XIII

ORIENTAMENTI PSICOLOGICI

Poiché questo è il grande errore del nostro tempo ... che i medici separano l’anima dal corpo.

PLATONE

 

 

 

Nel capitolo precedente ci siamo occupati di certe reazioni primitive che potrebbero fare un po’ di luce sull’origine e il differenziamento della reazione emicranica nell’uomo. Parlando in termini di organismo intero, con i suoi riflessi e le sue strategie protettive, abbiamo potuto aggirare gli eterni problemi (o pseudoproblemi) del «dualismo» mente-corpo e della «conversione» psicofisiologica. Ma questo non ci illumina – né ci si potrebbe aspettare che lo faccia – sui processi interni che sono alla base del comportamento; nulla ci dice delle emozioni o dello «stato mentale» dell’animale che reagisce. In un essere umano, lo stupore catatonico può rappresentare una strategia protettiva che è probabilmente in relazione con una spaventosa sensazione di pericolo esistenziale. Possiamo descrivere con grande minuzia i fenomeni della catatonia senza fare alcun riferimento ai sentimenti del paziente catatonico (come fece Bleuler), ma non possiamo descriverne gli aspetti esistenziali senza un’analisi dettagliata dei sentimenti e delle emozioni del paziente. Riteniamo assiomatico il fatto che per l’individuo ogni attacco di emicrania abbia un valore tattico (la tattica può anche essere puramente fisiologica, per esempio una manovra omeostatica); in questo capitolo ci occuperemo in modo particolare dei rapporti dell’emicrania con l’essere emotivo del paziente.

Nella parte descrittiva di questo libro abbiamo classificato le emicranie in modo un po’ arbitrario; ora dobbiamo analizzare questa classificazione più da vicino per quanto riguarda un suo possibile rapporto con l’economia emotiva dell’individuo. Avevamo descritto le emicranie «periodiche» come espressione di una periodicità neuronica innata e le emicranie «circostanziali» come una risposta a circostanze individuali specifiche che potevano essere di natura fisiologica (esaurimento e simili) o psicologica (collera, paura, ecc.). Il fatto che tali attacchi possano avere cause fisiche o fisiologiche chiaramente definite non esclude l’eventualità che essi possano avere anche altri usi o funzioni, non immediatamente manifesti. In particolare, ogni attacco di emicrania (e in realtà qualsiasi evento nell’esistenza di un individuo) può rivestirsi di un significato emotivo che si sovrappone a quello letterale. Un evento che ricorra periodicamente o che sia indotto per via fisiologica può essere forzato a fungere da evento simbolico. Per ribadire questo punto, consideriamo alcune possibili modalità degli attacchi epilettici: a volte i bambini scoprono che la luce intermittente provoca loro una crisi convulsiva e da questa scoperta arrivano alla ripetuta autoinduzione di attacchi (per esempio agitando rapidamente la mano davanti agli occhi, o saltando su e giù davanti a una tenda alla veneziana); vi sono adulti che si procurano attacchi epilettici con l’omissione deliberata o «accidentale» delle medicine. In questi casi, l’epilessia ha trovato un secondo uso, un impiego perverso, determinato da motivazioni complesse e spesso inconsce del paziente. È assodato che la «predisposizione agli incidenti», che spesso assume le apparenze di un accanimento della cattiva sorte, tende a presentarsi in certi individui autopunitivi e autodistruttivi.

Non voglio suggerire che esista una corrispondenza di questo tipo fra le emicranie circostanziali – o la maggior parte di esse – e le motivazioni del soggetto. Molte emicranie vanno e vengono, costituendo inconvenienti occasionali senza particolari implicazioni psicologiche. Ma c’è sempre la possibilità che esse servano ad altri scopi, numerosi e vari.

Il terzo modello di emicrania – l’emicrania abituale o situazionale – richiede un quadro di riferimento molto più complesso. In questo caso siamo di fronte non ad attacchi periodici o sporadici, che possono avere o meno qualche significato emotivo, ma a una malattia maligna, incessante, generata da tensioni emotive gravi e croniche che possono a loro volta essere esacerbate dall’emicrania. Abbiamo supposto che si possano individuare origini e primordi dell’emicrania in una gamma di semplici riflessi e tattiche protettive. Anche le emicranie circostanziali possono essere descritte in questi termini, ferme restando le particolari riserve che abbiamo già fatto. L’emicrania abituale non può essere utilmente studiata se non quale espressione di una porzione importante dell’intera personalità. Come tutte le malattie psicosomatiche, come l’isteria e la nevrosi, essa è fra le creazioni umane più complesse.

I termini necessari per comprenderla sono quelli che distinguono, almeno quantitativamente, gli esseri umani dagli altri animali: la complessità della struttura mentale ed emotiva e la dominanza del simbolismo. Ci sono in noi motivazioni e contromotivazioni che durano per tutto il corso della vita; esse sono organizzate e suddivise in sottosistemi, mantenuti integri e separati grazie ai meccanismi indicati da Freud. Di particolare importanza, nel determinare l’emicrania abituale e altre malattie psicosomatiche, sono quelle motivazioni non inquadrabili in alcuna funzione protettiva, se non nel senso più paradossale, e cioè gli impulsi masochistici e autodistruttivi.

