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Umbria, tre anni prima
Quel giorno, la campana rintoccava solenne mentre i raggi di un timido sole brillavano nei riflessi scarlatti del rosone. La pioggia aveva appena smesso di cadere e il legno scolorito della panchina era tutto impregnato. Dall’aiuola di rose bianche saliva l’odore dell’erba. Un rigagnolo sfiorò il marciapiede strappando una foglia d’ippocastano dal ciglio su cui era appollaiata. La barchetta ingiallita dondolò sopra le acque sudicie, si piegò su un lato, poi sull’altro, infine s’aggiustò, pronta a sfidare i flutti qualche metro più giù.
Due occhi azzurri, sotto i fili d’oro della frangetta, accompagnarono il dondolio della foglia fino a un cumulo di sassolini, dove s’incastrò. Allora lo sguardo d’acciaio tornò sulla sagoma del vecchio in piedi sotto la tettoia.
«Quando uscirò?» scandì lento il ragazzo.
«Non lo so.»
«È per quello che ho fatto?»
L’uomo trasse un respiro profondo e non rispose.
«È per quello che ho fatto che non posso uscire?»
Il vecchio assentì e il ragazzo stirò le labbra che formarono una linea. Fissò nuovamente la foglia che girava su se stessa, poi guardò in alto dove volavano piccole nubi d’ovatta. Le seguì per un istante, osservandole sfaldarsi e scivolare lontano.
Continuava a ripeterselo, non aveva colpe se quell’uomo si era trovato nella sua cella quando lui era cambiato. Ma era tutto inutile: ormai era condannato, sarebbe rimasto per sempre tra quelle mura, uscendo di tanto in tanto nel giardino per accrescere la rabbia e il desiderio di libertà.
«Non è giusto», ripeté frustrato.
«È la regola», scattò il religioso mentre una grossa goccia scivolava lungo la corteccia del salice.
«Non è giusto, padre.»
L’uomo si sforzò di tenere salda la voce: «Quando fai quelle brutte cose, tu... Tu non sei tu».
«Io...»
«Mi spiace, ma questa è casa tua», lo interruppe il Padre superiore. «Oggi, e per sempre.»
Quel giorno, un venerdì pomeriggio d’inizio autunno, la percussione del batacchio rintoccò nella pesante sagoma della campana mentre la suonata a rinterzo spargeva la sua voce funesta. Tra le pareti del convento un uomo era morto. Un fratello che, in quell’istante, attraversava la navata centrale della chiesa dopo aver rimesso l’anima a Dio. Nella bara che procedeva verso l’altare, la prima che fosse mai stata sigillata in quei luoghi sacri, c’erano i poveri resti di un essere umano. Le facce pallide dei monaci seguivano il feretro con ciò che restava delle sue spoglie mortali. Qualcuno pensava a quell’anima spazzata via dalla violenza. Qualcuno riviveva gli ultimi attimi, le sbarre della cella serrate dall’interno e il frate solo, là dentro, con quella belva. Loro, fuori, impietriti dal panico, a guardarlo farsi fare a pezzi. Solo il suono lacerante della pelle, l’afrore dei tessuti molli, l’improvviso svelarsi degli intestini strappati, gli occhi rovesciati della belva. E la rabbia che scemava. Posseduto, aveva detto qualcun altro.
Il giovane riportò lo sguardo sul ciglio della stradina: la foglia si era liberata e aveva ripreso a correre, attratta dal vortice nella bocchetta del marciapiede. Inghiottita, sarebbe andata giù, sino al canale di scolo. Se la immaginava, caparbia come un naufrago sulla zattera, la prua col gambo svettante, solcare le minuscole tempeste sotterranee. La vide, scossa dalle increspature del torrente fino all’immensità del mare.
No, lui il mare non lo avrebbe mai visto, pensò osservando la muraglia di pietra scolorita. Era coperta da ventagli d’edera che toccavano la merlatura a coda di rondine. In fondo, il suo mondo era tutto lì. Era casa sua, lo proteggeva da ciò che c’era fuori, come diceva il Padre superiore, e, forse, anche da quello che nascondeva dentro. Crescendo, la sua stanza non si era trasformata in una galassia di libri, giochi e sogni, bensì in un mondo i cui confini non erano che pareti da violare. Finché non l’aveva vista per quello che era davvero: una cella. E se una persona ti tiene in cella, non è un genitore affettuoso, è il tuo carceriere.
L’infanzia era alle spalle e lui era finalmente pronto a uscire. Cosa lo aspettava là fuori? Non aveva mai osato spiare oltre quelle mura. Nemmeno una volta. È pericoloso, gli ripetevano. E lui aveva sempre obbedito. Il mondo esterno era pieno di cose brutte. Il dolore, la malattia. Il peccato.
E poi c’erano i mostri. Il fulcro di ogni paura. L’epicentro della notte, la radice del caos. Il buio senza forma.
Il suo momento però stava arrivando, quegli alti blocchi di pietra non sarebbero stati un problema. Nessuno lo avrebbe più tenuto prigioniero.
Quel giorno, i confratelli carezzavano la superficie grezza della bara, gli occhi ricolmi di timore e di pietà. Ma nessuno dei venti volti contriti nell’ultimo saluto poteva immaginare che quelle non sarebbero state le ultime lacrime versate per causa sua.
Perché la caccia era appena iniziata.
E il cacciatore aveva affilato le armi.