XVI

RECENTI PROGRESSI NEL TRATTAMENTO DELL’EMICRANIA

Il fatto che alcuni attacchi di emicrania possano essere provocati da emozioni improvvise, o legati alle tensioni e alle modalità della vita quotidiana o, ancora, alla personalità dell’individuo, ha spesso fatto nascere l’idea che l’emicrania sia un disturbo «funzionale» o «psicosomatico»; ma questo indica soltanto la nostra incapacità di apprezzare la straordinaria specificità dei fenomeni emicranici, che devono avere, perciò un meccanismo e una base ugualmente specifici. Fin dall’antichità, ci siamo fatti un’idea delle circostanze generali che possono scatenare un’emicrania, e delle misure generali grazie alle quali è possibile alterarne il decorso. Ma solo in tempi relativamente recenti – e soprattutto negli ultimi vent’anni – abbiamo cominciato ad affrontare alcuni dei meccanismi specifici interessati, e le specifiche misure che si possono adottare per alterarli.

Questo cambiamento di prospettiva e di mentalità può essere fatto risalire con precisione al 1960, quando per la prima volta venne usata la metisergide. Scrive Neil Raskin (1990):

«Ero ancora un tirocinante quando, nel 1960, la metisergide fu introdotta nella pratica clinica, e cambiò in modo sbalorditivo il pensiero dei medici sulla natura dell’emicrania. Prima di allora ... si pensava che l’emicrania fosse soprattutto un’affezione psicosomatica ... Adesso, tutt’a un tratto, i pazienti potevano prendere qualche compressa di metisergide e si liberavano del mal di testa nel giro di una settimana. Senza alcun cambiamento nel loro milieu interno. Guariti ...».55

I farmaci usati prima di allora (le ergotamine furono introdotte negli anni Venti) sopprimevano i sintomi specifici dell’emicrania, ma nessuno era stato capace di «rimettere a punto» il meccanismo fondamentale, proprio perché fino agli anni Cinquanta non si aveva idea di quale potesse essere. In quegli anni si scoprì che gli attacchi di emicrania potevano essere associati ad anormalità del sistema neurotrasmettitore serotoninergico, e la metisergide fu concepita appunto come antagonista della serotonina. Si pensava, allora, che nel cervello ci fosse un unico, semplice «sistema serotoninergico», le cui anomalie potevano dar luogo alle emicranie da un lato, ma anche, dall’altro, all’ansia, alla depressione, a disturbi del sonno.

Oggi quella semplice concezione è superata. Oggi sappiamo che nel cervello ci sono più di quaranta neurotrasmettitori, e che tutti i sistemi relativi sono molto complessi: ad esempio, ci sono tre principali famiglie di recettori della serotonina, con molti sottotipi in ciascuna famiglia. Ma, fu solo negli anni Ottanta che divenne possibile analizzare questo complicato sistema e sviluppare farmaci ad azione molto selettiva, capaci di agire su parti determinate di esso.

Questi sviluppi si riferiscono, però, solo all’aspetto chimico dell’emicrania: che dire degli altri aspetti, quello vascolare e quello elettrico, che erano parsi ugualmente importanti anche a Liveing? Che dire della fisiologia dell’aura emicranica e del mal di testa? Lashley misurò il fronte di avanzamento della sua aura emicranica e ne dedusse che esso doveva riflettere un’onda di eccitazione seguita da inibizione che interessava la corteccia cerebrale nella quale si propagava alla velocità di 2÷3 mm al minuto. Nessun processo simile era mai stato osservato nell’uomo, ma forse era questa la spreading depression osservata da Leão nella corteccia esposta di animali da esperimento. Nei primi anni Settanta, in Danimarca, usando una nuova tecnica di misurazione del flusso ematico cerebrale con traccianti radioattivi, Jes Olesen rilevò, nella corteccia cerebrale, un’onda di riduzione del flusso ematico che si diffondeva lentamente e avanzava attraverso la corteccia visiva, esattamente a quella velocità. Era un’indicazione forte del fatto che tale processo si verificasse anche nel cervello umano; ma restava ancora da chiarire se tale depressione irradiante fosse la causa o l’effetto di questo cambiamento nella microcircolazione. Solo pochi anni fa è stato possibile misurare i campi elettromagnetici del cervello attraverso il cranio: si è visto così che, durante le aure visive emicraniche, un’onda magnetica, con picchi di eccitamento sul fronte in avanzata e onde lente depresse sulla loro scia, si muove attraverso la corteccia visiva alla velocità di 2÷3 mm al minuto, confermando così che la spreading depression si verifica anche nell’uomo, e rappresenta la causa immediata dei fenomeni corticali dell’aura.56