Solo un’analisi del profondo può consentire un esame completo delle motivazioni e dei simbolismi come possibili fattori che determinano il modello di emicrania abituale adottato da un soggetto. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è possibile esporre (e in una certa misura curare) i principali determinanti motivazionali delle emicranie senza un’esplorazione così minuziosa della personalità.

Ricordando quanto detto (capitolo IX) su alcune delle motivazioni che possono generare le emicranie abituali, proveremo ora a classificare i ruoli strategici principali che esse possono avere nell’economia dell’individuo. L’elenco è necessariamente incompleto e schematico e non può rendere giustizia alla complessità e al continuo mutamento delle forze che sono effettivamente all’opera: esse tendono a interagire e a combinarsi l’una con l’altra, tanto che molti attacchi di emicrania sono determinati, come i sogni, da un numero altissimo di fattori.

Le emicranie più semplici dal punto di vista biologico, e più benigne in senso dinamico, sono quelle recuperative. Esse tendono a insorgere in modo circostanziale, a seguito di attività fisica o psicologica prolungata, o abituale, come nel caso dei ben noti «attacchi del fine settimana». Di solito si verifica un collasso piuttosto acuto rispetto al periodo precedente o inducente, caratterizzato da iperattività e tensione; la fase di prostrazione può essere profonda, perfino stuporosa, ed è tipicamente seguita da una ripresa postemicranica accompagnata da una sensazione di risveglio e rianimazione. Wolff si è occupato in modo particolare di attacchi di questo tipo e della loro insorgenza come fenomeni di «rilassamento» in personalità inesorabilmente ossessive e insistenti. Gli attacchi recuperativi presentano le più strette analogie con il sonno e sono chiaramente riflessi conservativi in senso konorskiano.

Legate a tensioni ambientali o emotive, ma riportabili a un modello meno benigno, troviamo poi le emicranie regressive. Come quelle recuperative, a cui sono affini, anche queste (per usare l’espressione di Alexander) rappresentano una «ritirata vegetativa»; ma mentre gli attacchi recuperativi di solito vengono affrontati nell’isolamento, in solitudine, come dormendo, quelli regressivi sono caratterizzati da una sofferenza che invoca soccorso, dal bisogno di dipendenza: non assumono i connotati del sonno, ma della malattia. Nell’ambito famigliare, i casi gravi possono assumere il tono tragico proprio di una scena attorno a un letto di morte. Non di rado si osservano emicranie regressive in personalità ipocondriache o facili alle malattie; al medico si presentano spesso nel contesto di una sintomatologia fisica molto varia, reale o immaginaria. Abbiamo osservato che il modello può essere meno benigno di quello delle emicranie recuperative: qui ci riferiamo non agli occasionali attacchi regressivi, che possono capitare a tutti i pazienti emicranici, ma a un atteggiamento indulgente, una sorta di morboso benvenuto ad attacchi sempre più frequenti, finché il paziente scivola, gradualmente, nella malattia come modo di vita («quella lunga malattia, la mia vita»).45

Una variante molto importante di tali modelli emicranici, che mostra ancora una volta il primordiale ruolo protettivo della reazione emicranica, è rappresentata da quegli attacchi che possiamo definire incapsulanti e dissociativi. Numerosi pazienti sperimentano emicranie periodiche o sporadiche che sembrano includere e (per usare la terminologia indiretta di un dramma fisiologico) rappresentare un accumulo di tensioni e conflitti emotivi, grazie al quale «funzionano». Personalmente ho l’impressione che molte emicranie mestruali (e altre sindromi mestruali associate) facciano proprio questo, condensando, per così dire, le tensioni di un mese intero in qualche giorno di malattia concentrata; ho osservato che in molte pazienti la guarigione (privazione) da tali sindromi mestruali può essere seguita da manifestazioni di ansia diffusa e conflitto nevrotico durante la restante parte del mese. In breve, tali emicranie servono a imbrigliare, e quindi a circoscrivere, emozioni dolorose croniche o ricorrenti; ed è opportuno tenerlo a mente, prima di disperdere, con zelo eccessivo, emicranie siffatte. Più maligna è quella forma di emicrania abituale che abbiamo chiamato dissociativa, poiché ha substrati emotivi più forti e più lontani dalla coscienza, e gli attacchi sono molto più frequenti. In tali circostanze (si veda, ad esempio, il caso 80) la personalità si scinde: una parte ostenta solo una blanda reazione o una spavalderia del tutto in contrasto con la realtà ambientale ed emotiva, mentre l’altra diviene autonoma nella forma di un sistema circolare sadomasochistico, inteso a infliggere e a subire la sofferenza. Tali casi, che spesso sono della massima gravità, possono mostrare particolare resistenza all’introspezione e alle cure, in quanto è probabile che le robuste mura della repressione e della negazione isolino la parte emicranica della personalità (the migraine selflet) dalle altre. Tale dinamica e tali meccanismi presentano le più strette analogie con quelli implicati nella formazione dei sintomi isterici, con un’importante differenza: le emicranie sono radicate nella reattività fisiologica, mentre la sintomatologia isterica (sebbene intensamente reale) è, da un punto di vista neurologico, una creazione che nasce da una patologia dell’immaginazione.

