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Roma, università La Sapienza

«Mancano alcuni mesi alla fine della seconda guerra mondiale. Sono anni bui e difficili per chi vive in una grande città come Roma. E ancora peggiori per chi abita nei paesi o nelle campagne romane.»

L’uomo vestito di nero si spostò sopra la pedana. L’aula, una sessantina di teste, lo seguì, mentre Carlo Biga lo osservava dal posto in alto che aveva occupato per non farsi vedere. Caterina e Walter erano in mezzo agli specializzandi, in quarta fila.

Mancini riprese a parlare fissando un punto nel vuoto, in basso, vicino ai piedi: «Siamo al 47º chilometro della vecchia Salaria, una delle dieci vie consolari romane. È estate, il 6 di luglio del 1944, e fa caldo. Pietro Monni, avvocato romano, è in bicicletta e proprio in quel tratto di strada si buca una gomma. Scende e vede un vecchio casolare diroccato da cui esce un uomo che gli va incontro e gli offre il suo aiuto. L’uomo lo fa entrare in casa e gli porta attrezzi e colla per riparare la foratura. Da quel casolare Pietro Monni uscirà cadavere. Perché il contadino che lo ha accolto aspetta che l’altro si distragga, lo colpisce alla mandibola con una mazza, sbattendolo a terra, e gli spara con la doppietta».

La platea lo seguiva in un silenzio rotto solo dal sussurro delle penne che vergavano i fogli di appunti e dal ticchettio sulle tastiere dei portatili.

«In quel casale si nasconde l’uomo passato alla storia come il ’mostro di Nerola’, tra quei campi che non gli bastano a mantenere se stesso, la moglie e i quattro figli. Ma allora, come fa quel contadino improvvisato – anche la terra e il casaletto sono frutto di un’appropriazione illecita – a sbarcare il lunario e a dare da mangiare alla famiglia?»

L’accento retorico risuonò nell’aula per alcuni secondi, poi cadde nel silenzio. Biga si mosse sulla sedia di legno e Rocchi, che era in piedi dietro l’ultima fila, controllò quanto mancava al suo intervento. Pochi minuti. Era sempre teso quando doveva parlare in pubblico.

«Con questi», si rispose Mancini indicando una slide proiettata sulla parete bianca, dov’era comparso un mucchio di chiodi da carpentiere. «Al chilometro 47 della Salaria oggi non c’è più la pietra miliare, è stata sradicata dagli abitanti del piccolo centro che non vogliono che i curiosi si fermino a cercare i ruderi della casa maledetta. Ma era proprio lì che Ernesto Picchioni, da buon contadino, seminava i suoi chiodi.»

Si fermò di nuovo, improvvisamente stordito. Provò a raccogliere le idee. A riannodare il filo del discorso e a non ascoltare quell’altra voce che lo tormentava. Ma era inutile. La voce nera in quell’istante lavorava dentro di lui. Lo scavava come un verme della carne. Ormai era chiaro che il suo lutto era avvizzito, giorno dopo giorno andava scemando e di questo si vergognava, provava rimorso nei confronti di Marisa. In cosa si stava trasformando il suo dolore?

Il commissario riprese. Com’era salito, il morso del verme tornò ad annidarsi tra le spire delle viscere, in attesa del suo momento.

«Stavolta siamo nel 1947, ed è il 3 maggio quando Picchioni cattura e uccide Alessandro Daddi, un impiegato, per rubargli il Cucciolo, un motorino di piccola cilindrata, e i soldi che aveva addosso. Si comporta come aveva fatto tre anni prima, il 6 luglio 1944, con Pietro Monni che aveva catturato e ucciso per rubargli la bicicletta.»

Rocchi vide un posto libero vicino al professore e si mosse nel caldo asfissiante dell’aula strapiena. I termosifoni di ghisa bollivano seccando un’aria irrespirabile. Man mano che Mancini parlava, sulla parete scorrevano le immagini delle scene del crimine, delle armi, dei reperti dell’epoca, dell’orto dell’orrore. Il polsino di una camicia, frammenti di maglione, lo scheletro ricomposto di Monni. I carabinieri in posa col criminale ammanettato. Pezzi di bici smontate, indumenti, ossa di cani e decine di chiodi arrugginiti.

