XIV
PROVVEDIMENTI GENERALI
NELLA CURA DELL’EMICRANIA
Abbiamo visto che circa un decimo della popolazione soffre di emicranie comuni, un cinquantesimo di emicranie classiche e una frazione molto piccola di certe rare varianti emicraniche (nevralgia emicranica, emicrania emiplegica, ecc.). Un’altra frazione, non trascurabile, della popolazione soffre di equivalenti emicranici e di aure isolate; ma il numero di questi pazienti non è stato stimato perché i loro sintomi sono in generale oggetto di diagnosi errate. Il mal di testa è il sintomo che più comunemente i pazienti riferiscono, ma è chiaro che solo una piccola parte di essi in realtà cerca l’aiuto del medico. Si tratta di pazienti soggetti ad attacchi gravi, frequenti o strani, ed è di loro che ci occuperemo in questo capitolo.
Il medico deve essere prima di tutto un diagnostico, e poi un terapeuta o un consigliere. Egli ha due compiti diagnostici: identificare il disturbo che gli viene sottoposto, metterne in luce cause e fattori determinanti. Supponiamo che egli abbia ascoltato il paziente, che abbia forse osservato un attacco, che abbia intrapreso tutte le ricerche che considera ragionevoli e che si sia assicurato che il problema del paziente è costituito proprio da emicranie ricorrenti. In qualche caso l’anamnesi iniziale basterà a descrivere il tipo e le cause principali degli attacchi: questo è probabile se si tratta di emicrania periodica (attacchi che si presentano regolarmente, di solito a intervalli di due-otto settimane, indipendentemente dal regime di vita) o circostanziale (nel qual caso gli attacchi sono chiaramente associati a specifiche circostanze che li provocano: ad esempio eccitamento, esaurimento, alcol, ecc.). Rimane un ampio gruppo di pazienti gravemente affetti che sono colpiti da attacchi molto frequenti, senza che se ne possano facilmente definire le cause; può darsi che tali pazienti debbano essere visitati più volte e studiati con attenzione prima che si possa far luce sui fattori determinanti della loro emicrania. In questi casi possono rivelarsi preziose due altre linee di intervento: in primo luogo, tenere due diari (un diario dell’emicrania e un diario generale degli eventi quotidiani), che possono svelare il ruolo causale di circostanze insospettabili; in secondo luogo (se il medico lo ritiene opportuno), interrogare i parenti prossimi del paziente, che possono fornire informazioni molto utili.
Qualunque cosa dica o faccia, il medico diventa una figura terapeutica, per il paziente. Può visitarlo una, dieci o (se è uno psichiatra) mille volte; può dare consigli, sostegno, analisi – ma la cosa più importante è il suo rapporto con il paziente. La sua autorità, la sua partecipazione e gli infiniti, impalpabili legami, in gran parte inconsci, che si formano in un efficace rapporto medico-paziente sono altrettanto importanti del buon senso del medico e di qualunque cosa egli dica o faccia. Questo rapporto, pertanto, è di valore cruciale nella cura di tutti i pazienti con malattie funzionali.
La questione dei farmaci è probabile che venga posta fin dal principio, con riluttanza, con speranza, oppure in modo perentorio. Dei numerosissimi farmaci usati per il trattamento dell’emicrania, molti si sono rivelati efficaci – e pochissimi sono specifici (si veda il capitolo XV); l’atteggiamento nei confronti dei farmaci, sia da parte del paziente, sia del medico, può essere il più vario. Personalmente, e in termini molto generali, io prescrivo qualche farmaco specifico o sintomatico per il trattamento degli attacchi acuti, quando vedo il paziente per la prima o la seconda volta, avendo cura di spiegargli, nello stesso tempo, quali sono le mie opinioni sul ruolo della terapia farmacologica nella cura dell’emicrania. Sarebbe una crudeltà priva di senso negare un medicamento a un paziente che soffre; tutt’altra faccenda sarebbe volere spacciare una qualunque terapia farmacologica come l’unico trattamento possibile di emicranie gravi e frequenti. Pertanto io presento i farmaci come misure coadiuvanti e provvisorie, da usare mentre si cerca di raggiungere una più completa comprensione dello stato del paziente e delle sue emicranie. Ci sono, poi, pazienti che insistono sul trattamento farmacologico (o su trattamenti di «desensibilizzazione» verso allergeni o verso l’istamina), escludendo ogni altro orientamento terapeutico, e questi pazienti devono essere curati nell’unico modo che essi consentono.