Le ultime due categorie di modelli emicranici si distinguono per aver acquisito speciali significati strategici di tipo particolarmente ostile. Il primo di essi è l’emicrania aggressiva; se ne sono particolarmente interessati la Fromm-Reichmann (1937), Johnson (1948) e molti altri psicoanalisti. Lo sfondo psicologico è di collera e ostilità croniche, acute e represse, e la funzione delle emicranie è quella di offrire una possibilità di espressione a ciò che non può essere espresso, e nemmeno riconosciuto, in modo diretto. Queste emicranie rappresentano aggressioni implicite o attacchi vendicativi e tendono a presentarsi in situazioni di intensa ambivalenza emotiva, e cioè in relazione a individui che sono al tempo stesso amati e detestati. Si possono osservare per lo più nell’ambito dei rapporti fra i pazienti emicranici e i genitori, i figli, i coniugi, i datori di lavoro; sempre ruotano attorno alla dinamica di una dipendenza o di un’intimità al tempo stesso pretesa e intollerabile (si vedano i casi 62, 82, 79 e 84). Una forma particolare di questa reazione è rappresentata dall’emicrania emulativa, nella quale esiste un’identificazione ambigua e maligna con un genitore emicranico: unirsi al genitore nella malattia, competere con lui, catturarlo nella sua stessa rete emicranica. Sembra fuori dubbio che molti esempi di ricorrenza famigliare dell’emicrania (come di molte altre malattie) debbano essere spiegati in questi termini, piuttosto che in quelli, troppo semplicistici, di un’ereditarietà diretta (si veda il capitolo VI).

Quando l’ostilità si rivolge verso l’interno, ci troviamo di fronte all’ultimo modello di emicrania abituale da prendere in considerazione, quello degli attacchi autopunitivi ripetuti. Questi pazienti sono profondamente masochisti, dispettosi, cronicamente depressi, paranoidi ma in modo celato, a volte apertamente autodistruttivi (si veda il caso 81). È raro che l’emicrania sia sufficiente, per esprimere i sentimenti interiori, ed è probabile che essa sia accompagnata da altre manifestazioni di autoavversione. Sotto molti punti di vista, questi pazienti sono i più profondamente patologici, quelli che soffrono di più; essi richiedono disperatamente un intervento terapeutico, così come disperatamente vi oppongono resistenza; e tuttavia l’intervento (se il paziente lo permette) avrà maggiori probabilità di successo che non nel caso di emicranie dissociative con aspetti isterici.

Ci sono poi, come è ovvio, numerosissimi usi particolari dell’emicrania, che possono attraversare i confini delle ampie categorie qui istituite. Particolarmente comuni, e a volte occasione di crudeli incomprensioni e castighi, sono gli attacchi che si possono verificare in bambini costretti a seguire studi che detestano: ogni forma di malattia funzionale (attacchi ripetuti di emicrania, vomito, diarrea, asma, oppure sintomi isterici) può servire a difendere il bambino da alcuni dei rigori e degli orrori della vita scolastica, attirando l’attenzione su miserie che egli non osa o non può dichiarare apertamente.

Di molti personaggi famosi si sa che alla fine riuscirono a liberarsi da situazioni intollerabili grazie ad attacchi di questo tipo; ricordiamo Pope, che si serviva dell’emicrania, e Gibbon, che aveva attacchi isterici. Più tardi Gibbon avrebbe scritto: «... La violenza e la varietà dei miei sintomi ... giustificavano le mie frequenti assenze dalla Westminster School ... una strana affezione nervosa (contrazioni dolorose alle gambe, ecc.) ... la mia infermità non poteva conciliarsi con l’orario e la disciplina di una scuola superiore... Dentro di me ne gioivo, poiché ciò mi liberava dagli obblighi scolastici e dalla frequentazione dei miei compagni». Quando infine Gibbon poté lasciarsi alle spalle la scuola ed entrare a Oxford, i suoi sintomi «si dileguarono meravigliosamente» per non ripresentarsi mai più.