Tuttavia, come era apparso chiaro anche a Liveing e a Gowers, per quanto l’aura possa essere un fenomeno corticale, l’origine dell’emicrania non lo è; essa sembra insorgere, invece, da una certa attività o reattività neurale anormale localizzata nel profondo del tronco cerebrale. Quest’idea, che debbano esservi massicci potenziali lenti che emanano dal tronco cerebrale e da questo si proiettano a monte e a valle, è anche la mia, basata su osservazioni cliniche e biologiche di carattere generale. I potenziali d’azione bizzarri, ampi, di lunga durata, registrati mediante magnetoencefalografia, danno la prima prova diretta del fatto che, quali che siano le alterazioni vascolari o di altra natura, l’emicrania è prima di tutto un fenomeno neurale, generato da un’anormale attività dei neuroni nel profondo del cervello. È possibile mostrare questi neuroni nel cervello? Si può documentare che sono coinvolti nella genesi delle emicranie? Molti ricercatori hanno risposto a questi interrogativi; soprattutto Neil Raskin, della University of California (San Francisco), e James Lance, della University of New South Wales (Sydney).

Sia i ricercatori americani sia quelli australiani si sono interessati al dolore e al suo «cancello», rappresentato soprattutto da un sistema di nuova definizione che modula il dolore e discende dal tronco cerebrale al midollo spinale. I neurochirurghi hanno scoperto che a volte possono ridurre grandemente il dolore lombare o agli arti (ma non quello alla testa o al collo) impiantando elettrodi nel tronco cerebrale e stimolando alcuni neuroni localizzati nella sostanza grigia che circonda l’acquedotto di Silvio. Quando gli elettrodi venivano attivati, molti di tali pazienti sviluppavano tipiche emicranie, con cefalee forti, pulsanti e unilaterali (di solito sullo stesso lato dell’impianto), vomito e disturbi visivi. Che fossero emicranie tipiche fu confermato dalla loro sensibilità alla diidroergotamina somministrata per via endovenosa. Tuttavia, questi pazienti non avevano mai avuto un’emicrania prima di allora. Fu questa la prima chiara dimostrazione di un’emicrania sperimentale o acquisita: acquisita in seguito alla stimolazione elettrica artificiale – mediante impianto di un elettrodo – dei cosiddetti neuroni del rafe localizzati nel tronco cerebrale. L’elettrodo stimolava la scarica di questi neuroni, e ciò produceva una tipica emicrania. Fu immediato chiedersi se le emicranie che insorgono in modo spontaneo o normale avessero genesi simile, cioè da un’intensificazione della scarica di questi neuroni del rafe.

Altri studi condotti da Lance, sulle scimmie e sui gatti, dimostrano che la diretta stimolazione elettrica o chimica di questi nuclei può indurre i cambiamenti vascolari tipici dell’emicrania. Inoltre Lance ha dimostrato che questi nuclei del tronco cerebrale, non solo si proiettano in alto verso la corteccia cerebrale, ma anche in basso, in senso caudale, verso un «cancello del dolore» che discende dal tronco cerebrale al midollo spinale; i cui tre segmenti superiori possono costituire un «centro del dolore» per la testa. Spesso i pazienti attraversano un periodo di eccitamento emotivo (ansia, a volte esaltazione) della durata di diverse ore, prodromo dell’aura; questo suggerisce che meccanismi di ordine superiore, localizzati nell’ipotalamo o nel diecenfalo, possano intervenire nell’innescare la sequenza nel suo complesso.

In che modo tutti questi diversi meccanismi si adattano l’uno all’altro fino a produrre l’intera sequenza di un’emicrania classica? L’ipotesi più generale è quella proposta da Lance, il quale ravvisa l’inizio degli attacchi a livello ipotalamico, o sulla base di una periodicità innata, o in risposta a stimoli sensoriali provenienti dalla corteccia cerebrale (Lance, 1982, pp. 169-71). Una volta attivati, gli impulsi discendono dall’ipotalamo alla sostanza grigia periacqueduttale, e di qui ai nuclei del rafe dove – come abbiamo visto – essi possono influenzare la microcircolazione cerebrale, costringendone i vasi, innescando la depressione irradiante a livello corticale (e quindi il fenomeno dell’aura) e allo stesso tempo riducendo la percezione del dolore con la chiusura della «porta» (encefalinergica) nel midollo spinale.