Le misure terapeutiche generali che hanno efficacia sul paziente emicranico sono tre: evitare le circostanze note come possibili cause di attacchi, promuovere uno stato di benessere generale e, infine, adottare opportune misure sociali e psicoterapeutiche. Le prime due possono essere considerate insieme.
Misure generali e suggerimenti per evitare le circostanze causali
Fa parte dei compiti tradizionali del medico raccomandare al paziente di non preoccuparsi, di prendersi una vacanza, di fare un po’ di moto, di non andare a letto troppo tardi; consigli di questo tipo sono stati impartiti ai pazienti emicranici, con alterni risultati, fin dai tempi di Ippocrate. Areteo, che scriveva nel II secolo d.C., consigliava ai pazienti epilettici ed emicranici:
«Lunghe passeggiate su percorsi non tortuosi, in luoghi ben ventilati, sotto alberi di mirto e alloro ... È buona cosa fare dei viaggi ... l’attività fisica dovrebbe essere vigorosa, in modo da indurre la sudorazione e la produzione di calore ... formare un carattere entusiasta, non irascibile».
Peters (1853), che scriveva 17 secoli dopo, insisteva sul trattamento «igienico» delle emicranie, importante quanto l’uso di qualunque farmaco; egli elaborò i precetti di Areteo come segue:
«Sono indispensabili uno stile di vita tonificante, dieta ed esercizio fisico. Coloro che hanno seguito abitudini sedentarie, con molta attività mentale e poco sonno, devono correggersi ... evitare le preoccupazioni eccessive e le difficoltà di impegni gravosi... astenersi dal consumo di tè nero ... Le docce e i bagni d’acqua salata, sia al mare, sia in casa, sono spesso utili coadiuvanti ... bisogna mantenere regolata l’attività intestinale ... Conservare le funzioni del fegato e dello stomaco nello stato più sano possibile... le funzioni dell’utero vanno curate con grande attenzione durante i periodi mensili ... Chi ama abbandonarsi agli eccessi, nei piaceri, negli affari, nei dolori, a tavola, dovrà necessariamente tenersi il suo mal di testa».
Liveing (1873) riconosceva che l’emicrania non tiene conto delle classi sociali; egli ci ha lasciato un quadro memorabile di due gruppi di persone spinte verso l’emicrania dalle vicende della loro vita quotidiana. Un primo gruppo, ad esempio, era afflitto da «esaurimento causato da una dieta povera e insufficiente ... e nelle donne da allattamenti o parti troppo frequenti ... da troppe ore di fatica fisica, oppure da un lavoro che comporta il restare chiusi nelle officine, o nelle dimore malsane, senza aria, delle nostre città affollate ...».
A costoro, ai poveri di Londra, Liveing consigliava migliori condizioni di vita, una dieta adeguata, dei ricostituenti – ma, ahimè!, erano tutti rimedi irraggiungibili, in quanto l’intervento della medicina doveva essere preceduto dalla riforma sociale. Nel secondo gruppo rientravano soggetti emicranici appartenenti a una classe diversa, individui dediti allo studio e professionisti, tutti quanti impegnati «nella lotta per il guadagno e la posizione professionale ... la pressione e le responsabilità degli affari, la competizione e l’eccitamento legati alla speculazione commerciale ... oppure il crollo sotto il peso crescente delle preoccupazioni familiari ...».
A questi, Liveing raccomandava di essere meno ambiziosi, meno dinamici, più tranquilli dal punto di vista morale ed emotivo. È un consiglio facile da elargire, ma mai seguito. Alvarez, ai giorni nostri, ha dichiarato: «Molto meglio un campagnolo sano e felice che un professore tormentato dal mal di testa!»; e tuttavia egli stesso resta un professore tormentato dal mal di testa.
