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Roma, Monteverde
Giulia Foderà era immersa nella penombra di una stanza al primo piano di un villino a Monteverde. Era a casa della madre dove ogni tanto si rintanava, soprattutto quando la donna era assente per uno dei suoi viaggi intorno al mondo. Dopo il divorzio, i suoi genitori si erano persi di vista. All’inizio Giulia si era domandata perché una coppia che aveva resistito crescendo una figlia, affrontando brillantemente le rispettive carriere – lui avvocato penalista del foro romano, lei proprietaria di un negozio d’alta moda nel quartiere –, e sopravvivendo a vari tradimenti reciproci, alla fine avesse ceduto. Poi aveva capito: la noia, la paura del vuoto che li aveva assaliti quand’erano andati in pensione. Suo padre viveva da anni in una villa all’Olgiata e sua madre aveva tenuto per sé quel villino in via Ugo Bassi, in un quartiere, Monteverde, che Giulia amava più di Trastevere, dove abitava col figlio. Quel giorno Marco era a lezione di musica e sarebbe rincasato nel tardo pomeriggio con la tata.
Giulia aveva accostato le persiane per riposare gli occhi gonfi e provare a smettere di pensare a quanto era successo. Quel turbine d’immagini però non le dava tregua, e lei tentava di isolarle per analizzare, com’era sua abitudine, ogni singolo problema. Il dolore e il rimorso che provava facevano la voce grossa e avevano già preso la ribalta. Dipendeva da lei se Carlo Biga si trovava in un letto d’ospedale quasi senza speranza? Era colpa sua se Enrico lo aveva lasciato alla mercé dello Scultore per raggiungerla? Infine la domanda più dolorosa: era colpa sua se Enrico si era allontanato e adesso era scomparso?
Era tornata a casa della madre anche, anzi, soprattutto per quello che ora le sembrava solo una sciocchezza. Le mancava il profumo. L’odore esatto di quella casa che negli anni era rimasto simile a se stesso, come un vecchio inquilino. Certo, nell’ultimo periodo si erano aggiunti la naftalina nell’armadio invernale e un deodorante per ambienti al gelsomino indiano, passione che la mamma aveva riportato dall’ultima vacanza. Ma nella sua cameretta – quella di bambina e adolescente, quella che era cambiata attorno a lei, insieme a lei, dal rosa al rosso sulle pareti, dal letto a castello dove giocava da sola a fare Jane, in attesa di un fratellino che non sarebbe mai arrivato –, nel letto singolo con la coperta ricamata, c’erano ancora quel profumo d’infanzia, le lenzuola che odoravano di detersivo, la moquette chiara e i capelli della bambola che sapevano di dolce.
Tra quelle mura, Giulia riusciva a materializzare le sensazioni più intime, vivificando ricordi lontanissimi e innescando una docile nostalgia in cui le piaceva indugiare. La cera dei pastelli colorati, i pennarelli e le mani tutte pitturate sul tavolo della cucina dove la mamma le preparava il suo «cavallo di battaglia», la fettina di carne in padella. E, ancora, il profumo di fragola del quaderno preferito e quello dei libri nuovi il primo giorno di scuola. Stavolta la sottile malinconia che era tornata a cercare e i ricordi che voleva rivivere non erano quelli di sempre. Inspirò cercando la leggerezza di quell’infanzia, di quegli anni sbiaditi, senza riuscirci. Quella leggerezza non esisteva, non era mai esistita, se non nella prospettiva della memoria.
Adesso, quelle essenze emotive erano state sostituite dall’odore pungente di due corpi adulti. Volse la testa sul cuscino e immerse il naso nella federa. Lo vide di nuovo, attaccato al suo corpo come un serpente che divorava la preda rassegnata. Vorace e dolcissimo, come nessuno prima di lui. Il pensiero che quella sarebbe stata l’ultima volta le spezzò il fiato e le guance si sollevarono pronte a ricevere le ennesime lacrime di quei giorni. Il ricordo fresco di quegli occhi persi nei suoi, occhi feriti, di un bambino smarrito e a tratti di un uomo feroce. Avrebbe voluto perdersi dentro quei pezzi di carbone, assaporarne il tepore. Le iridi incastonate dentro a due tagli che dal naso regolare salivano verso le tempie, simili a quelli di un felino, ma più grandi, e lucenti come l’onice. La bocca l’aveva morsa, mangiata, e quella le aveva sussurrato parole acuminate come aghi che le erano penetrati nelle vene.
