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Polino
Si infilò nella faggeta, tra l’agrifoglio e l’acero di monte, il timbro dei passi sulle foglie bagnate e l’intenso profumo del muschio. Lo sforzo lo costringeva a respirare con la bocca aperta, eppure sentiva l’aroma della legna fradicia, percepiva lo sgocciolio delle foglie, il vento frusciare tra i rami mescolandosi al ronzio delle mosche cavalline. Sottili filamenti di luce penetravano dall’alto picchiettando i tronchi nodosi. Da qualche parte cadde una pigna e qualcosa si mosse tra le fratte. Sapeva che il suo odore sarebbe rimasto per ore lungo il percorso, mettendo in guardia la fauna del sottobosco.
Lì, tra cacciatori e prede, lui era l’estraneo.
Era febbraio e il cielo era una volta di nuvole bluastre. Basso e improvvisamente minaccioso, annunciava il rovescio imminente con un brontolio che sembrava provenire dallo stomaco del bosco. In alto, un falco volteggiava, pronto a punire un errore, approfittando della paura del tuono per affondare il becco e gli artigli. Una pernice di montagna sbucò sulla carrareccia, sollevò il capo e scomparve veloce tra gli arbusti spinosi.
Anche lui alzò lo sguardo. Niente di buono in arrivo. Si era lasciato alle spalle il giacimento di lignite e gli impianti di sollevamento che sprofondavano nelle viscere della terra e stava percorrendo la mulattiera tra le ginestre e i grossi affioramenti rocciosi. La neve dei giorni precedenti s’era sciolta seminando qualche pozza d’acqua sudicia, e lui ora faticava a camminare tenendo fra le braccia il pesante sacco di iuta. Gli scarponi affondavano e le ginocchia fremevano, il corpo madido di sudore sotto gli indumenti da lavoro. Il caldo umido della pelle, il freddo solido del monte. Lui restava in ascolto, inspirando dal naso per ossigenare il sangue ed espirando piano. Un passo dopo l’altro la fatica cresceva, le braccia e le spalle dolenti per il peso che dovevano sostenere.
Finalmente sbucò in una radura circolare ampia una trentina di metri. Gli occhi si chiusero di scatto, prima di abituarsi alla luce. Posò il sacco sul terreno brullo, si calcò il berretto di lana sopra le orecchie e tirò su la zip del giubbotto imbottito. Era sfinito. Il petto si sollevava e abbassava in corti sobbalzi affannosi. Dall’altra parte della radura scorse un grosso castagno la cui corteccia screpolata aveva conosciuto la furia del fulmine. La pianta era venata di bruciature e segnata da squarci che la aprivano fin quasi a metà del tronco. L’inverno aveva fatto il resto spogliandola delle foglie dentate e dei suoi frutti spinosi.
Una vibrazione improvvisa lo scosse. Tre, quattro, cinque volte. Proveniva dalla tasca. Poi s’arrestò e la sensazione scomparve com’era venuta. Aprì il sacco e prese una piccola pala e una pianta. Scrutò la volta cenerina, l’aria era ghiaccia e il rapace era sceso di quota. Non c’era momento migliore per piantare il querciolo assopito nel suo letargo vegetale. Si tolse i pesanti guanti da lavoro e scavò una buca larga e profonda, adagiandovi la zolla con le radici, poi tolse la retina che la avvolgeva. Dal giubbotto pescò un sacchetto verde con una cordicella, lo aprì e rovesciò il contenuto alla base delle radici, spinse bene con la punta delle mani, infine ricoprì tutto di terra pigiando con gli scarponi.
Era una zona riparata e il vento non avrebbe disturbato la piccola quercia. Su di lei avrebbe vegliato il castagno dall’altra parte della radura. Solo una folgore, un evento feroce e inatteso, lo aveva scosso, spezzato, ma non era riuscito a vincerlo. Rimase di fronte alla nuova pianta, in silenzio, a osservarla. Una dozzina di rametti già si estendevano dal tronco. Poteva farcela.
Afferrò il sacco, lo piegò e riprese la discesa. Qualche centinaio di metri più in basso, in una valletta tra le colline spelacchiate, c’era Polino. Riusciva a scorgere la finestra di casa che si apriva sulla facciata di roccia. Doveva rientrare prima che il cielo scaricasse la sua furia. Aveva bisogno di una doccia. Il corpo gli doleva, ma era un dolore che aveva imparato ad apprezzare, lo faceva sentire vivo. Lo rendeva vero.
Cento metri più giù, orti e oliveti segnavano la morfologia della collina alternandosi ai profili delle rocce calcaree. Superata una macchia di pioppi, scorse lo spunzone con l’eremo abbandonato. Si lasciò andare senza paura, sdrucciolando sugli scarponi, passò oltre le baracche destinate agli animali ed entrò sulla piazza con la fontana e il lavatoio. Erano quasi le otto e il morso della fame si faceva sentire. Si arrampicò per le scale di pietra che zigzagavano in alto tra portici e case petrose mentre i quadricipiti fremevano. Alla fine, sulla destra, emerse la silhouette della rocca. Le due torri cilindriche e la pianta poligonale della piccola fortezza le conferivano un’aria di fragile possanza. Attraversò lo slargo dedicato ai partigiani caduti tra quei monti e si fermò davanti alla porta di legno.