Lo sfondo emozionale dell’emicrania, quindi, può essere il più vario; siamo inclini a sospettare che debba esistere non semplicemente un legame, ma diversi tipi di legame fra stato mentale e attacco manifesto. Già separando le emicranie circostanziali da quelle abituali abbiamo implicitamente indicato come probabile una fondamentale distinzione dei meccanismi generativi. Le prime, come si è visto, possono essere indotte in modo subitaneo e drammatico da eccitamenti intensi e appassionati: collera, terrore, esaltazione, eccitamento sessuale e simili. Le seconde, al contrario, si verificano nel contesto di tensioni, pulsioni e necessità emotive croniche alle quali è negata un’espressione diretta o comunque adeguata: fra queste abbiamo riconosciuto impulsi aggressivi, distruttivi e libidici, tensioni ansiose e ossessive, bisogni sadici e masochistici, ecc. Va aggiunto che queste necessità e tensioni psicologiche croniche sono sovente represse, lontane dalla coscienza. Perciò potremmo chiederci se non sia meglio considerare fin dall’inizio le emicranie circostanziali come reazioni a emozioni soverchianti e quelle abituali come espressioni di pulsioni emotive croniche e represse.

Inoltriamoci ora nel cuore del problema, cercando di scoprire in che modo un’emozione o un atteggiamento emotivo represso possano produrre un’emicrania. Si tratta di un caso particolare dell’eterna questione che una volta Freud descrisse come «il misterioso salto dalla mente al corpo»; in quanto tale è pericoloso non meno che affascinante, poiché la discussione del rapporto fra mente e corpo tende facilmente a perdere significato senza che ce ne accorgiamo. Abbiamo già ammesso che le informazioni disponibili sono inadeguate, e saremo pertanto costretti a procedere, in larga parte, per congetture; ma non perderemo mai di vista l’evidenza clinica e inoltre, in linea di massima, tutte le congetture saranno pienamente riconoscibili come vere o false.

In questo territorio è meglio addentrarsi seguendo la guida più esperta. I famosi «Princìpi generali» dell’Espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, che Darwin espose nel 1872, sono i progenitori intellettuali di tutte le opere scritte da allora sull’argomento, che formeranno il nucleo della nostra discussione: l’elaborazione della teoria di W. James e C.G. Lange sui sentimenti, la teoria di Freud sui meccanismi di conversione, gli esperimenti di Cannon e Selye e l’intera struttura teoretica del pensiero odierno riguardo alla medicina psicosomatica. Il terzo principio di Darwin, quello dell’«azione diretta del sistema nervoso», è espresso come segue:

«... alcuni atti che noi riconosciamo come espressione di determinati stati mentali sono la diretta conseguenza della costituzione del sistema nervoso, e fin dall’inizio risultano indipendenti dalla volontà e in larga misura dall’abitudine» (trad. it. p. 167).

Questi atti diretti possono essere di natura motoria o vegetativa, sebbene il secondo aspetto tenda a prevalere. Darwin porta come esempio di espressione motoria il tremore, e la secrezione ghiandolare, l’azione vasomotoria, l’attività viscerale, come esempi di azione vegetativa diretta. L’azione diretta si osserva «quando il sensorio è fortemente eccitato» (come nel dolore, nella collera e nel terrore); in queste condizioni, Darwin ipotizza che «si genera un eccesso di energia nervosa che si trasmette in determinate direzioni dipendenti dalle connessioni fra le cellule nervose ...» (p. 167).

Tali espressioni delle emozioni, pur estremamente pronunciate, sono primitive e stereotipate, e perciò inadeguate a esprimere le più sottili sfumature dei sentimenti. Queste ultime vengono espresse e anche liberamente modificate in accordo con il primo principio di Darwin, quello delle «abitudini associate utili»:

«Alcuni atti complessi hanno un’utilità diretta o indiretta in certi stati d’animo, perché alleviano o soddisfano particolari sensazioni, desideri e così via; ogni volta che si riproduce lo stesso stato d’animo, c’è la tendenza, in forza dell’abitudine o per associazione, a ripetere quegli stessi movimenti, anche se in quel momento non danno alcun vantaggio» (p. 139).

Questo principio implica che l’«atto complesso», sia esso un movimento o una reazione vegetativa, rappresenti lo stato mentale e diventi, attraverso la forza dell’abitudine e dell’associazione (apprendimento, condizionamento, ereditarietà), il simbolo fisico di un particolare stato mentale.

Darwin era ben consapevole che molte forme di espressione emotiva utilizzano entrambi questi princìpi. Il pianto, ad esempio, combina movimenti simbolici con secrezioni involontarie («... un uomo colpito dal dolore potrà controllare i propri lineamenti, ma non potrà sempre evitare che gli occhi gli si riempiano di lacrime», p. 174). Allo stesso modo i segni della collera, sebbene dovuti a un’azione diretta del sistema nervoso, «... sono diversi dai contorcimenti e dagli sforzi senza scopo preciso compiuti da chi soffre per un fortissimo dolore: quei gesti corrispondono più o meno chiaramente all’atto di colpire o di aggredire un nemico» (p. 173).