Questa fase, che dipende dall’iperattività dei sistemi della noradrenalina e della serotonina nel tronco cerebrale, è seguita da una fase di ridotta trasmissione delle monoammine; a questo punto la «porta del dolore» localizzata nel midollo si apre e la testa viene sommersa dall’ondata di dolore prima inibito; nello stesso tempo, viene aperta la porta afferente ai sensi, producendo così la caratteristica e intollerabile intensificazione di suoni, odori e visioni.

Si avviano, inoltre, diversi circoli viziosi. La convergenza, nel midollo spinale, di fibre afferenti che provengono dai tre nervi cervicali superiori con il tratto discendente del trigemino significa che il dolore può essere rinviato dal collo alle tempie e di nuovo indietro. Inoltre, grazie a un riflesso neurovascolare, gli impulsi trigeminali fanno aumentare ancora di più il flusso ematico extracranico. Questo fenomeno fa crescere il dolore e la vasodilatazione, cosicché l’emicrania può restare intrappolata in un circolo vizioso che si aggrava sempre di più, in un autoperpetuarsi che è così caratteristico degli attacchi (si veda il capitolo VIII, L’autoperpetuarsi delle emicranie). Bloccando o riducendo il dolore emicranico non solo si allevia la sofferenza, ma se ne previene l’autoperpetuarsi mediante il dolore, proprio attraverso questo riflesso trigeminovascolare.

Con questo lavoro vediamo identificati, in linea di principio, tutti i principali fattori presenti nella genesi di un’emicrania, e comprendiamo come essi possano operare all’unisono per produrla. Vediamo, inoltre, come sia possibile prevenirla o alterarne profondamente il decorso, interferendo con un passaggio critico – e cioè con il processo patogenetico primario nel tronco cerebrale.

 

 

Torniamo, adesso, al ruolo dei neurotrasmettitori. Nella genesi di un’emicrania sono coinvolti almeno sei neurotrasmettitori – e cioè noradrenalina, acetilcolina, dopamina, istamina, GABA (acido amminobutirrico), encefaline – e la 5-idrossitriptamina, o serotonina. Risulta che possono essere tutti influenzati da farmaci diversi; è per questo motivo che, fino a pochissimo tempo fa, era spesso necessario usare tre o quattro farmaci simultaneamente – usare cioè, con i pazienti colpiti in modo grave, quella che Lance chiama una «frenetica polifarmacia».

Il campo d’azione e la sicurezza di questa polifarmacia sono aumentati molto, da quando Emicrania fu pubblicato per la prima volta – da quando, cioè, si usava l’ergotamina per gli attacchi acuti, mentre si esitava a usare liberamente la metisergide, per via dei suoi effetti collaterali.

Con pazienti che hanno un attacco al mese, o meno, è possibile curare i singoli attacchi quando si presentano; un trattamento preventivo è indicato solo per quei pazienti soggetti a due o più attacchi al mese. A volte si può fare ricorso a una combinazione di più agenti, ma ciò deve avvenire sempre sotto il controllo del medico.

Il più importante e meglio conosciuto dei nuovi farmaci è il propanololo, che è stato introdotto negli anni Settanta. Esso appartiene alla nuova categoria degli agenti beta-adrenergici, che bloccano i recettori beta-2 localizzati nelle pareti arteriose e altrove (e inoltre è un antagonista della serotonina). Il propanololo è efficace come la metisergide per l’uso a lungo termine nella prevenzione delle emicranie, ed è considerevolmente più sicuro. Oltre ai suoi effetti nel prevenire, durante l’emicrania, la tipica dilatazione non controllata delle arterie superficiali del cranio, esso ha numerosi effetti vegetativi generali (ad esempio sulla pressione ematica, sulla frequenza e il ritmo cardiaco, ecc.), che possono essere terapeutici; il propanololo è utile in particolare ai pazienti emicranici ipertesi, mentre dovrebbe essere evitato se c’è tendenza all’ipotensione o al broncospasmo.

Anche gli agenti alfa-adrenergici, come la clonidina, furono introdotti negli anni Settanta: la clonidina è oggi molto usata come farmaco antiemicranico in Gran Bretagna, mentre non è stata ben accolta negli Stati Uniti. Qualche paziente, tuttavia, può averne gran vantaggio.

Più sicuro del propanololo, ma (per lo stesso motivo) più leggero e meno efficace, è il pizotifen, che certamente riduce intensità e frequenza delle emicranie nella maggior parte dei pazienti, sebbene non con la forza del propanololo o della metisergide. Il pizotifen blocca l’azione vasodilatatrice dell’istamina, ed esercita un’azione complessa anche se imprecisata sugli effetti vascolari della serotonina.

