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Bomarzo, Parco dei Mostri

«Angelo!»

Le tre sillabe partirono come saette verso il centro della radura mentre Alexandra era ancora nascosta dietro alla roccia con Caterina e Antonio. Quando colpirono il bersaglio, Alexandra saltò fuori e si precipitò verso la bocca dell’Orco.

«Ferma!» gridarono i compagni nascosti.

Lei fece ancora qualche passo e si immobilizzò a pochi metri dai due. Mancini sembrava svenuto, gli occhi chiusi.

Il cacciatore di mostri la indagò con gli occhi corrosi dal male e dalla domanda che lo divorava. Cos’era quel nome?

L’eco di quel dubbio lo riportò nella palude delle ombre, del ricordo più oscuro.

Dalla superficie melmosa si solleva il corpo minuto di un bambino. Ha cinque anni. Non sa come, ma ne è certo. Ha i capelli biondo cenere, il caschetto preciso, gli occhi strani. Al suo fianco emerge un corpo di donna, galleggia sulla melma putrida, la chioma bionda aperta a ventaglio. Apre gli occhi e si solleva sospinta da una forza invisibile. È in piedi di fianco al piccolo. Lo accarezza e lui sente un calore improvviso, grande, benefico, invadere gli interstizi tra le ossa e la pelle, conquistare muscoli, carne, organi. La testa non fa più male. Niente dolore alle orecchie. Ma qualcosa succede. Improvviso come una folata di vento, il bambino cambia, e lui sente freddo. Continua a guardare dentro quella sfera colma d’ombre, nebbie nere, polvere oscura, e là, dove sta la sua palude, vede il bambino trasformarsi in un piccolo mostro spietato, i denti acuti e irregolari come vetri rotti. Il rumore lontano delle urla. Poi tutto scompare.

Il cacciatore di mostri si ritrovò nella radura dell’Orco.

«Angelo. Sono io.»

La osservò inclinando la testa come farebbe un animale ferito, incapace di comprendere.

«Sono Alexandra.»

I tre nascosti emersero dalla vegetazione. Comello avanzò piano alle spalle del killer, la pistola stretta nel pugno.

«Ti ricordi di me?»

La domanda rimase sospesa, nel silenzio stupito del ragazzo.

«Sono tua sorella.»

Walter si fermò cercando con lo sguardo Antonio e Caterina. Aveva capito bene? Gli altri stavano osservando la scena che si stava svolgendo a pochi metri da loro. Antonio era fermo, le braccia lungo i fianchi, la bocca aperta.

Il cacciatore scosse la testa per scacciare i ricordi che lo rigettavano dentro al suo mondo confuso. E dentro a quel mondo confuso qualcosa si ruppe, la volta oscura del cielo si squarciò lasciando penetrare una luce sottile. La donna galleggiava di nuovo sull’acqua putrida ma adesso era tutto più chiaro. Aveva la gola tagliata. E le lacrime, le grida che aveva sentito erano quelle di un uomo. E di una bambina.

«Sono tornata a prenderti.»

Un’altra crepa si spalancò nella sfera nera e un fascio di luce colse il bambino in piedi accanto alla donna morta, all’uomo e alla bambina.

«È stato papà. Lo ha fatto per il tuo bene, Angelo.»

Era il suo nome? Lo aveva dimenticato. Nessuno lo chiamava più così da allora. Ma quella bambina era questa donna, ne era certo.

«Io ti ho uccisa.»

Le parole uscirono da sole, non dalla bocca, ma dal suo mondo allucinato, in cui non v’era realtà. Memorie, sogni, visioni, navigarono assieme portandosi dietro i mostri, la cella, il vecchio frate e, più indietro, la donna morta, quell’uomo che, ora ricordava, era suo padre. E quella bambina, certo, era Alexandra. Sua sorella.

«No, Angelo. Io sono qui. Sono venuta a prenderti.»

«Io ti ho fatto tanto male. È per questo che papà mi ha mandato via.»

Caterina non ci credeva. Doveva piangere o provare orrore per quello che stava ascoltando? Antonio la teneva a sé, inorridito: chi era Alexandra? La donna di cui si era innamorato o la complice di quell’assassino? Walter fece un altro passo. Mancini era desto ma non riusciva a muoversi. Il collo bloccato.

«Sì», continuò Alexandra. «È così. Ma ora sono qui. Quello che è successo non importa. Papà non c’è più. E tu hai bisogno di cure.»

Il commissario spostò le dita della mano. Lento, lasciò che quel movimento impercettibile conquistasse i muscoli delle braccia. Non aveva subito danni.

«Angelo.» Alexandra parlava come si parla a un bambino. «Hai ucciso degli innocenti.»

Il volto del ragazzo scolorì e una luce nuova accese quegli occhi. «Innocenti? Nessuno lo era. I mostri sono il male, il disordine. Li ho uccisi per difendermi, Alex, e ora finirò con lui», disse indicando Mancini che si fermò. «L’ordine delle cose tornerà quello del Signore. E io starò bene di nuovo. Andrò in convento, dal mio vero padre.»

Mancini spostò una gamba e il cacciatore lo inchiodò con lo sguardo. Anche Alexandra incrociò gli occhi neri del commissario: erano stravolti dal dolore, ma c’era qualcos’altro.

«Angelo...» iniziò Mancini. «Ascolta tua sorella. Hai ammazzato persone innocenti e hai terrorizzato la città. È questo che volevi?»

