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Stasera il professore ha freddo. Si sente stanco. Ma trova la forza per sollevarsi dalla poltrona buttandosi un po’ in avanti col busto per darsi lo slancio. I menischi stridono. Si alza e insacca la mano paffuta nella tasca del pullover agitandola a casaccio, le dita arrancano finché non afferrano il metallo. Enrico se n’è andato da poco e lui è ripiombato nella sua depressione. Sa di essere depresso, non c’è altra parola e nemmeno se ne vergogna. Non lavora più, i colleghi dell’università non lo chiamano più, tra gli studenti sono rimasti in pochi a venirlo a trovare. Riempie le ore vuote della sera leggendo e bevendo, fino alla soglia del letto dove abbandona per qualche ora la povera coscienza del suo nulla.
Le chiavi sono due. Identiche. Aprono la stessa serratura. Avrebbe dovuto separarle dall’anellino che le tiene insieme e metterne una al sicuro, da qualche parte, ma non ha voglia di farlo e anche questo lo getta nello sconforto. Posa la busta nera dell’enoteca vicino al pannello di noce nel cuore della sua biblioteca. Infila la chiave nella serratura mimetizzata nella scena di caccia affrescata. Il punto esatto del meccanismo è nascosto dal grilletto del fucile puntato in alto, contro un volo d’anatre in fuga. Il cacciatore le scruta con lo sguardo soddisfatto di chi sa di essere in vantaggio.
Da qualche parte nella casa, una lampadina scoppia e un altro pensiero fosco gli mozza il fiato. Nemmeno quello riesce più a fare. La donna ha comprato quelle nuove a led ma lui sulla scala non ci può salire. La signora non ci arriva, tanto sono alti i soffitti della villetta. Ecco, non sa più neppure sostituire una lampadina. Scuote la testa e saggia la serratura con la punta del medio. La mano trema un po’, poi trova il buco. Il ferro gira nella toppa per quattro volte e le ante si schiudono svelando decine di bottiglie pregiate: sono la sua assicurazione, il suo tesoro nascosto. Oggi aggiunge due whiskey scozzesi costosi. Ma la pensione se la spende come gli pare, e poi non ha figli né nipoti a cui fare regali inutili. Compra vini, superalcolici e libri. Mette al sicuro le nuove compagne, ne accarezza i colli ambrati e richiude il suo secrétaire spirituale.
Deve essergli venuta la febbre perché stamattina è uscito e ha preso la pioggia. A passo lento raggiunge il camino, dove la fiamma langue. Benedice Enrico che ha preso la legna e butta dentro un ciocco e una pigna secca che avvampano scoppiettando. Va al mappamondo di ciliegio dove tiene le bottiglie aperte e si versa un altro mezzo bicchiere. Si lascia andare sul divano e perde una pantofola. Bofonchia e accende il vecchio Phonola tre canali in bianco e nero che ancora non si è deciso a sostituire. Dalla piccola libreria l’apparecchio emana la sua luce opaca che scivola fino ai suoi piedi.
L’inverno è nel suo pieno ma Carlo Biga non ricorda di aver mai sentito tanto freddo. Vorrà dire che stasera si concederà un paio di viaggi attorno al suo mappamondo, scherza tra sé e sé. È arrivato alla soglia dei settantacinque anni e il peso ha continuato ad aumentare insieme alla pressione. L’alcol, insomma, non gli fa mica bene. Ma chissenefrega. Si gratta i due cespugli che crescono sopra le orecchie. Prima, andava dal barbiere a farsi dare una ripulita una volta alla settimana. Ora è un mese che esce di casa solo per arrivare all’enoteca, dal piccolo salumiere all’angolo dove compra speck e sottaceti, perché ha smesso anche di cucinare quei sughetti ricchi e saporiti che Enrico apprezzava tanto.
Sospira, gli occhi umidi di nostalgia. Alla lezione e al briefing al laboratorio autoptico invece ci è andato. Ha vinto l’inerzia perché voleva ascoltarlo, godere di quello che in parte sentiva come un merito suo: il successo del commissario Mancini. In un certo senso sente di averlo cresciuto. Non come un figlio, non ne sarebbe stato capace. Ma come il figlio del suo amico, Franco Mancini. E come il suo allievo più brillante e sensibile. Perché quel lavoro, lui ne è convinto, non si può fare solo con la testa. Ora gli sembra che quel ragazzo – perché per lui è sempre un ragazzo – sia sulla strada buona se non per dimenticare almeno per risalire la china del dolore e provare a vivere il presente. Abbandonare le voci dei fantasmi. Buffo che proprio lui lo pensi, lui che con i suoi fantasmi continua a dialogare da tanti, troppi, anni.
Il professore butta giù un bel sorso che riscalda il palato, la faringe, l’esofago e trova pace nello stomaco. Nella cesta di vimini accanto al caminetto c’è Sampa. Il gatto ronfa di gusto mentre fuori il giardino tace avvolto dalla fredda nebulosa d’umidità. I cipressi e le pareti coperte d’edera sembrano di marmo e, dopo la cura a base di solfato di alluminio, le ortensie sono pronte per virare all’azzurro in primavera. Il cachi sostiene gli ultimi frutti e il prato è coperto da un tappeto giallo e marrone di foglie.
Le siepi attorno alla villetta rigurgitano un corpo vivo.
Quello del cacciatore di mostri.