Fra gli altri farmaci nuovi, sicuramente efficaci per ridurre la frequenza e l’intensità degli attacchi di emicrania, troviamo la classe dei farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS): il naprossene, l’acido tolfenamico e l’acido mefenamico sono probabilmente i più consigliabili. A questo punto forse dovremmo accennare al fatto che sta trovando un nuovo impiego, come agente preventivo contro l’emicrania, l’aspirina: essa riduce l’aggregazione piastrinica e la sintesi delle prostaglandine, entrambi possibili meccanismi sussidiari nella patogenesi delle emicranie). I FANS e l’aspirina, se tollerati (possono infatti dar luogo a inconvenienti gastrici e di altro genere) occupano un posto distinto nella profilassi dell’emicrania.

L’erba matricaria è diventata molto popolare per la prevenzione dell’emicrania; non è chiaro, finora, se vi sia qualcosa di più di un effetto placebo (ma si veda Johnson et al., 1985).

Un’altra categoria di farmaci completamente nuova è quella dei bloccanti dei canali del calcio, che possono avere una gran varietà di importanti effetti vegetativi. Questi farmaci possono prevenire l’emicrania (così come prevengono il vasospasmo periferico e l’angina); il verapamile è di solito considerato uno dei più efficaci della categoria.

Negli ultimi vent’anni, l’uso di vari antidepressivi ha rappresentato una risorsa inaspettata, sebbene il loro effetto antiemicranico sembri essere del tutto indipendente da quello antidepressivo. Fra gli antidepressivi triciclici, l’amitriptalina è il più potente; sembra che essa blocchi la ricaptazione di serotonina a livello delle sinapsi centrali. L’amitriptalina ha gli stessi effetti fisiologici di tutti gli antidepressivi triciclici; va usata con cautela, o evitata, se c’è un’anamnesi con attacchi epilettici, sintomi cardiovascolari, glaucoma ad angolo stretto o ritenzione urinaria.

Un’altra categoria di potenti antidepressivi – gli inibitori delle monoamminossidasi (MAO) – può essere molto efficace per prevenire l’emicrania in pazienti che non rispondono ad altre terapie; in questo caso si usa soprattutto la fenelzina. Vi sono però rischi notevoli, associati all’uso dei MAO-inibitori, e bisogna osservare precauzioni molto rigide, tenendo presenti le reazioni fra questi agenti e diversi cibi (e farmaci) che possono causare crisi ipertensive pericolose (perfino fatali). Bisogna bandire dalla dieta i formaggi, gli estratti di carne, i vini rossi, le fave, le aringhe in salamoia, i fegatini di pollo (così come gli oppiacei, le amfetamine, i tranquillanti, i sedativi, i decongestionanti nasali, i broncodilatatori, ecc.). Inoltre, i MAO-inibitori non vanno mai assunti insieme a un qualunque antidepressivo triciclico. Con queste precauzioni, i MAO-inibitori possono essere presi tranquillamente per anni.

In generale, è bene cominciare con le cure più leggere (e più sicure) e solo se queste non sono efficaci passare a quelle più potenti (che, per la stessa ragione, richiedono maggiori precauzioni). Lance, ad esempio, fa cominciare i suoi pazienti con il pizotifen e dopo un mese, se non ci sono miglioramenti, passa al propanololo; se anche questo fallisce, passa alla metisergide; se tutti questi non hanno successo, alla fenelzina; come ultimo tentativo, se anche questa è inefficace, proverà procaina o lignocaina somministrate per via endovenosa. Un altro medico potrebbe comportarsi in modo completamente diverso, e preferire i calcio-bloccanti, la clonidina o l’amitriptalina. Un terzo medico potrebbe scegliere un altro regime terapeutico. Molte sono le strade possibili, e nessuna di esse è preferibile in assoluto; ogni singolo medico, ogni singolo paziente, scopriranno qual è la migliore nel loro caso.

La lista potrebbe essere molto più ampia. Resta degna di nota l’imprevedibilità della risposta, come aveva già osservato Gowers un secolo fa («... misure che funzionano bene in un caso falliscono in un altro apparentemente del tutto simile»), a indicare che non si possono trattare i pazienti in modo automatico; che non c’è uno schema o una formula buona per tutti; che per curare coloro che hanno diversi attacchi al mese si dovranno provare, pazientemente e coscienziosamente, tutti i farmaci e tutte le loro possibili combinazioni, nella speranza di trovare qualcosa che sia adatto a quell’individuo.