«Tutto questo ci rivela qualcosa. Ci dice che Ernesto Picchioni, il famoso mostro di Nerola, non era altro che un assassino improvvisato, un uomo violento, che picchiava e minacciava di morte moglie e figli, un uomo senza un movente che andasse oltre il mero profitto. Ma è precisamente per questo che era fuori dagli schemi. Un uomo che dopo aver ucciso due vittime accertate, e altre che non sono mai state trovate – la moglie al tempo aveva parlato di una dozzina di omicidi –, si fece catturare perché si mise a girare nel suo paesino di duemila anime con la bicicletta a motore rubata a Daddi e a spendere i soldi rubati all’osteria del posto.»

Mancini lasciò vagare lo sguardo sui visi nelle prime file. Non li vedeva, nessuno di loro, erano facce e basta, ma a quel punto del discorso c’era bisogno di una pausa. Le slide s’interruppero mostrando il desktop azzurro.

«Ora voglio sapere da voi perché è importante studiare il caso Picchioni. Quali sono i due elementi che ne fanno un caso degno della storia della criminologia italiana?»

Una mano si sollevò in mezzo all’aula. «È importante perché ci insegna che gli omicidi non sono tutti organizzati. Ma che un uomo semplice, ignorante, con un’indole violenta, può mietere tante vittime quante uno dei suoi più noti omologhi americani.»

Mancini riconobbe la voce. Che ci faceva lì? Walter si allungò per vedere se l’inflessione corrispondesse alla faccia che aveva in mente.

«Picchioni non era un serial killer», intervenne una voce maschile dal timbro basso, che si fece largo dal centro dell’aula. «Non è stato provato che abbia ucciso tre vittime. Gli inquirenti non sono mai riusciti a ricondurre a Picchioni i corpi del ragazzino e dell’uomo con i baffi ritrovati nel giardino. Idem per le altre carcasse nei campi vicino alla casa. La qual cosa, tecnicamente, impedisce di definirlo un seriale.»

Il ragazzone in giacca e cravatta sorrideva fiero della sua uscita e fissava la donna che aveva risposto alla domanda del commissario.

«Lei ha ragione», lo scrutò torvo Mancini, «ma il suo appunto non è rilevante ai fini della discussione.»

«Io volevo solamente...»

Il commissario non aveva voglia di starlo a sentire, voleva concludere e andarsene. Lo interruppe con un gesto della mano e una smorfia sulle labbra mentre un brusio di disapprovazione scivolava dalle ultime file fino al centro dell’aula. Caterina e Walter cercarono il professor Biga con lo sguardo, ma lui stava esaminando il suo vecchio allievo.

«Due elementi, dicevo. Il primo: il modus operandi del mostro di Nerola era semplice ed efficace.» Mancini sollevò la mano destra e tirò fuori pollice, indice e medio. «A: la preda cade nella rete; B: il killer la uccide e prende tutto, bici, denaro e altro; C: alla fine la salma viene sotterrata nell’orto del piccolo casale. Quindi, anche se il numero delle vittime accertate non arriva a tre, possiamo affermare che Picchioni si comporta come una delle figure che la scienza criminologica definisce un serial killer organizzato. Anche se non troppo ben organizzato.»

Dalla platea si sollevò qualche risatina sommessa e anche Mancini accennò un sorriso.

«La particolarità della sua strategia sta in quella che possiamo definire la ’tecnica del ragno’: il killer fa sì che la preda entri nel suo territorio, là dove lui è più forte e non corre il rischio di essere fermato né visto da testimoni. Colpisce affidandosi al caso, come un ragno che tesse la tela e resta in attesa. E lo fa unicamente per appropriarsi dei beni della preda, non per vendetta, né per fini sessuali o feticistici.»

«Quindi le vittime che finiscono nella sua tela sono degli sconosciuti e ciò che li accomuna è la casualità per cui sono entrati in contatto con il loro assassino, con il ragno. Non è lui che si sposta per cacciare, ma aspetta che il pasto giunga a tiro. Poi lo prende, uccide e depreda, tutto tra le pareti della sua tana.»

La voce s’era mossa sull’onda del lieve accento straniero. Mancini, Comello e Biga fissarono la donna mentre lei guardava, interrogativa, il commissario.