Vediamo ora come sia possibile applicare questi princìpi all’espressione di emozioni insieme croniche e represse e, in particolare, come si possa interpretare, nei rigidi termini proposti da Darwin, una reazione complessa come l’emicrania. Saremo costretti a introdurre nuovi termini, che però non rappresentano altro che un’estensione dei concetti darwiniani. Là dove Darwin parla di «azioni associate utili», noi parleremo ora di «conversioni»; dove egli parla di «azioni dirette del sistema nervoso», dovremo parlare di «nevrosi vegetative». Questi termini psicopatologici sono più limitati e specifici di quelli biologici dai quali sono derivati e vengono usati per indicare espressioni fisiologiche di emozioni croniche piuttosto che acute, patologiche piuttosto che benigne, personali piuttosto che universali; è inoltre implicito che i substrati emotivi delle reazioni di conversione e delle nevrosi (vegetative) siano repressi o almeno rifiutino un’espressione diretta e adeguata.

L’uso di questi termini può essere illustrato da un documento classico della psicoanalisi (Freud, Introduzione alla psicoanalisi):

«[Ma] i sintomi delle nevrosi attuali – senso di pressione alla testa, percezioni dolorose, stato di irritazione di un organo, indebolimento o inibizione di una funzione – non hanno alcun “senso”, alcun significato psichico ... sono essi stessi processi interamente somatici, alla cui genesi non concorre nessuno dei complicati meccanismi psichici di cui siamo venuti a conoscenza ... Ma come possono allora corrispondere a impieghi della libido, che abbiamo conosciuto come una forza operante nella psiche? ... Ebbene, Signori, è molto semplice» (trad. it. pp. 540-41).

La risposta «molto semplice» che Freud propone è che questi sintomi rappresentino le conseguenze somatiche dirette di disturbi sessuali, uno squilibrio di qualche «tossina sessuale». Così, in termini molto generali (se dimentichiamo per il momento l’anomala, sorprendente ipotesi freudiana di una «tossina sessuale»), queste nevrosi vengono considerate come le conseguenze dell’azione nervosa diretta, come fattori concomitanti stereotipati di tensioni emotive croniche.

Riguardo alla produzione di sintomi di conversione (isterici) viene proposto un meccanismo radicalmente diverso. Tali sintomi sono sperimentati in – o manifestati da – particolari organi e parti del corpo che sono diventati i rappresentanti di un’intensa sessualità dislocata. Freud dice:

«Così, questi organi si comportano come sostituti degli organi genitali ... Si scopre quindi che innumerevoli sensazioni e innervazioni ... in organi apparentemente non collegati alla sessualità, sono essenzialmente adempimenti di desideri sessuali perversi ... in particolare, gli organi della nutrizione e dell’escrezione».

Questa netta distinzione fra le nevrosi (vegetative) e i sintomi di conversione può, ciò nondimeno, essere offuscata o resa difficile, in determinati casi, poiché le une possono sfumare negli altri, o esserne rimpiazzate, e perciò Freud è costretto a esprimere un’ulteriore riserva di grande importanza:

«... il sintomo della nevrosi attuale costituisce infatti spesso il nucleo e il primo stadio del sintomo psiconevrotico ... Prendiamo come esempio il caso di un isterico mal di testa o di reni. L’analisi ci mostra che, mediante condensazione e spostamento, esso è diventato il soddisfacimento sostitutivo di un’intera serie di fantasie o di ricordi libidici. Un tempo però questo dolore era reale, e si trattava di un sintomo tossico-sessuale diretto, espressione corporea di un eccitamento libidico ... Tutti gli influssi – normali o patologici – esercitati sul corpo dall’eccitamento libidico vengono privilegiati ai fini della formazione di sintomi isterici. In questo caso essi svolgono la funzione del granello di sabbia che il mollusco avvolge con strati di sostanza madreperlacea» (pp. 543-44).

Come è possibile applicare questi concetti alla comprensione dell’emicrania, sia agli attacchi isolati generati da disturbi emotivi acuti, sia a quelli ricorrenti che si manifestano nel contesto di tensioni emotive croniche? Si tratta di nevrosi vegetative, di sintomi di conversione, o di entrambe le cose? La letteratura sull’argomento è confusa e fonte essa stessa di confusione, poiché alcuni autori come Alexander (1950), o Furmanski e collaboratori (1952), ritengono che l’emicrania sia una nevrosi vegetativa, mentre altri, tra cui Deutsch (1948), la considerano una reazione di conversione. Deutsch rappresenta una scuola di pensiero più antica, per la quale le emicranie, e in realtà tutti i sintomi psicosomatici, erano conseguenza di meccanismi di conversione:

«Bisogna supporre che in ogni individuo normale abbia luogo un processo di conversione continuo, necessario per mantenere salute e benessere. Pensiamo, ad esempio, alle vampe di rossore, all’eccessiva sudorazione, agli attacchi di diarrea, o a quelli di emicrania ... Essi si manifestano tutti come scariche di libido repressa ... Le “conversioni” sono forme necessarie di un processo psicodinamico continuo che tenta di adattare le pulsioni istintive dell’individuo alle esigenze della cultura nella quale egli vive ... Si può dire che gli esseri umani sarebbero infelicissimi, o si rifugerebbero assai più spesso in una nevrosi, se non potessero, di tanto in tanto, cadere ammalati».