Ci si può chiedere se, almeno in linea di principio, si possa ipotizzare l’esistenza di qualcosa che va oltre – un modo farmacologico di alterare il primo passaggio cruciale. Potrebbe esistere un farmaco «ideale» per l’emicrania? E se sì, quale tipo di farmaco potrebbe essere?

Sin dagli anni Cinquanta l’attenzione si è volta al ruolo dei sistemi serotoninergici cerebrali nell’emicrania. Al principio i dati erano sconcertanti: l’emicrania sembrava riflettere una carenza di serotonina, e tuttavia era alleviata dalla metisergide, sua antagonista. Questo paradosso fu risolto quando si scoprirono le diverse famiglie di recettori serotoninergici (noti come recettori 5-HT1, 5-HT2 e 5-HT3), che hanno esse stesse ruoli antagonistici ma reciprocamente collegati. La metisergide, e in effetti tutti i farmaci usati finora per l’emicrania, sono «sporchi», nel senso che non agiscono in modo specifico e che influenzano sistemi diversi. La metisergide, come si scoprì negli anni Ottanta, è un vigoroso bloccante dei recettori 5-HT2, che hanno una funzione antagonista a quella dei recettori 5-HT1. C’era dunque un sistema per stimolare questi recettori 5-HT1 e solo loro, per trovare cioè un antagonista serotoninergico «puro»? Questa ricerca, ben diversa dalle prime indagini farmacologiche empiriche e indiscriminate, condusse poi, alla fine degli anni Ottanta, alla sintesi di un farmaco chiamato sumatriptan. Le prime sperimentazioni furono coronate da grande successo; i risultati furono resi noti alla fine del 1988.

I recettori 5-HT1 sono distribuiti soprattutto nelle ramificazioni carotidee, ma l’azione del sumatriptan sembra molto specifica, esercitando una vasocostrizione solo sui microvasi, e su quei particolari canali arteriovenosi che sono così abbondanti e importanti nella circolazione carotidea. (Nel 1969 Heyck avanzò l’ipotesi che fosse proprio l’apertura di questi vasi anastomotici a sottrarre il sangue dalla corteccia cerebrale nell’emicrania). Ma Lance ha dimostrato che il sumatriptan non solo agisce in questo modo sulla microcircolazione, ma ha anche un effetto diretto sui nuclei del rafe. Ad esempio, se viene infuso goccia a goccia direttamente sulle cellule del nucleo del rafe magnus ne inibisce fortemente la scarica: esso «spegne» queste cellule e la loro reattività patologica.

C’è sempre una tentazione, e un pericolo, nell’idea ingannevole di «farmaco miracoloso». Ne parlo all’inizio del capitolo XV (ed è il tema centrale di un altro mio libro, Risvegli). In quel capitolo la cui prima stesura risale agli inizi del 1967 scrivevo:

«I lettori che avessero aperto il libro a questa pagina possono star sicuri che farmaci miracolosi di questo tipo non ce ne sono mai stati e mai ce ne saranno ... Il trattamento specifico dell’emicrania, come quello dell’epilessia e del morbo di Parkinson, è fatto di tentativi ed errori, scegliendo fra un gran numero di farmaci che agiscono su meccanismi specifici del sistema nervoso; a questi si possono poi associare un trattamento sintomatico e l’uso di farmaci coadiuvanti ...».

Un mese dopo aver scritto questo, veniva annunciato un nuovo farmaco, la L-dopa, per il trattamento del parkinsonismo: un agente dagli effetti così vistosi e radicali da trasformare, da quel momento in poi, la vita dei pazienti parkinsoniani. Ho dovuto rimangiarmi quanto avevo scritto riguardo al parkinsonismo; dovrò farlo anche per l’emicrania?

Quando scrissi la prima edizione di Emicrania, ero convinto che non avremmo mai potuto trovare un farmaco di quel genere:

«Ci possono essere tanti modi di costruire un’emicrania quanti di cucinare un’omelette. Se viene eliminato un particolare anello intermedio, un ingranaggio, l’intero sistema può riorganizzarsi ... Si recida pure un’arteria temporale, o una formazione terminale, e un’altra verrà messa in azione; si cerchi di bloccare gli attacchi somministrando, per esempio, un inibitore della serotonina, ed è probabile che gli attacchi si ripresentino utilizzando un diverso meccanismo intermedio» (si veda il capitolo XI).

Oggi credo che sbagliavo nel ritenere che le emicranie avessero una complessa struttura «plastica» analoga a quella di azioni o obiettivi motori (come suggerivo nel capitolo XI). Qualunque sia l’uso strategico delle emicranie – e continuo a pensare che a volte esso possa avere grande importanza, in alcuni pazienti – non possiamo parlare di un’emicrania come se essa avesse una tattica; ha un meccanismo, ma un meccanismo che può essere compreso e, in linea di principio, profondamente modificato.