«È peggio di così, dottoressa Nigro. Perché le nostre ’mosche’ si fermavano per chiedere aiuto. Picchioni le assecondava offrendosi di riparare le gomme, dando loro acqua e cibo e promettendo di ospitarle fino alla mattina dopo. Loro si fidavano di lui, gli erano grate.»

Mancini portò le dita al mento accarezzando il filo di barba. Scrutò l’aula in attesa di eventuali considerazioni o domande. Che non vennero.

«Secondo elemento: nonostante la sua banalità, nella storia di questo caso c’è un fattore importante che dobbiamo tenere in considerazione: il contesto. Al tempo dei fatti non esistevano nuclei speciali come la SAM, la Squadra anti mostro di Firenze coordinata da Ruggero Perugini, uno dei primi italiani a studiare criminal profiling a Quantico.»

Dalla quarta fila, Carlo Biga si sentì chiamato in causa: era stato uno dei collaboratori più fidati di Perugini.

«Al tempo, anche mettere in relazione due crimini era impensabile. L’Italia era provincia, voleva esserlo, il male veniva da fuori. E di quel Paese appena uscito dalla seconda guerra mondiale, Ernesto Picchioni era il primo mostro, il primo assassino che entra nelle case degli italiani, l’uomo nero che le mamme evocano per spaventare i figli che non vogliono andare a letto presto. Il mostro di Nerola. L’assassino con la tessera del PCI, il mostro perfetto nell’Italia neorepubblicana alla vigilia delle prime vere elezioni politiche dell’aprile 1948.»

Il relatore inclinò la testa verso il basso, il mento quasi sul petto. Socchiuse le palpebre e si mise in cerca dell’energia che serviva per continuare. Sotto la luce, gli zigomi proiettavano due piccole ombre che si allungavano fin quasi al mento triangolare. La testa si sollevò della misura utile per scovare la sagoma del professore in quarta fila.

«Ed è così», Mancini indicò una nuova slide, «che i filmati del tempo, quelli, per capirci, in bianco e nero dell’Istituto Luce, immortalano la rimozione delle zolle del giardino dell’orrore. Vedete la gente del luogo incredula di aver vissuto per tanto tempo accanto al mostro. In quelle settimane da Roma partono decine di pullman e Nerola per la prima volta conosce l’attenzione dei media, attraverso la lente della cronaca nera.»

Biga incollò i piccoli occhi dentro quelli di Enrico e fu solo allora che l’allievo si accorse che lo sguardo del suo maestro era diverso. Non solo era stanco e invecchiato: c’era una durezza sconosciuta sul volto di Biga. Un velo di tristezza. O di rimprovero?

Dall’altra parte, il professore provava forte la sensazione del distacco del suo allievo. Aveva un’espressione fredda e distante.

Mancini riprese: «Grazie a quella esposizione mediatica ancora oggi la gente si ricorda del ragno...» La voce si era fatta bassa, distante. «Dell’uomo che tesseva le sue ragnatele d’acciaio spargendo quei chiodi, al chilometro 47 della vecchia Salaria.»

Spostò lo sguardo sulle lancette dell’orologio sopra la lavagna. Ce l’aveva fatta. Unì i palmi delle mani e concluse.

«Vi lascio con una domanda. Oggi, a quasi settant’anni di distanza dai fatti, cosa è cambiato? Un assassino come Picchioni, con la sua tecnica grezza, sarebbe in grado di uccidere con la stessa efficacia? E, anzi... Riuscirebbe a cavarsela, a farla franca?»

L’ultimo sguardo sull’aula rivelò una massa di teste ondeggianti, indistinta, scura, punteggiata di giallo, qua e là. Chi era tutta quella gente?

«Grazie, abbiamo finito.»

Si voltò verso la porta e l’attraversò scomparendo dalla vista di Caterina e Walter che si erano avvicinati. Carlo Biga e Rocchi si scambiarono un’occhiata. Mentre il professore provava a raggiungere l’ispettore e la fotorilevatrice che stavano varcando la soglia, Antonio posò la valigetta di metallo sulla cattedra e sfilò l’iPad.

Adesso li avrebbe fatti ballare lui, quei pivelli del cazzo.