Dobbiamo dichiararci d’accordo con Deutsch quando sostiene che la malattia funzionale è sempre a nostra disposizione come una alternativa a sentimenti intollerabili o alla costruzione di difese nevrotiche, ma non possiamo fare nostra l’opinione secondo la quale è appropriato descrivere tutte queste malattie come sintomi di conversione; facendo ciò, si disconosce completamente il principio, di gran lunga più universale, dell’azione diretta del sistema nervoso, come lo chiama Darwin. Alexander, in particolare, ha mosso pesanti obiezioni all’applicazione indiscriminata o troppo estesa del concetto di conversione ai sintomi psicosomatici. Egli riconosce, invece, due meccanismi «fondamentalmente diversi» e li distingue come segue (Alexander, 1948):

«Sostengo ancora la mia idea iniziale, secondo la quale limito i fenomeni di conversione isterica ai sintomi che interessano il sistema neuromuscolare volontario e quello sensoriale percettivo, e li distinguo dai sintomi psicogeni che si manifestano nei sistemi di organi vegetativi ... I sintomi di conversione isterica sono espressioni sostitutive di tensioni emotive che non possono trovare uno sfogo adeguato nel comportamento motorio maturo ... la tensione emotiva è almeno parzialmente allentata dal sintomo stesso. Nel campo delle nevrosi vegetative, abbiamo a che fare con una situazione psicodinamica e fisiologica diversa ... Qui i sintomi somatici non sono espressioni sostitutive di emozioni represse, ma sono normali concomitanti fisiologici, che accompagnano questo sintomo».

La distinzione di Alexander fra sintomi di conversione e nevrosi vegetative è chiara e concisa: essa traccia in modo estremamente netto, ad esempio, le differenze fra i meccanismi di una paralisi isterica e un’ipertensione emotiva, e cioè fra un’espressione simbolica arbitraria e un segno fisiologico la cui esistenza è ignota al paziente. Meno facile è applicarla a certi sintomi vegetativi, e in questi casi Alexander concede, seppure malvolentieri, che possano essere implicati entrambi i meccanismi. L’emicrania sembrerebbe un esempio straordinario di questa mescolanza ed è in questi termini che dobbiamo considerarla.

In precedenza (capitoli I e V) abbiamo fatto osservare la notevole concomitanza di sintomi somatici ed emotivi che può caratterizzare ogni stadio di una «tipica» emicrania; il sincronismo è così manifesto e costante che siamo quasi costretti a rimetterci ai termini della teoria di James-Lange («L’emozione» sostiene James «non è altro che il sentimento di uno stato corporeo ...»). Le emicranie circostanziali provocate da un eccitamento emotivo acuto, ad esempio dalla collera, possono essere considerate, almeno inizialmente, come nevrosi vegetative, quali che siano gli usi secondari e simbolici che possono poi legarvisi.

Così, un’emicrania da collera può essere considerata, nei pazienti che ne fanno esperienza, come una reazione, complessa ma stereotipata, alla collera stessa. I primi stadi di un tale attacco (definiti in precedenza come fase di «ingorgo») sono probabilmente caratterizzati, dal punto di vista emotivo, da irritabilità e tensione rabbiosa e, fisiologicamente, da dilatazione vascolare e viscerale, ritenzione di liquidi, oliguria, stipsi, ecc. – i sintomi, cioè, di una scarica generalizzata del simpatico. Il paziente è saturo, compresso, gonfio di collera. La risoluzione dell’attacco può procedere attraverso una crisi (un breve attacco di vomito forzato, l’improvviso passaggio di aria e feci, un accesso di starnuti, ecc.), o per lisi (diuresi, sudorazione e lacrimazione profuse, ecc.). In tal modo, la collera che caratterizza tali attacchi viene espressa pletoricamente e scaricata con un’improvvisa emissione viscerale (affine a un’imprecazione) o con una lenta catarsi secretoria (affine al pianto). L’espressione delle emozioni procede per azione nervosa diretta; essa non dipende da alcuna concezione intermedia, né da alcun simbolismo conscio o inconscio che unisca la manifestazione fisica e quella emotiva. I sintomi di una tale emicrania, in termini freudiani, non hanno alcun «significato» complesso nella mente. Emicranie di questo tipo trovano origine – come deve essere per tutte le reazioni primitive – in una regione dove l’esperienza emotiva e le sue controparti fisiologiche sono continue e coestensive.