Appena girò la chiave nella toppa fu investito dall’odore dei tizzoni bruciati la sera prima. Le travi d’abete sostenevano le assi del soffitto posato su pareti di pietra squadrata. Sulla sinistra, una vecchia cucina a gas ospitava il corpo ferroso di una moka bruciata e l’avanzo di un filone di pane sciapo. Al centro della stanza, sul pavimento in cotto, c’era un tavolo di noce con sopra un pezzo di prosciutto e un coltellaccio. Nell’angolo opposto, un divano fronteggiava un camino di mattoni. Mancini chiuse la porta, appese il giubbotto e ci si inginocchiò davanti. L’eco della brace sussurrava e la promessa di un nuovo calore lo rianimò. Prese la legna secca dalla catasta e l’accese. Caffè non ce n’era, ma non aveva voglia di scendere all’alimentari, preferiva passare inosservato. Pazienza.
Mentre le fascine cominciavano ad ardere scese due scalini fino alla camera da letto ed entrò in bagno. Tolse i guanti da lavoro e il berretto di lana, aprì l’acqua calda della doccia e iniziò a spogliarsi. Il fuoco frusciava sprizzando minuscole scintille arancione quando due colpi picchiarono alla porta d’ingresso. Si affacciò dal bagno e rimase in attesa. Non parlò, sperando che il seccatore desistesse. Poi un altro colpo fece tremare la porta e lui si rassegnò e andò ad aprire.
«Hanno chiamato», attaccò il tipo massiccio che consegnava la legna ai trecento abitanti del paese umbro.
Lo sguardo di Mancini si spostò dalla camicia a scacchi neri e rossi sul viso ispido dell’uomo. Annuì piano e restò in attesa mentre un filo di brezza s’insinuava in casa carezzandogli il torso.
«Giù, al ristorante», proseguì il visitatore. «Hanno chiamato.»
Enrico era salito lassù per staccare, per provare a cambiare le cose dall’esterno. Spostarsi gli faceva bene, gli dava una specie di vantaggio su se stesso. Almeno su una parte di sé. E la casa in montagna era un luogo sufficientemente solitario per affrontare l’ansia che montava quando finiva di lavorare e, da solo, non sapeva che fare.
«Chi?» domandò.
«Non lo so. Hanno detto che era urgente. Da Roma.» Poi lo spaccalegna allungò un tovagliolo di carta con su scritto qualcosa, fece un cenno col capo e scomparve risucchiato da una raffica gelida.
Enrico Mancini chiuse il freddo fuori della porta, si voltò e rimase immobile.
La casa era ancora come l’aveva lasciata mesi prima, durante le ferie che il questore Gugliotti gli aveva imposto alla chiusura del caso dell’Ombra. Quelle due settimane trascorse lì le ricordava come un’unica nebbia indistinta in cui aveva vagato, smarrito tra i ricordi e inebetito dal male a cui aveva assistito, dalla nuova luce che aveva preso il suo dolore. Ma alla fine di quel momento dilatato, in cui si era dedicato anima e corpo al bere quasi senza toccare cibo, aveva vinto il corpo. Era al suo fisico che doveva affidarsi per andare avanti, alla carne, ai nervi, ai muscoli, alle ossa intrise d’angoscia. Ogni cellula gli chiedeva di rialzarsi. Di vivere, perché quella era l’unica cosa che conosceva. L’unica che contasse davvero.
Raggiunse il camino e ci gettò il tovagliolo, che si consumò in un sospiro bollente. La fame era passata. Girò attorno al divano, ma prima di raggiungere la cantinella con le bottiglie, sulla parete di roccia incontrò lo specchio con la cornice dorata. La sua forma irregolare lo braccava da giorni, e si sentì osservato. Fino a quel momento era riuscito a sfuggirgli, adesso invece il suo sguardo si perdeva negli occhi del fantasma che lo osservava dal fondo di quel pozzo trasparente. Rapito dal suo riflesso, Enrico indugiava di fronte al senso di vuoto che lo aveva preso. I capelli lasciati crescere oltre le orecchie, ricci e neri con l’eccezione di una ciocca grigia, la fronte ampia segnata da tre rughe, il triangolo del mento.
Il cellulare vibrò nuovamente nella tasca del giaccone strappandolo dall’ipnotico sguardo dello specchio. Raggiunse l’attaccapanni, frugò e schiacciò il tasto di risposta mentre guardava fuori dalla finestrella sopra la porta.
«Pronto?» risuonò la voce incerta dell’ispettore Comello.
«Dimmi.»
«Buongiorno, dottore.»
«Dimmi», ripeté.
«Mi spiace. Dovrebbe rientrare.»
La massa irregolare delle nuvole si andava avvolgendo su se stessa finché, di colpo, si rapprese. L’aria fuori sembrava bagnata, pesante. Mancini espirò, in attesa.
«C’è stato un... Un rinvenimento. Alla Galleria Borghese.»
«Quando?»
«Poco fa. Un omicidio efferato.»
Questa volta il commissario sbuffò dal naso e rispose: «Rientro lunedì mattina e vengo all’Istituto per esaminare il corpo. Il sopralluogo può farlo il vicecommissario. Digli di portarsi Caterina».
«Deve venire lei.»
«Sono in montagna. Rientro lunedì.»
«Dottore, deve venire a... vedere.»
In quel «deve» Mancini avvertì un’ansia che stonava col temperamento dell’ispettore. Sapeva che quando Walter si lasciava sfuggire quella parola c’era di mezzo qualcosa di anomalo, qualcosa che uno sbirro di strada come lui non era in grado di decifrare. Qualcosa di inquietante.
Osservò il proprio viso nello specchio e colse un’espressione che non aveva registrato.
«Ho capito», disse. E attaccò.