Angelo aggrottò la fronte, e Mancini capì che doveva continuare.

«Hai gettato Roma nel caos, lo stesso caos contro cui combatti. Ma facendolo, sei diventato come loro.»

«Che dici, mostro?» La voce era alterata, dura. Il ragazzo con gli occhi di cielo lasciò precipitare la mano sul viso del Re del Caos. «Tu sei il male. Io devo ucciderti.»

«No, Angelo, lascialo stare. Andiamo via.» Alexandra fece un cenno d’intesa al commissario. «Verrai con me e nessuno ti farà del male. Te lo prometto.»

Mancini non le diede retta e proseguì: «Non ti sei accorto di cosa sei diventato?»

Il ragazzo con gli occhi di cielo ascoltava impaziente le parole del Re del Caos.

«Ti sei trasformato anche tu in un mostro.»

La botta fu più forte della precedente e lasciò un taglio sul sopracciglio del commissario. Il cacciatore lo aveva colpito con il manico del suo strumento e Mancini gemette.

«Ce ne andremo insieme, io e te.» Alexandra afferrò la mano assassina del fratello e lo aiutò a raddrizzarsi, liberando Mancini. Come un bambino, lui assecondò il movimento, poi l’abbraccio della donna giunse inatteso e il calore improvviso che lo conquistò lo sciolse.

«Mamma dov’è?» le chiese tra i capelli, mentre i singhiozzi cominciavano a scuoterlo.

«Non c’è più», si limitò a rispondere lei scuotendo il capo.

«Non sono stato io, vero, Alex?»

Era lì, la sua sorellina, le due trecce rosse avevano lasciato il posto a una criniera profumata. Era la cosa che amava di più nella vita. Cosa le aveva fatto per meritarsi quell’abbandono? Le lacrime salirono agli occhi e la trasformazione riprese senza che lui potesse arrestarla.

«Sono davvero un mostro?» Alzò la voce mentre la gola si faceva grossa, la testa immersa tra i capelli e l’incavo della clavicola di Alexandra.

Nessuno poteva vedere quello che stava accadendo.

«Sono un mostro?» urlò, e le mani schizzarono attorno al collo sottile di lei. La testa si allontanò, assieme al corpo, dall’abbraccio e la lama spinse fino a bucare la pelle sotto il mento.

Quando la donna gridò, un grido tragico, privo di ogni accento di paura, la detonazione straziò la gola del killer. E nell’oscuro grembo del tempo, Angelo tacque, la schiena a terra. Mancini aveva sparato dal basso perforando la parte molle del collo, e mancando però la trachea.

Angelo respirava a fatica.

«Perché?» urlò Alexandra.

La pallottola giusta al momento giusto, pensò Comello nell’istante in cui la afferrava. Un attimo dopo gli altri le furono addosso.

«Perché?» continuava a strillare lei.

Si divincolò finché non fu in ginocchio accanto al fratello. Lui sollevò il capo, staccando il mento dalla propria gola lacerata. Il sussurro della voce si perse nei misteriosi suoni della natura. Il dolore e la desolazione che lasciava dietro di sé si mescolarono al lamento del torrente nella forra e al vento che fischiava più forte tra le pietre e le fronde. Quando finalmente parlò, quel denso bisbiglio parve giungere da un mondo immerso nella notte eterna.

«Ho paura.»

Dov’era l’uomo che lo aveva accudito e protetto come un figlio? Dov’era il Padre superiore in quel momento? Socchiuse le palpebre e lo cercò, nel buio della propria coscienza. Da lontano, guidata da un vento sottile, avanzava l’eco di quella voce: «Il caos, figlio mio, è un male necessario. È il padre della paura che è madre della fede. Senza la paura del demonio viene meno il timore di Dio. Senza i mostri, figlio mio, non esistono eroi».

Aveva combattuto invano?

La voce si spense e le lacrime corsero a bagnare lo squarcio. Le pupille dilatate, infinite, desideravano la poca luce che un faretto proiettava a qualche centimetro dal masso. Il viso trasfigurato riprendeva piano la sua forma, la pelle di marmo, la bocca dolce del sapore della morte.

Mancini si accostò all’uomo che era stato sul punto di ucciderlo. Al mostro che aveva annichilito un’intera città. Al fratello di Alexandra Nigro. Era lei l’elemento che mancava, quello che aveva cercato di afferrare a casa del professore, quello che aveva intuito alla Casina delle Civette. Qualcosa che aveva già visto. La forma dei loro visi. E dei loro occhi, grandi e penetranti, il giallo del sole morente nell’azzurro del mare. Un fratello e una sorella.

Cosa le sarebbe successo?

«Angelo?» chiamò lei.

Le orecchie di lei incontrarono l’ultimo sospiro dell’uomo che aveva davanti.

«Alex, io non ho visto il mare», disse con gli occhi di un bambino.

Il cielo dentro quello sguardo si spense. Una foglia si separò dal ramo sopra di lui, fece un mezzo giro e si fermò tra le mani del cacciatore, sconfitto dall’ultimo mostro.

Il corpo d’Angelo, alieno alla vita, s’irrigidì velocemente per vivere l’ultima trasformazione. La pelle si fece di marmo, le giunture come nodi di quercia, finché di lui non rimase che una statua senz’anima. Una scia luminosa attraversò il cielo specchiandosi nell’unica lacrima che avesse mai versato.

Poi, l’ora della morte lo prese e lo precipitò nell’oscuro cuore delle tenebre.