Negli ultimi vent’anni, ci siamo avvicinati sempre più al processo finale comune dell’emicrania: una scarica anormale di neuroni localizzati in nuclei del tronco cerebrale, causata da un eccesso di sensibilità intrinseca (probabilmente di natura chimica). Se fosse proprio questo il processo finale comune dell’emicrania (ammesso che ne abbia uno), nonostante l’immensa gamma e varietà dei fenomeni e dei motivi scatenanti, potremmo alla fine essere in vista di farmaci abbastanza specifici da farci abbandonare quella «frenetica polifarmacia» che ha caratterizzato per decenni il trattamento dell’emicrania; potremmo finalmente offrire ai nostri pazienti un agente specifico potente e al tempo stesso innocuo.

Nel concludere la prima edizione, mi chiedevo se non ero «troppo pessimista» riguardo alla cura dell’emicrania. I progressi degli ultimi vent’anni hanno attenuato il mio pessimismo, ma un po’ ne rimane, nel mio atteggiamento: non crederò mai in una nuova conquista, in un farmaco miracoloso, o in un rimedio specifico, finché non ne vedrò gli effetti con i miei occhi.

L’orientamento in prevalenza «chimico» degli anni Sessanta fu seguito, nei decenni successivi, da una svolta verso altre forme di medicina; in particolare verso i concetti olistici di riduzione della tensione, rilassamento, meditazione e yoga; e verso l’idea di un’autoassistenza basata sulla volontà o sulla mente, con l’aiuto delle nuove tecniche di biofeedback. «Non si può volere,» scriveva Nietzsche «si può solo volere qualcosa». Il principio del biofeedback è quello di rendere ben chiaro e presente alla coscienza, in modo che la volontà possa comprenderlo e modificarlo, «qualcosa» che normalmente le è inaccessibile, ad esempio un parametro fisiologico. Uno dei primissimi impieghi del biofeedback fu nella visualizzazione delle onde cerebrali nei pazienti epilettici – cosa che con molti di essi ebbe, e continua ad avere, ottimi risultati. È possibile applicare tecniche simili ai pazienti emicranici? E in caso affermativo, quali parametri si possono portare sotto il controllo della volontà?

L’aspetto più appariscente correlato al mal di testa emicranico è la pulsazione dei rami frontali delle arterie temporali superficiali; queste pulsazioni possono essere facilmente misurate, e mostrate sullo schermo di un monitor. Una cefalea vascolare è in qualche misura accompagnata, di solito, da cefalea da tensione; con tecniche elettromiografiche è facile rilevare la tensione del cuoio capelluto e dei muscoli del collo. È anche facile, durante l’emicrania, misurare la temperatura cutanea del volto e delle tempie, o anche quella delle mani (quest’idea può sembrare strana, ma nasce dal fatto che molti pazienti emicranici hanno osservato le loro mani diventar fredde durante gli attacchi, e poi tornare tiepide quando questi cessano).

Usando gli strumenti del feedback (pulsometri, termometri, tecniche elettromiografiche, ecc.) il paziente si concentra su ciò che gli si presenta e cerca di modificarlo con la forza della volontà. Ad esempio, può imparare a ridurre le pulsazioni delle arterie temporali, con effetti clamorosi sul mal di testa emicranico e, quindi, su molti altri sintomi emicranici che dipendono dall’intensità del dolore. Può imparare a far salire volontariamente la temperatura cutanea delle mani, e per questa via, attraverso un meccanismo riflesso, far sì che le arterie dilatate dell’emicrania riacquistino tono.

Oggi è acquisito che ognuno possa imparare a intervenire modificando le proprie risposte erratiche o aberranti. Rimane poco chiaro se questi metodi possano costituire una terapia utile, importante e rivoluzionaria su vasta scala, come a volte pretendono i loro sostenitori.

In alcuni casi, il biofeedback può avere efficacia decisiva. Una paziente mi scrisse dicendomi che era completamente refrattaria a tutte le terapie, come la paziente di Willis («sorda alle lusinghe di ogni medicina», si veda l’Appendice III). Questa donna, tormentata da costanti emicranie comuni, si chiedeva spesso se valesse la pena di vivere; quando però, poco convinta, provò il biofeedback, da quel momento fu pressoché libera dall’emicrania. D’altra parte, conosco anche pazienti che ne hanno tratto ben pochi vantaggi, o addirittura nessuno; la maggioranza ne ha avuto un beneficio limitato. Anche in questo caso, come in quello delle terapie farmacologiche, la risposta varia molto da individuo a individuo; è difficile predirne l’efficacia, ma vale sempre la pena di provare, e infatti molte cliniche specializzate nella cura dell’emicrania si sono dotate delle apparecchiature necessarie.