Il freddo improvviso che l’aveva colta nel sonno, quando lui l’aveva lasciata addormentata, cullata dall’abbraccio del piumone, era identico alla sensazione che Giulia aveva percepito quando lo aveva rivisto a casa del professore. Quando lo aveva abbracciato, di fronte al corpo quasi esanime di Biga, aveva percepito una freddezza che sperava fosse scomparsa. Un velo sottile ma resistente li separava in quell’abbraccio, una pellicola invisibile allo sguardo, fatta di ghiaccio. Aveva sentito l’imbarazzo prima e l’accusa, implicita, poi. Perché Enrico non glielo aveva mai detto: mi hai allontanato da lui. È colpa tua.
Dov’era finito il calore vitale di quella notte, l’energia pulsante che l’aveva risvegliata dal torpore a cui si era condannata? Non voleva credere che l’avesse usata, non dopo quello che lui aveva passato. Non poteva essere solamente uno sfogo, uno sfizio. No, lui non era così e tutto quello che era successo in quei mesi – le uscite di nascosto dai colleghi, l’imbarazzo di un primo bacio sfuggito al controllo della severità di Enrico, proprio sulla panchina sotto quella casa, come due ragazzini, il pub a Montesacro dove era stata costretta a entrare per vederlo bere per ore – non poteva essere un caso. Ma allora dov’era l’uomo di cui si era innamorata e al cui fantasma non riusciva a sottrarsi? D’un tratto, la sua vita sino ad allora le parve piatta, una linea costellata di puntini insignificanti, gli studi, la carriera da pm, l’ex fidanzato. Tutto, tranne Marco, era un grande bluff. E lei? Aveva sempre finto, vissuto per gli altri, per quello che si aspettavano da lei, per non deludere mamma e papà, per accontentare l’uomo che l’aveva lasciata, per non essere da meno tra i colleghi, per non fare mancare nulla a suo figlio. Ora, sdraiata sopra le coperte della sua vecchia camera, si sentiva stanca e pesante come se il corpo sprofondasse in quelle coltri antiche schiacciato dal peso delle aspettative, dei doveri, del passato.
Tutto quanto le sembrava dissiparsi in una nebbia di ricordi da cui riemergevano, confusi, i profumi di un mondo scomparso insieme alla sua giovinezza. Presto anche quei ricordi si sarebbero polverizzati.
Si sollevò e abbracciò il cuscino per sfuggire a quella sensazione di vuoto e d’incertezza. Scese dal letto e si diresse alla mensola rossa accanto alla finestra, proprio sopra la scrivania dello stesso colore. Lasciò che la mano sottile scivolasse nel cestino di vimini. E lo trovò subito.
Con la meraviglia sulle labbra, Giulia ripescò il suo diario di quinta elementare. Era rosa, gli ultimi vezzi di un’infanzia prossima alla fine, pensò, con uno specchietto a forma di cuore al centro della copertina. Si mise a sedere sulla sedia e accese l’abat-jour a forma di fiore. Sapeva perché era andata a prenderlo, ma voleva una conferma. Lo aprì alla pagina con i dati del proprietario e si scoprì a sorridere alla scrittura ancora esitante, in cerca dell’angolazione esatta, della rotonda sicurezza del tratto che avrebbe raggiunto, lo rammentava perfettamente, parecchio dopo il liceo.
Nello spazio sotto l’indirizzo di casa, il nome dell’animale domestico, il gatto Zanna, e l’hobby, scrivere, compariva la firma di suo padre: Marco Foderà. Non era per qualcosa di ufficiale, per i docenti o per il direttore. No. Subito sopra la firma, infatti, c’erano le parole che Giulia stava cercando.
Leggi, studia, impara. Sii solida e libera.
E tieni sempre la tua vita tra le mani, amore mio.
Aveva mantenuto quella promessa con suo padre. Era sempre stata solida, libera, con le redini della propria esistenza strette tra le mani. E così sarebbe stata di nuovo. Odiava quell’immagine di se stessa, fragile, che aveva assunto e in cui stava indugiando. Non avrebbe tollerato un altro momento di sconforto.
E si sarebbe ripresa ciò che le spettava di diritto.