È doveroso, per noi, esortare i nostri pazienti, con parole che sono cambiate pochissimo, da Areteo ad Alvarez, e che devono ritenersi, in massima parte, fiato sprecato. Ci muoviamo su un terreno più solido quando possiamo consigliare al paziente di evitare circostanze specifiche in grado di provocare l’emicrania. Situazioni del genere possono emergere in numero infinito (molte sono state già elencate nel capitolo VIII) e individuarne il maggior numero sarà una prova della perspicacia del medico.
Alcuni pazienti sono sensibili alla luce lampeggiante di determinate frequenze, e dovranno fare regolare il televisore. Altri non tollerano di saltare un pasto, mentre ve ne sono che non sopportano pasti pesanti. Certi pazienti non possono concedersi più di un bicchiere senza rischiare un’emicrania; altri non possono perdere il sonno, mentre altri traggono beneficio dal razionarlo. In questi casi, e in altri simili, il paziente capirà la scelta che gli si pone: evitare le circostanze scatenanti o rischiare un’emicrania. Tuttavia con quei pazienti nei quali la collera o altre violente emozioni possono far precipitare un’emicrania – ed è questa la categoria più importante – non c’è scelta. Osservava John Hunter a proposito dei suoi attacchi di angina, che erano provocati dall’attività fisica o dalle emozioni: «Un uomo può decidere di non muoversi dalla poltrona, ma non può decidere di non andare mai in collera».
Misure psicoterapeutiche e di sostegno
Wolff (1963), nella sua eccellente e completa trattazione degli orientamenti psicoterapeutici verso i pazienti emicranici (una trattazione la cui portata è limitata solo dal fatto che tutti i suoi pazienti e Wolff stesso avevano una «personalità emicranica»), stabilisce tre punti, che ora dobbiamo sviluppare.
«1. Il metodo preciso da usare nella cura dei pazienti emicranici deve dipendere, in ultima analisi, dall’esperienza e dalla preparazione del medico. Risultati accettabili si ottengono con svariati approcci. È essenziale che il medico stesso sia conscio dei pregi e dei difetti dei metodi terapeutici che usa».
A questo proposito è bene aggiungere due commenti riguardo a certi rischi che possono minacciare il rapporto fra il paziente emicranico e il suo medico. Il primo è che il medico, stimolato nell’ambizione da letture psicoanalitiche, ma privo di esperienza specifica, voglia sottoporre il paziente a una inappropriata, non pertinente, irresponsabile, inopportuna, e spesso errata «interpretazione» dei suoi sentimenti repressi – e di solito il paziente reagisce, a ragione, cercandosi un altro medico. Il secondo pericolo, più diffuso e più serio, sta nell’incapacità da parte del medico di valutare la portata della psicopatologia di certi pazienti che gli si presentano affetti da emicranie implacabili e incessanti. Abbiamo già indicato (capitolo XII) che alcuni di tali pazienti sono profondamente disturbati; alcuni – assai pochi – di essi sono sinistramente depressi o mostrano atteggiamenti autodistruttivi. Questi pazienti – tanto pochi di numero quanto grandi sono le loro sofferenze – possono ben ricadere fuori della portata di un intervento psichiatrico superficiale, ma vanno indirizzati a cure più specializzate e intensive.
Le terapie che i medici possono – o devono – scegliere sono infinitamente varie, come i pazienti stessi; pochissime generalizzazioni, quindi, si possono considerare davvero istruttive, in questo ambito. C’è una sola regola fondamentale: bisogna sempre ascoltare il paziente. Perché se qualcosa affligge i pazienti emicranici, oltre all’emicrania, è il fatto di non essere ascoltati dai medici; osservati, analizzati, imbottiti di farmaci, spremuti, ma non ascoltati.
Il colloquio terapeutico, rigorosamente limitato in un primo tempo all’analisi delle emicranie del paziente, gradualmente si estenderà ad altri aspetti della sua vita; in particolare, alle tensioni, fatiche, collere e frustrazioni che possono insorgere sul lavoro o in famiglia. Mentre ascolta, il medico chiarisce; ascoltando, egli può fare scaricare parte della forza repressa derivante da tensioni accumulate – e sarà anche in grado, si spera, di indicare al paziente come evitare o allentare certe tensioni.