Nel caso di alcune di queste tecniche di retroazione, indubbiamente efficaci, viene da chiedersi che cosa accada, e cioè se il paziente arrivi a concentrarsi completamente su un parametro specifico, come la temperatura cutanea o le pulsazioni, o se invece egli ottenga, aiutato dalle apparecchiature, un certo rilassamento generale, riducendo l’ipereccitazione somatica e psichica.

Stress e disturbi psicosomatici sono diventati più comuni; il bisogno di ridurre lo stress, e la necessità di rilassarsi, diventano sempre più pressanti. Di certo è così nel caso dell’autoterapia dell’emicrania, sia riguardo al modo di affrontare un attacco acuto, sia – e non meno – per prevenire gli attacchi. Negli anni Settanta sono divenuti popolari lo yoga e la meditazione trascendentale (che è poco più della ripetizione di un mantra autoipnotico); non fanno per tutti, ma non c’è dubbio che in qualche paziente possano rivelarsi utili.57

L’agopuntura fa parte della medicina tradizionale cinese da più di 2000 anni, ma è stata introdotta nella pratica occidentale – un po’ sul serio, un po’ per moda passeggera – solo negli ultimi vent’anni. Alcuni pazienti migliorano: in particolare, ne avrebbe tratto beneficio un terzo dei pazienti emicranici trattati, secondo uno studio non controllato. Non è chiaro, però, se il miglioramento rappresenti un effetto specifico dell’agopuntura o piuttosto (come nel caso degli apparenti successi di numerosi altri trattamenti) un effetto placebo da collegare all’attenzione terapeutica prestata al paziente. Occorrono studi rigorosamente controllati, condotti in doppio cieco; ma questo non è facile quando il test riguarda l’efficacia della puntura di un ago, e non quella di un farmaco. Ci sono indicazioni che l’agopuntura possa avere effetti fisiologici, soprattutto sui sistemi di oppiacei endogeni, e forse può essere di qualche utilità nell’emicrania. Lance ha osservato che, se era vero che i pazienti potevano migliorare durante il trattamento, essi avevano immediate ricadute non appena questo veniva interrotto, il che si può spiegare ammettendo sia un effetto specifico, sia un effetto placebo.

Torniamo, per finire, all’individuo che soffre, alla persona che ha l’emicrania. C’è un meccanismo, o forse diversi meccanismi, ma essi sono incarnati in un individuo, in una vita. È chiaro che le emicranie sono eventi fisiologici, che però diventano anche (e come non potrebbero?) eventi storici, parti della trama intricata di un’esistenza, di quella trama – che dura tutta una vita – di «caratteri e fattori sempre mutevoli che il paziente emicranico subisce e al tempo stesso alimenta», come dice il dottor Gooddy. Si possono isolare particolari attacchi, particolari meccanismi, ma essi sono parte di questo continuum spazio-temporale emicranico.

Il primo problema, di natura puramente medica, è quello di chiarire i fenomeni, di formulare una diagnosi, di capire che cosa stia succedendo: di capire, per esempio, che un’aura emicranica non è un ictus (come pensano molte persone che ne subiscono una per la prima volta); e, allo stesso modo, che non si tratta di una «somatizzazione» o di un attacco isterico (come vorrebbero tante accuse e autoaccuse), ma di un evento reale e moralmente neutro, che ha natura organica ma essenzialmente benigna. Chiarito questo – e può essere già un fatto estremamente rassicurante, per il paziente –, un approccio medico semplicistico procederà a prescrivere una cura.

Ma un paziente emicranico non lamenta solo un disturbo ricorrente: se lo ascolteremo, ci racconterà la storia della sua vita, del suo modo di vivere, delle sue reazioni e (forse) di modelli profondi dei quali egli stesso non ha consapevolezza: tutti aspetti che possono – singolarmente o nell’insieme – essere importanti per le sue emicranie. Non possiamo sapere in anticipo, alla prima visita, che cosa sia importante e che cosa non lo sia. È fondamentale indagare minuziosamente su tutte le circostanze degli attacchi: quando essi sono più comuni, quando sono più rari, quali schemi seguono, che cosa li scatena. A un livello più profondo, però, bisogna conoscere l’«economia» di una vita, i «bisogni» fisiologici e psicologici di un individuo. E questo non può essere accertato in modo rapido o casuale: richiede un rapporto fra il medico e il paziente e, da parte di quest’ultimo, un’introspezione sulle connessioni fra il suo modo di vivere e le sue emicranie, introspezione che non si può raggiungere in un batter d’occhio. Richiede, in una certa misura, che si porti al livello cosciente ciò che è inconscio – o, per usare le parole di Freud, che si sostituisca un «Es» con un «Io».

