5
Roma, Questura centrale
Nel rione Monti, a due passi da via Nazionale e proprio accanto alla basilica di San Vitale da cui trae nome la strada, si trova la Questura centrale di Roma. I suoi uffici occupano un austero edificio del 1910 in precedenza convento dei padri domenicani.
Quella mattina, una grossa nube circolare sostava sopra il tetto bianco del palazzo. Dalla sua stanza, Vincenzo Gugliotti la osservava con un misto di curiosità e disagio. Il braccio destro era adagiato lungo il fianco, nella mano una copia del Messaggero. Lo sollevò e spiegò il giornale inclinandolo per leggere meglio. L’età avanzava e le diottrie calavano di anno in anno. Inforcò gli occhiali appesi alla catenella dorata e strizzò bene le palpebre.
Era la prima pagina della cronaca locale. La metà superiore era occupata da un articolo sull’incidente della Cristoforo Colombo che aveva ucciso due famiglie. Un suv aveva azzardato un sorpasso e la radice di un pino marittimo aveva fatto il resto. Il mezzo aveva sbandato, superato in volo il guardrail ed era atterrato sull’altra carreggiata impattando contro un’utilitaria che viaggiava in senso contrario. Nella parte inferiore della pagina un trafiletto riportava la scomparsa di alcuni cani nel quartiere Nomentano. Una signora, proprietaria di sei chihuahua, raccontava di averli persi di vista mentre giocavano nel parchetto della città giardino a Montesacro. Secondo un gruppo di animalisti, autori di uno striscione antivivisezione a Porta Pia, i rapimenti erano legati agli esperimenti di una multinazionale farmaceutica che aveva dei laboratori in zona. Gugliotti si produsse in una smorfia di disapprovazione.
Il resto della pagina era dedicato a un pezzo sull’omicidio alla Galleria Borghese. «Terrore al museo» titolava il giornale. Ipotesi sgangherate a parte, la cosa che lo rendeva davvero inquietante per i lettori era quella maledetta foto. Dieci centimetri per lato di un quadrato in bianco e nero in cui comparivano i tre corpi, presi da lontano per fortuna, nella Sala di Psiche. S’intuiva che era una specie di composizione, ma la luce era pessima, era stata scattata da una finestra e il riverbero l’aveva rovinata. Stavolta la fortuna era dalla sua, pensò il questore.
Un colpo di tosse lo sorprese. Si voltò e si ritrovò davanti un uomo basso, i capelli castani arruffati, la giacca marrone, la cravatta di un verde smorto.
«Hanno ritrovato Cristina Angelini», gracchiò Gianni Messina.
Il tono della voce dell’appuntato lasciava pochi dubbi sullo stato in cui avevano rinvenuto la donna. Cazzo, pensò Gugliotti ridestandosi e subito immaginando le scocciature che ne sarebbero seguite. «Quando? E dove?» chiese, ragionando su come gestire la notizia.
«Poco fa, al Bioparco.»
La villetta di Cristina Angelini, figlia del tenore, si trovava su viale Ulisse Aldrovandi al limitare del quartiere Parioli. La donna viveva da sola nella grande casa. Il piano terra era dedicato alla sua professione di cantante lirica. C’era una sala con un pianoforte bianco a coda, degli strumenti ad arco, le pareti e i soffitti insonorizzati, un impianto di registrazione con saletta dietro una vetrata. Al primo piano l’appartamento vero e proprio, l’enorme camera da letto, il bagno di venti metri quadri e una stanza che conteneva libri, riviste meliche e vario materiale musicale.
La villa, immersa tra cedri e pini romani, dava sul versante settentrionale del Bioparco. Al piano terra era tutto a posto, lo stesso per la camera da letto della cantante e per la stanza della musica. Tutto nella norma. Ma quando gli agenti erano entrati nel bagno, ad attenderli avevano trovato una palude rossa e ormai secca. Il pavimento era allagato e il bordo della vasca sporco di sangue come l’acqua che la riempiva fino all’orlo. La sola traccia, a parte le impronte digitali di Cristina Angelini, era la stessa rinvenuta sul prato che le siepi di alloro nascondevano allo sguardo dei curiosi. Dentro e fuori la Scientifica aveva ritrovato le impronte di due scarpe numero 43, dalla suola perfettamente liscia. Fino a quel momento non erano riusciti a risalire alla marca e al modello.
