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Roma, tre anni dopo la fuga

Il cacciatore esce solo di notte.

Emerge dalle tane sotto la pelle della città. Di giorno scruta attraverso le fessure dei tombini rugginosi, riposa nei loculi delle catacombe, si aggira come un fantasma nel dedalo delle fognature. Aspetta il tramonto in silenzio, tra le rimesse sotto le banchine del lungotevere, negli scantinati di palazzi fatiscenti. Di nidi così ne ha seminati parecchi, sistemati per spostarsi con comodità da un punto all’altro del centro, sotto il livello del suolo con il sole, in superficie quando fa buio. Molti sono luoghi abbandonati da decenni, un tempo piccolissimo per la storia di Roma, enorme per la memoria della gente soprasuolo. Ha cambiato lucchetti, catenacci e serrature e ha nascosto tutte le chiavi nei pressi di ogni tana. I posti li ha scelti perché gli ricordano la sua cella al convento.

Dopo tre anni gli manca, stanza o prigione che fosse.

A volte, quando la città dorme, lui emerge e si stende a terra, guarda in alto in cerca dei segni. Respira, e i suoi occhi si specchiano negli astri incastonati nella notte più nera. E li vede, lassù, animali e personaggi delle favole antiche, fatti di una luce che non lo spaventa, anzi, lo attrae. Quella del cosmo, dell’ordine celeste che dà forma al caos, alle sue creature favolose.

Qualche volta torna nella tana e scarabocchia quello che ha visto in cielo sul piccolo albo da disegno, uno dei regali del Padre superiore. Altre volte aggiusta e corregge i propri schizzi, così facendo si prepara per una delle sue messe. Poi, quando la notte tocca il suo punto più oscuro, affiora dal ventre della città e vaga tra i parchi e le ville, spia la gente alle finestre, raccoglie segni, tracce e indizi utili a scovare le sue prede.

I suoi mostri.

Ne mancano ancora tre. Sì, questa è la notte perfetta e la nuova tana è vicina alla dimora della prossima creatura. Qualcosa gli dice che il tempo stringe. Presto il Re del Caos verrà a cercarlo, proverà a fermarlo. A vendicarsi per quello che lui ha fatto a Bacco. Ma questo non deve accadere. Manca davvero poco per concludere la sua missione sulla terra, imprimere il sigillo dell’unico Dio, domare il caos precedente alla creazione che ha generato, sostanza cangiante e spaventosa, i mostri.

Il sigillo del silenzio perenne.

Dopo potrà tornare in convento. Nella prigione, nella sua casa. Dal Padre superiore. Un fremito lo scuote. No, non vuole più deluderlo, e quando tutto sarà finito e lui starà bene, ogni cosa sarà come prima. Accosta le palpebre e sprofonda nel sogno di un bambino.

«Vieni qui, da bravo», gli diceva il Padre superiore. E da quella bocca sbocciava un sussurro da cui prendevano forma le sue storie. Cantava sottovoce, per non svegliare, diceva sorridendo, le cose che dormono nel buio. Gli teneva la mano. E quando alla fine cadeva addormentato, la notte sembrava meno spaventosa.

Perciò adesso, chiuso tra quelle mura in fondo alla scala di un magazzino abbandonato al Pigneto, il cacciatore si affretta a completare il disegno. Mancano pochi particolari. Ricorda perfettamente quell’immagine. I suoi occhi si perdono nel vuoto della memoria e la mano corre da sola, inseguendo i contorni di quel ricordo.

Ecco, ha finito.

Solleva il foglio per gli angoli senza guardare la figura al centro. Si alza e si avvicina alla porta che da dentro, ma solo da lì, è uguale a tante altre. Con un chiodo appende il disegno. Dalla tasca di tela estrae dei mozziconi bianchi e la scatola di fiammiferi. Accende le candele e le dispone vicine ai piedi della figura. Si inginocchia, tiene gli occhi chiusi, sussurra l’Atto di dolore tre volte all’inizio e tre alla fine, non prima di aver raccontato a Dio i piccoli peccati che ha commesso in suo nome.

E prega. Prega di trovare la forza e il coraggio per affrontare la sua missione. Di portarla a compimento. Di non titubare mai. Prega, e quando apre gli occhi la magia della preghiera ha agito.

Il disegno sta cambiando.

Le palpebre della Gorgone si sono mosse. Uno dopo l’altro, i serpenti si spostano come se stessero sgranchendosi da un lungo letargo. La carta si gonfia e le vene sul collo della Medusa sporgono in rilievo. È il segnale che attendeva. Il disegno è pronto.

Il mostro è vivo.

E ora tocca a lui.