Ad esempio, il paziente del caso 18 – uno dei primi pazienti che visitai, quando ancora ragionavo in termini esclusivamente fisiologici – presentava una singolare sostituzione delle emicranie con attacchi d’asma. A questo punto, ci fu tra noi una strana conversazione: «Lei pensa» mi chiese il paziente «che io debba stare male di domenica, che io abbia bisogno delle emicranie, dell’asma, o di qualunque altra malattia?». La domanda mi colpì: non avevo mai pensato in quei termini, sebbene anch’io, come lui, avessi osservato che quando le sue emicranie venivano curate, egli alla domenica si «annoiava», gli sembrava di «non aver niente da fare». Allora, la «cura», così come il dialogo e il rapporto tra noi, assunsero un carattere in qualche modo diverso: divenne preminente l’indagine sul regime e sui bisogni del paziente. Un’ulteriore, meticolosa discussione del problema che egli aveva sollevato – il suo presunto «bisogno» di malattia e il supposto ruolo delle emicranie domenicali in tale contesto – fece scomparire le emicranie (e anche l’asma), senza dovere più ricorrere a farmaci. Egli divenne capace di godersi la domenica, non ebbe più bisogno di ammalarsi.

Anche un altro paziente fra i primi che visitai, il matematico sofferente di emicrania (caso 68), impose alla mia attenzione considerazioni di tipo «economico». Con lui, fu facile trovare farmaci antiemicranici efficaci. L’ergotamina funzionava, e anche molto bene; ma, quando lo guarii dall’emicrania, lo guarii anche dalla matematica: per quanto paradossale, sembrava che egli avesse bisogno della prima per conservare la seconda. Ed egli concluse: «Mi terrò l’emicrania: penso che sia meglio lasciare le cose come stanno». Questa esperienza servì anche a contenere il mio smanioso bisogno di «curare», mi portò ad ascoltare con più attenzione i pazienti e quello schema di «caratteristiche e fattori sempre mutevoli che il paziente emicranico subisce e al tempo stesso alimenta».

Sono considerazioni che non si presentano, o si presentano meno, quando l’emicrania è occasionale – quando gli attacchi insorgono, per esempio, una volta al mese o più di rado. Ma se l’emicrania è grave, se invade l’esistenza, allora si verificano interazioni complesse e il trattamento non deve essere «esclusivamente fisiologico». Certo non si negherà una cura fisiologica, anzi si cercherà qualsiasi farmaco o terapia che possa aiutare il paziente. Allo stesso tempo, però, occorre una ricerca più approfondita, da parte del paziente come del medico, perché l’emicrania, quando è frequente, non è solo una malattia, ma un modo di essere che forza l’organismo ad adattamenti e identità particolari.

Lo si osserva spesso in pazienti soggetti da sempre ad attacchi epilettici e che, grazie a una nuova terapia, si trovano d’un colpo «orbati» dei loro attacchi. Non possono liberarsi istantaneamente dei particolari adattamenti cui si erano adeguati, e può darsi che conservino, nonostante l’assenza di attacchi, una «identità epilettica».58 Di questo, o di qualcosa di simile a questo – cioè di una «identità emicranica» –, il mio paziente dalle emicranie domenicali dovette diventare conscio, per farvi fronte e rinunciarvi.

Paradossalmente, non è tanto agevole star bene; in un certo senso, è più facile avere una vita limitata, essere malati. Con le emicranie frequenti, con tutti i sintomi diffusi che le accompagnano, ci si adatta alla malattia, si impara – paradossalmente – a essere malati. Quando vengono sviluppati nuovi farmaci e nuove forme di terapia, e l’affezione fisiologica comincia a regredire, il paziente ha bisogno di entrare in una fase di convalescenza; gli occorre un periodo di intervallo per guarire: a quel punto, egli deve imparare a star bene. Solo così, e in modo graduale, con giudizio e attenzione, egli potrà alla fine lasciarsi alle spalle l’ombra della malattia che un tempo segnava tutta la sua vita, e trovare aperta davanti a sé la possibilità di una guarigione completa.