Particolari macabri che il questore conosceva perché, giorni prima, in seguito all’allarme lanciato dal padre che l’aveva chiamata da New York senza ricevere risposta, la polizia aveva fatto irruzione nel giardino della residenza trovando il portone d’ingresso aperto.
«Chi l’ha scoperta?»
«Uno dei guardiani», rispose l’appuntato, cercando il cognome dell’uomo tra le righe confuse del fax.
Gugliotti gettò la copia del Messaggero sulla scrivania. «Hanno già mandato qualcuno?»
L’appuntato sollevò il foglio, rilesse mentalmente e proseguì: «Ci sono due ispettori del commissariato Salario-Parioli sul posto e a quest’ora dovrebbe essere arrivata la Scientifica».
Gugliotti sapeva di dover informare personalmente il padre della giovane, il tenore Mario Angelini, prima che la notizia gli arrivasse da terze parti, magari con qualche bella foto del cadavere. «Chiuda l’accesso all’area. Telefoni immediatamente al direttore del parco. Nessuno si deve avvicinare.»
Gugliotti fissò Messina, gli occhi grandi dietro le lenti spesse, e colse l’imbarazzo sulla fronte corrugata. Gli strappò il fax di mano e puntò lo sguardo sull’immagine in bianco e nero. Sullo sfondo grigio e sgranato compariva una specie di rilievo di cartone. Era l’iceberg della vecchia vasca degli orsi polari, abbandonata da anni. Al centro della vasca si intravedeva un corpo. Anche questa foto era sgranata. Considerata la stazza e la massa di capelli biondi, il cadavere poteva essere quello di Cristina Angelini.
«Chi te l’ha data?»
La faccia imbarazzata dell’appuntato conteneva la risposta alle paure del questore.
«Uno dei nostri?» urlò ancora Gugliotti.
Messina allungò il collo taurino e spostò l’indice sulla parte superiore del foglio dove era riportata una scritta: ansa.it.
«Com’è possibile? Dopo quella alla Galleria Borghese, poi!»
«Non so, dottore.»
Le scuse del sottoposto si persero nell’aria, Gugliotti già pensava ad altro. Pensava ai due delitti temporalmente così vicini. E alla loro prossimità spaziale. Non era un caso che ci fossero solo quattrocento metri tra la Galleria Borghese e il Giardino zoologico, tra il giardiniere e i suoi figli e la povera Cristina Angelini. Non c’era dubbio, avrebbe dovuto giocarsi bene le sue carte.
«Come non detto, Messina. Chiama il commissario Mancini. È necessario un altro sopralluogo.»
«Subito, dottore.»
Nonostante tutto, Gugliotti sapeva che Mancini era l’unico capace di accedere alla scena del crimine e di individuare elementi che nessun altro era in grado di notare. Almeno era stato così fino alla morte della moglie. Chissà se sarebbe stato di nuovo capace di fare la differenza. Alla Galleria Borghese lo aveva visto assente, si era presentato solo per una specie di senso del dovere. Avrebbe potuto affidare tutto a qualcun altro, ce n’erano di giovani scalpitanti, nella sua testa un giorno non troppo distante uno di loro avrebbe dovuto prendere il posto di Mancini, ma in quel momento non se la sentiva di mettere qualcuno alla prova su un caso che si stava rivelando più truce e mediaticamente pericoloso di quanto aveva pensato. No, non poteva permettersi altri errori. E poi, non era detto che non avrebbe potuto trarne comunque un profitto, in un modo o nell’altro.
«Messina, aspetta, portami le foto della Galleria Borghese, prima voglio fare una telefonata.»