Tuttavia, le emicranie situazionali non possono essere interpretate in termini così elementari, in quanto esse nascono come espressioni non di un disturbo emotivo acuto, ma di bisogni emotivi cronici e solitamente repressi. Esse non sono semplicemente reazioni all’emozione; non possono essere considerate separatamente dagli antecedenti più remoti e dagli effetti. Esse hanno delle funzioni; agiscono; interpretano un ruolo di primo piano nell’economia emotiva dell’individuo; svolgono, con più o meno successo, un compito di equilibramento emotivo; per questo aspetto sono analoghe ai sogni, alle formazioni isteriche, ai sintomi nevrotici. Se le emicranie sono volte a un uso particolare, esse devono avere un particolare significato per il paziente; devono indicare qualcosa; devono alludere a qualcosa; devono rappresentare qualcosa. In tal modo, potremo avvicinarci a un’emicrania non solo come a un evento fisico, ma come a una speciale forma di dramma simbolico nel quale il paziente ha tradotto pensieri e sentimenti di molto peso; così facendo, dovremo poi affrontare il compito di interpretarla come faremmo per un sogno, e cioè scoprendo il significato recondito dei sintomi manifesti. Ad esempio, il particolare interesse delle emicranie situazionali e lo speciale valore strategico che esse hanno per il paziente stanno nel fatto che esse rappresentano reazioni biologiche che possono fungere anche da atti sintomatici o da sintomi di conversione.46

Si deve ammettere la possibilità non solo che l’intero attacco emicranico possa avere significato per il paziente, ma anche che certi sintomi individuali dell’attacco possano essere investiti di una specifica importanza simbolica, e – inoltre – che essi siano suscettibili di modificazioni in conformità a tale importanza. Si è visto che nausea e vomito sono sintomi cardinali di un’emicrania: comunemente essi significano disgusto, spesso disgusto sessuale, e (in molti casi di vomito psicogeno) possono essere interpretati come sforzi per espellere simbolicamente una situazione o una persona ripugnante (temuta, odiata, ecc.).47 L’attività intestinale, inizialmente determinata da esigenze e periodicità fisiologiche, può essere ulteriormente scandita, e spesso in modo preminente, dai valori simbolici (inconsci) associati alle feci e alla defecazione. Stitichezza e diarrea, spesso intrecciate con una moltitudine di significati simbolici, sono fra i disturbi funzionali più comuni, e rappresentano inoltre, come si è visto, aspetti frequenti e importanti di molte emicranie. Furmanski (1952), in un interessante studio sulla personalità di 100 pazienti emicranici, ha fatto notare la frequenza di «caratteri orali» e di «caratteri anali» in questo gruppo, ma purtroppo non ha tentato di stabilire l’esistenza di una correlazione fra questi aspetti e il tipo di emicrania. Ci chiediamo, ad esempio, se la tendenza ad attacchi biliari, o ad emicranie con nausea e vomito forti, sia più comune nel gruppo «orale», mentre è più pronunciata l’incidenza di disturbi intestinali nel gruppo «anale». Mettendo da parte la possibilità dell’investimento simbolico e dell’interpretazione dei singoli sintomi, si può facilmente pensare che tutta la sequenza emicranica si presti a interpretazioni fondate. Se, ad esempio, l’emicrania si è sviluppata in risposta a una situazione dolorosa o detestabile, questa (con i sentimenti che le sono associati) può essere simbolizzata (incorporata) come dolore fisico, una forma dislocata di sofferenza; verso la fine dell’attacco, può essere simbolicamente espulsa dall’azione dei visceri e delle ghiandole. In un caso simile, che corrisponde assai strettamente al ruolo apparente delle emicranie «incapsulative», l’intero attacco potrebbe essere concepito in termini di rappresentazione, come una forma di pantomima psicofisiologica, o come un sogno viscerale prolungato e spiacevole.

Abbiamo citato l’osservazione di Freud secondo la quale i sintomi di una nevrosi (fisica) possono agire come punto di partenza o come nucleo di creazioni isteriche. Riteniamo che si possa avere un’evoluzione analoga con i sintomi di un’emicrania: i sintomi fisici iniziali si associano a fantasie e bisogni emotivi specifici, assumendo così una seconda connotazione simbolica. Ma un’emicrania non è di per sé un artificio isterico: i suoi sintomi sono reali e radicati nelle reazioni fisiologiche. Il linguaggio dell’isteria è personale e arbitrario, e corrisponde solo a una rappresentazione morale e immaginaria – non fisiologica – del corpo. Nell’isteria, il simbolo è tradotto direttamente in un sintomo: in questo modo, un braccio, che nella fantasia sia visto come omicida, può essere inibito o castigato dalla paralisi; tuttavia, la paralisi isterica non corrisponde ad alcun deficit neurologico. Nell’emicrania, i sintomi sono fissati e legati da connessioni fisiologiche; tuttavia, i suoi sintomi possono costituire, per così dire, un alfabeto del corpo, un protolinguaggio che può, in via secondaria e successivamente, essere usato come linguaggio simbolico.48

Così, dobbiamo interpretare le emicranie situazionali come se fossero palinsesti nei quali i bisogni e i simboli dell’individuo siano inscritti sui sintomi fisiologici sottostanti, e tuttavia nei termini di questi. Tale interpretazione attraversa sia la definizione di sintomi di conversione, sia quella di nevrosi vegetativa, e nel far ciò rende inadeguato l’uso di entrambi i termini. Ma, in definitiva, la cosa non deve sorprenderci, poiché i criteri usati da Alexander (espressione simbolica e risposta fisiologica) appartengono, come hanno indicato Starobinski e altri, a due regioni diverse dell’indagine logica, ciascuna delle quali è capace di monopolizzare l’intero problema della malattia (Rieff, 1959, p. 10).

