermandosi sulle mani di Kevan che risalgono la vita di Dakota, sulla bocca di lui che mordicchia quella di lei, e sulle dita di lei attorcigliate attorno al ciuffo di capelli che ricade sulla fronte del suo ragazzo.
Un demone malvagio si impossessa di me, e non so come fermarlo mentre muove il mio corpo verso quei due. Non so se sia la signora Invidia o la signora Scemenza a manovrarmi, sta di fatto che, pur essendo cosciente di stare per farne un’altra delle mie, non riesco a mettere un freno a questo mio improvviso attacco di stupidità acuta; anzi, sento una scarica di adrenalina che mi corre lungo la schiena e mi spinge inesorabilmente a compiere l’ennesimo suicidio sociale. Quante volte dovrà ancora morire la mia dignità prima che decida di rinchiudermi in un convento per espiare tutte le mie colpe?
Tess capisce con qualche secondo di ritardo quello che voglio fare, e si copre la bocca con le mani senza cercare nemmeno di fermarmi. Sa benissimo che quando entro in questa specie di trance è inutile anche provarci.
Avverto i due piccioncini della mia presenza schiarendomi rumorosamente la voce. Sollevo un sopracciglio aspettando che Kevan e Dakota si degnino di rivolgermi la loro attenzione. Dov’è finita la mia timidezza? Perché quando mi serve non la trovo mai?
Finalmente i due si staccano e mi guardano incuriositi, allontanandosi leggermente l’uno dall’altra.
«Disturbo?», chiedo con una mano poggiata su un fianco. Kevan e Dakota si scambiano un’occhiata. Tornano a voltarsi verso di me, ma non rispondono.
«Forse non vi è chiaro che questa è una scuola, non un bordello. Prendetevi una camera se dovete accoppiarvi». Sento il verso imbarazzato di Tess, però qualcuno deve pur mantenere l’ordine.
Dakota sorride, ma il suo non è un sorriso gentile, è il sorriso di qualcuno troppo sicuro di se stesso. Ha l’atteggiamento di una che sa di potermi schiacciare come un moscerino se solo ci provasse.
«Tu sei?»
«Abby. Abby Allen».
«Abby Allen», ripete Kevan e mi sorprendo a pensare a quanto suoni meno anonimo il mio nome pronunciato dalla sua bocca, con quel suo strano accento che è un incrocio fra il britannico e l’americano.
Sto perdendo la concentrazione. L’attacco di scemite sta passando, lo sento, ed è bastato che lui pronunciasse il mio nome come se stesse leccando un gelato alla crema.
Mi vedo fare un passetto indietro, la mia testa si abbassa leggermente. Il demone che mi possiede deve essersela data a gambe. Vorrei prendermi violentemente a schiaffi e a calci nel sedere. Vorrei lanciarmi in una serie di imprecazioni per sfogare la mia frustrazione.
Perché, perché, perché sono così stupida?
Ottusa.
Tonta.
Inconsapevole.
Ingenua.
Sempliciotta.
Sempre così disposta a violentare il mio amor proprio?
Ai posteri l’ardua sentenza.
«Mi dispiace se ti abbiamo offesa. Hai ragione. La scuola non è il posto adatto per fare certe cose. Non si ripeterà, promesso», dice lui con una voce che potrebbe far resuscitare un morto. Mi sembra di sentire persino la musica di alcuni violini. Sto diventando pazza.
«È stato scorretto da parte nostra», continua a dire lui, «quasi quanto risolvere l’intero test di matematica della propria compagna di banco».
I violini vengono sostituiti dal secondo verso imbarazzato di Tess, mentre un’immaginaria incudine mi precipita sulla testa sotterrandomi nella voragine della mia vergogna. Tess si avvicina con le mani giunte e gli occhi da criceto triste. «Vi prego, vi scongiuro, non ditelo alla Perkins. Farò tutto quello che volete, ma non metteteci nei guai. Mio padre potrebbe uccidermi. Non volete un morto sulla coscienza, vero?»
«Lo porteremmo volentieri», soffia Dakota dalla bocca carnosa con il rossetto sbavato dai baci di fuoco del suo ragazzo. È inquietante la freddezza di questa ragazza.
«Mio padre è un agente dell’fbi, vi garantisco che potrebbe ammazzarmi e farlo passare per un incidente. Mi ucciderà davvero se dovesse scoprire una cosa del genere, e la Perkins è una di quelle che non vede l’ora di mettere i bastoni fra le ruote ai suoi studenti».