Il potere del consiglio diretto e dell’esortazione, nella sfera emotiva, è estremamente limitato. Nel loro manuale di medicina psicosomatica, Weiss e English (1957) indicano nove «semplici regole» per rinforzare il morale del paziente emicranico, tra cui sane indicazioni come: «Sia contento con meno ... La smetta di essere tanto critico ... Approvi se stesso ... Non si senta più così colpevole ...» e simili. Queste massime possono essere incorniciate e appese alla parete, ma non basterà che siano state espresse perché vengano assimilate emotivamente.
Wolff si interessa in modo particolare di pazienti ossessivi, mossi da obblighi di coscienza, da princìpi severi, prigionieri di imperativi manifesti e reiterati: «Devo far questo, devo far quello ...». Vista la rigidità e la tensione ansiosa di questi pazienti, la sua preoccupazione terapeutica è quella di «alleviare ripetutamente la tensione mediante il colloquio» e di «consentire al soggetto di farsi cosciente della propria tensione ... dell’affaticamento ... dell’insoddisfazione... della frustrazione, del carattere ossessivo delle preoccupazioni riguardanti il lavoro o le sue responsabilità».
Tuttavia questo profilo caratteriale non si adatta a tutti i pazienti con emicranie abituali – come si è già dimostrato e discusso ampiamente (capitoli IX e XII). Molti pazienti emicranici, lungi dal mostrarsi iperattivi e ansiosi, manifestano fin troppa docilità e passività (associate a collera e ostilità profondamente represse, che trovano espressione nell’emicrania). In alcuni sono evidenti il disinteresse e il rifiuto di ogni problema, di ogni tensione: sono i pazienti affetti da «emicranie dissociative», analoghe nella loro formazione ai sintomi isterici. Un altro gruppo di pazienti gravi manifesta aperta depressione, atteggiamenti masochistici, alternanza delle frequenti emicranie con altre forme di autopunizione. Sono soprattutto questi i pazienti che il medico riconoscerà, poiché essi, a differenza della maggioranza dei pazienti emicranici, richiedono trattamenti elaborati e intensivi, per conseguire un qualsiasi successo terapeutico.
«2. Il trattamento profilattico dei pazienti emicranici richiede dal medico un grande dispendio di energie. Non è un metodo adatto a quanti non possono dedicare a un colloquio più di cinque minuti».
Anche qui, è possibile estendere la portata delle dichiarazioni di Wolff. Molti pazienti emicranici si rivolgono al medico nella speranza di ricevere una diagnosi corretta, la rassicurante conferma che il loro disturbo è benigno, una chiara enunciazione della prognosi e del trattamento da seguire, forse qualche cura per gli attacchi acuti. In questo gruppo troviamo quei pazienti soggetti ad attacchi poco frequenti (dell’ordine di dieci all’anno): è opportuno visitarli una o due volte per esporre loro i «fatti», e in seguito a intervalli molto distanziati, uno o due volte all’anno, per controllare come si mantiene lo status quo. Pazienti colpiti in modo più grave dovrebbero essere visitati regolarmente, a intervalli di tempo (da 2 a 10 settimane) opportuni sia per il paziente, sia per il medico. I primi colloqui devono essere lunghi e minuziosi, in modo da rendere manifesta a entrambi la situazione generale – e le particolari tensioni che essa implica – nel momento stesso in cui si stabiliscono le basi dell’autorità del medico e del rapporto fra questi e il paziente. Gli incontri successivi possono essere più brevi e avere prospettive più limitate; saranno in generale orientati alla discussione di problemi contingenti come vengono vissuti dal paziente ed espressi nelle sue emicranie. Un’attenzione frettolosa da parte del medico è esiziale ed è una causa importante di emicranie asserite «incurabili».