Dobbiamo perciò, tornare nuovamente ai concetti darwiniani dai quali siamo partiti. Ciò che ha inizio come un’azione diretta del sistema nervoso diventa per gradi un’«azione utile associata»: ciò che comincia come aspetto fisico di un’emozione diviene insensibilmente un’allusione o un contrassegno dell’intera situazione emotiva. Le reazioni somatiche contengono in potenza un linguaggio corporeo primitivo; nell’emicrania, si tratta di una gamma di gesti interiori, di atteggiamenti vegetativi, analoghi alle espressioni facciali e ai gesti motori involontari.49 Molto di ciò che Freud ha detto a proposito del simbolismo dei sogni potrebbe essere applicato al simbolismo fisico delle emicranie. Freud considera il simbolismo dei sogni come arcaico e universale, innato più che non individualmente acquisito, come una rappresentazione dell’uso regressivo di «un modo di esprimersi antico ma caduto in disuso».50 Analogamente, e forse in modo più plausibile, i sintomi dell’emicrania e di molte altre sindromi psicosomatiche possono essere interpretati, nel loro impiego simbolico, come un ritorno a un modo di esprimersi antico e universale – un linguaggio primordiale del corpo – implicito nella struttura e nel funzionamento del sistema nervoso, che può essere usato quando se ne presenta la necessità.51

Più e più volte si è qui posto l’accento sulle infinite variazioni, transizioni e trasformazioni dell’emicrania, e sul fatto cruciale che esse possono trovare impiego, come «equivalenti» l’una dell’altra, in modo quasi intercambiabile. Gowers riconobbe molta importanza a questo punto, ma non propose alcuna spiegazione, dicendo soltanto: «Possiamo percepire la misteriosa relazione, ma non spiegarla». Non abbiamo maggiori certezze riguardo ai fattori che scelgono o specificano, fra le molte opzioni disponibili, quale forma d’attacco un paziente adotterà davvero, in ogni dato momento. Riteniamo probabile che esistano particolari idiosincrasie fisiologiche, meccanismi e vie preferenziali, che possono predisporre un paziente verso una forma di emicrania piuttosto che un’altra; sospettiamo che ciò sia tanto più vero in certe forme di emicrania rare e stereotipate come gli attacchi emiplegici e la nevralgia emicranica. Tuttavia, in molti altri casi, questi fattori fisiologici appaiono deboli, relativi o instabili, in quanto permettono profondi cambiamenti del modello clinico; è più che legittimo, quindi, sospettare che questi fattori fisiologici siano subordinati a determinanti psicogeni, e che proprio questi ultimi, dominando o modificando tutti gli altri fattori, possano in ultima analisi definire in quale veste si presenterà la proteiforme reazione emicranica. Dobbiamo chiederci se la «relazione misteriosa» di cui parla Gowers non sia, in realtà, una relazione simbolica, non consista cioè nell’uso di diversi tipi di attacchi come sinonimi l’uno dell’altro.

In questa e nelle precedenti parti del libro abbiamo tentato di definire alcune delle funzioni strategiche dell’emicrania. Abbiamo ipotizzato che possa essere implicata una gerarchia di fattori determinanti, dalla più generale reattività di tipo riflesso dell’organismo, attraverso una varietà di idiosincrasie fisiologiche, fino ai più specifici meccanismi di conversione del singolo paziente. Abbiamo supposto che se l’emicrania si fondasse su reazioni adattative universali, ciascun paziente potrebbe costruire (e sicuramente utilizzare e interpretare) la propria sovrastruttura in modo diverso, a seconda dei propri bisogni e simboli.

Ora possiamo quindi rispondere, in linea di massima, alla domanda che ci eravamo posti nel capitolo VI, e cioè se l’emicrania sia un fenomeno innato o acquisito. Essa è entrambe le cose: nelle sue caratteristiche fisse e generiche è innata, mentre è acquisita nei suoi aspetti variabili e specifici. Allo stesso modo, è innata la «grammatica profonda» universale di tutti i linguaggi (Chomsky), mentre ogni particolare linguaggio viene appreso.

La locomozione, al suo livello più elementare, è un riflesso spinale, ma viene elaborata a livelli via via superiori, tanto che alla fine possiamo riconoscere un individuo dal modo in cui cammina, dalla sua camminata. Allo stesso modo, l’emicrania acquista identità da uno stadio all’altro, in quanto comincia come un riflesso, ma può diventare una creazione.