A questo punto è meglio che intervenga io. In verità sarebbe stato meglio se fossi stata zitta prima, ma ormai il danno è compiuto, e non mi resta che cercare di aggiustare le cose per salvare le sorti della mia migliore amica.
«Mi dispiace, è tutta colpa mia. Non volevo impicciarmi degli affari vostri. Sapete, non sto bene… prendo delle medicine che mi fanno comportare come una perfetta imbecille. Ho un forte esaurimento e sto cercando di guarire».
Che diavolo sto dicendo? Penso di risolvere le cose facendo credere a questi due di essere una specie di psicopatica? Che cosa c’è che non va in me?
«Vi prego, continuate pure quello che stavate facendo, noi non abbiamo visto niente. Vero, Tess?». Tess scuote con tanta forza la testa che temo le si stacchi dal collo.
«Okay», fa Kevan e solleva entrambe le sopracciglia quando mi vede ferma ancora lì, come se stessi aspettando qualcosa, poi sembra capire. «E nemmeno noi abbiamo visto niente, vero, Dakota?».
La ragazza mi rivolge un’espressione disgustata e si volta dalla parte opposta, incrociando le braccia sul petto. Stronza snob.
«Affare fatto». Kevan mi porge la mano. Gli tendo la mia, lui me la stringe e mi sembra di prendere la scossa. Deve avvertirla anche lui perché mi lascia andare immediatamente. Prego che i miei capelli non si siano rizzati sulla testa per la carica di elettricità statica che mi ha appena investito. E soprattutto spero che la mia mano non fosse troppo sudata.
Kevan e Dakota non riprendono le loro attività non verbali e si allontanano da noi, fino a raggiungere la palestra, probabilmente per nascondersi da sguardi indiscreti. Tipo il mio.
Tess mi tira via per un braccio e quasi mi sbatte contro gli armadietti.
«Ehi, calma tesoro, è tutto a posto ora, la tua fedina penale è pulita come il culetto di un poppante. Tuo padre non verrà mai a sapere quello che è successo durante il test di matematica», le dico per difendermi mentre lei mi incenerisce con lo sguardo.
«Ti rendi conto di quanto sei… di quanto sei… folle alcune volte? Importunare e rimproverare quei due in quel modo come se stessero facendo chissà che cosa. Dannazione Abby, sembra che il tuo cervello in alcuni momenti vada completamente in pappa».
La guardo corrucciata, desiderando di risponderle per le rime, ma cavolo, so che ha perfettamente ragione. Alcune volte sembro davvero posseduta da qualche spirito impazzito. Non so perché mi capita, forse è colpa del troppo nervosismo o del senso di disagio che provo ogni santo giorno della mia vita, come se vivessi un’esperienza extracorporea, come se dovessi essere da un’altra parte, come se niente mi appartenesse davvero. È una sensazione inconscia che nei momenti meno opportuni risale in superficie facendomi fare e dire le cose più assurde.
«Sono stata pessima, mi dispiace».
«Non devi scusarti con me, capito?». Tess sembra arrabbiata. «Ma è inutile che poi ti lamenti che le tue performance finiscono su YouTube se continui a comportarti come una psicoscema fuggita da un manicomio. Datti una calmata, Abby Allen».
«Che c’entra la storia della pertica con quello che è successo adesso?», le chiedo un po’ contrariata. Tess ci sta andando giù pesante e va bene che mi merito tutto quanto, ma bisogna porre un limite agli insulti.
«C’entra invece. C’entra sempre tutto con te. Sei ingestibile, e non so se non ti rendi davvero conto di quello che fai o che dici».
«Si può sapere perché te la prendi tanto? Non ho mica detto io a quelli che ti ho passato tutto il test di matematica». Lo dico a bassa voce, affinché nessuno mi possa sentire.
«Me lo stai rinfacciando?»
«No, non te lo sto rinfacciando. Sto sottolineando un dato di fatto».
«A me non sembra».
«A te sembra sempre quello che ti pare». Questa frase è stupidità allo stato puro.
Tess stringe le labbra, i suoi occhi sprizzano fuoco, ma anche i miei non sono da meno. Sento la rabbia sopraffarmi e per sfogarla picchio il pugno all’indietro contro gli armadietti. Infine marcio via, lontano da lei e da tutta questa stupida situazione che io stessa ho contribuito a creare. Qualcosa deve essere andato storto nell’equazione di questa mattina. Forse sono scesa dal letto con il piede sbagliato o che so io. Qualcosa ha creato tutto questo scompiglio. O meglio qualcuno. Io.
Be’, ora non ho tempo né voglia di odiarmi. Sono troppo arrabbiata.