«3. Bisogna rendersi conto che l’eliminazione del mal di testa può richiedere più di quanto il paziente sia disposto a dare, in termini di modificazione delle abitudini personali. È compito del medico mettere chiaramente a fuoco e poi mostrare al paziente che cosa comporta il suo stile di vita. Dovrà poi essere il paziente a decidere se preferisce tenersi il mal di testa o liberarsene».
L’affermazione di Wolff sottolinea le limitazioni del medico che decide di curare una malattia psicosomatica – così come Groddeck ne contestava la adeguatezza. Implicitamente entrambi sono interessati dalla realtà della «scelta» del paziente: conservare o abbandonare i propri sintomi. Arriviamo così, infine, a definire lo scopo della terapia.
Questa non può essere posta nei termini di una semplice «cura», ma deve essere concepita come una strategia disegnata apposta per ogni particolare paziente, nel tentativo di trovare e di garantirgli il «migliore» modus vivendi. E qui il disaccordo, anche se inconscio, fra il paziente e il suo medico può essere profondo. Mi riferisco al fatto che determinati pazienti (una minoranza, e tuttavia un gruppo importante e spesso profondamente invalidato dall’emicrania) possono essere attaccati ai propri sintomi, avere bisogno di essi; tali pazienti possono, in una certa misura, preferire una vita con l’emicrania, pur con tutti i suoi tormenti, a una qualunque alternativa che sembri aprirsi. Wolff considera questa possibilità, ma la liquida con una frase («... la riluttanza nei confronti di un cambiamento può rendere vani tutti gli sforzi terapeutici»); noi, tuttavia, dobbiamo esaminarla in modo più approfondito, soprattutto con riferimento a quel gruppo di pazienti ostinati e tragici le cui emicranie si sono dimostrate «incurabili» anche se per tutta la vita hanno cercato l’aiuto della medicina.
Nel precedente capitolo abbiamo osservato che la «conversione» (o, in termini più generali, l’uso di mezzi fisici indiretti e di malattie per esprimere pulsioni represse) deve essere considerata come una possibilità sempre presente in ciascuno di noi, e sottolineammo il saggio commento di Deutsch: «Gli esseri umani sarebbero molto infelici e si rifugerebbero assai più spesso nella nevrosi se non potessero, di tanto in tanto, ammalarsi». I pazienti vittime di emicranie fortissime e irriducibili possono essere classificati in tre gruppi: alcuni si trovano ad affrontare situazioni esterne intollerabili; altri, situazioni interne potenzialmente intollerabili; pochissimi, infine (per lo più coloro che hanno emicranie classiche frequenti fin dalla prima infanzia e spesso una notevole anamnesi famigliare), sembrano avere una spinta idiopatica, fisiologica, nei loro attacchi, analoga a quella dell’epilessia. Qui ci occupiamo solo dei primi due gruppi. Abbiamo già suggerito che in tali pazienti le emicranie gravi possono o coesistere con nevrosi gravi o insorgere al loro posto. Il tentativo di rimuovere emicranie abituali gravi in una personalità isterica o patologicamente indifferente (caso 80) può costringere il paziente ad affrontare ansie opprimenti e conflitti emotivi ancora meno tollerabili delle emicranie. Paradossalmente, i sintomi fisici possono essere ben più misericordiosi dei conflitti che essi nascondono ed esprimono al tempo stesso. Possiamo sospettare di trovarci in uno di questi casi osservando la personalità e i sintomi del paziente, e possiamo a volte verificare tale ipotesi dall’eruzione di ansia e di conflitti nevrotici in conseguenza di qualsiasi tentativo terapeutico di turbare lo status quo. In questi casi, le emicranie possono avere lo stesso ruolo paradosso e ricoprirsi della stessa ambivalenza inconscia dei sintomi nevrotici gravi; essi difendono la personalità, e le offrono vantaggi e sicurezze, mentre ne impediscono l’espansione e ne limitano la libertà d’azione: è la duplice funzione delle mura di una città. In tali casi, parafrasando le parole di Groddeck, la malattia è sia un’amica, sia una nemica, e batterà in ritirata solo se si potranno offrire al paziente scelte radicalmente nuove.52