52
Provincia di Latina, Villa Cesira
L’uomo che mesi prima aveva ammazzato brutalmente sei persone, nel compimento del suo piano criminoso, sollevò una mano mostrando la pelle incartapecorita. Poi l’adagiò sul bracciolo. «Vorrei solo che passasse velocemente.»
«Il dolore?»
«No. A quello ci pensano i farmaci.» Fece un cenno con la testa verso il letto. Le flebo di antidolorifico lo aspettavano per una terapia che sarebbe continuata vita natural durante.
«Se ti riferisci al tempo... Qui ci resterai per sempre.»
«Vorrei solo che passasse presto, questa vita.»
I quattro occhi fissavano lo stesso punto fuori della finestra. Il vento aveva iniziato a soffiare e gli eucalipti erano scossi da vigorose folate che ne piegavano le chiome. Oltre quelle cime, la linea irregolare degli Appennini sembrava il profilo sbiadito di un paesaggista su cui un grosso rapace cavalcava l’onda dell’aria come un surfista. Ogni tanto lanciava un’occhiata in basso. A scatti muoveva il capo che pareva svitarsi dal corpo. Improvvisamente chiuse le ali e si lasciò precipitare, attratto dall’incauta mossa di una bestia.
Quando scomparve tra le fronde di un pino, Oscar concluse con la voce rotta: «La mia vita».
Mancini fece un passo ancora, affiancando l’uomo sulla sedia, che non si mosse. La testa era chiazzata di buchi che i capelli lunghi non riuscivano a coprire del tutto. Il naso era consumato e la pelle del viso era di un rosa acceso.
«Lei mi ha tradito, commissario Mancini. Io avevo scelto lei, ma lei mi ha tradito. Il mio testimone ha tradito la mia grande giustizia.»
Il volto ruotò e gli occhi stretti tra le palpebre glabre lo cercarono. Anche le sopracciglia erano ridotte a due sparuti ciuffi di pelo. Di colpo Mancini se lo rivide davanti, rasato, e l’altro sembrò cogliere il pensiero. «Non è la stessa cosa.»
L’assassino muoveva le labbra come se fossero gusci di una noce secca, le mani come foglie ingiallite, la faccia come un enorme mollusco avvizzito. Per la prima volta da quando tutto era successo, Mancini avvertì una morsa di responsabilità. Si sentì responsabile di averlo salvato da quella maledetta cantina in fiamme. Paradossalmente colpevole di avergli evitato una morte orribile condannandolo a una salvezza che lo aveva ridotto a... quella cosa persa dentro a chissà quali sofferenze.
Cristo, perché era lì?
Anche stavolta il pensiero parve attraversare l’aria che li separava. «Commissario, mi dica perché è venuto.»
Come un soffio scivolò fuori, inattesa a entrambi, la risposta: «Perché ho avuto paura».
Il sole cadeva pigro tra le fronde e i rilievi lontani. Il giallo s’era fatto arancio e anche il rapace era tornato al suo nido di roccia.
«L’avevo capito.»
Mancini provò a sorridere, ma le due parole vennero fuori senza vigore: «Da cosa?»
Gli occhi dell’assassino seriale conosciuto come l’Ombra si abbassarono piano sulla sinistra. Come un ragazzino colto in fallo, il commissario nascose in fretta le mani dietro la schiena, in un gesto tanto istintivo quanto vergognoso. I guanti di Marisa vestivano nuovamente le mani di Enrico Mancini.
«So che i colloqui con gli psichiatri vanno bene», glissò il poliziotto che fremeva, stretto tra la voglia di dimostrargli – già, di dimostrare proprio a quell’uomo – che adesso lui era diverso, e la consapevolezza che il nuovo contatto con la pelle morta dei guanti lo faceva sentire bene, protetto.
«Già, pare che ci stiano ripensando e presto potrei passare a uno dei piani di sotto. Dove si trovano gli ’ospiti non pericolosi’.»
«La psichiatra dice che un serial killer che parla di se stesso con la tua perizia psicologica, conscio come sei di quello che hai fatto, non richiederebbe la libertà condizionata.»
«Non lo farò, commissario.»
«Lo sai che ti tratterranno qui.»
«So che il tempo e lo spazio per me iniziano e finiscono qui dentro. Ma non mi importa, non voglio tornare nel mondo. Forse mi faranno uscire a passeggiare, magari sorvegliato. Ecco, mi piacerebbe andare laggiù», disse indicando un punto oltre il giardino.
C’era un canale che attraversava la strada di breccia e scompariva nel fitto del bosco. In lontananza, quel corso d’acqua sudicia sfociava nel blu scuro del Tirreno. Anche la casa di Oscar era vicina alla costa, e un tuffo al cuore sorprese Mancini a dispiacersi che quell’assassino non potesse più tornare a vedere il mare, magari a posare un fiore sulla tomba della madre sepolta nel giardino di casa.
«La sente ancora?»
Mancini si era smarrito tra le nebbie di quei ricordi. «Cosa?»
«La sua voce.»
Il commissario chinò la testa per osservare l’uomo alla sua destra. La sagoma sembrava tutt’uno con la sedia.
«La sente ancora?» ripeté.
«L’ho dimenticata.»
«Anche lei, allora.»
La ferita riprese a bruciare, la cicatrice della memoria stillava di un dolore consapevole, ma inconfessabile sino ad allora. Eccolo, pensò Enrico, l’effetto specchio per cui era venuto. Eccomi solo di fronte alla paura. Poi, lasciò che le parole fluissero da sole: «Non voglio, io... non voglio lasciarla andare, non posso, non devo scordare niente di lei».
Invece era esattamente ciò che stava accadendo, la vita era più forte e, come una cagna con la scopa legata alla coda, spazzava via le tracce dei passi trascorsi. «La cerco, a volte, in fondo alla memoria. Ma non è che un’eco lontana, un’impressione di cui non sono nemmeno sicuro.»
Oscar si inumidì le labbra secche e tossì. «La prima cosa a scomparire dalla memoria sono i suoni, il timbro delle voci che non si ascoltano più. Restano gli odori, le figure in movimento, ma se guardo una sua foto è come se la donna nella mia memoria, nel mio cuore, non coincidesse con quell’immagine.»
Una serie di bassi lampioni a sfera si accese ticchettando giù nel giardino. Entro mezz’ora tutti gli ospiti della struttura avrebbero dovuto spegnere le luci nelle stanze. Il cielo ancora non s’era incupito e la brezza aveva smesso di scuotere il largo fogliame degli eucalipti.
«Si dice che le persone scomparse restino con noi, che vivano in una dimensione contigua alla nostra, invisibili ma presenti. In questo posto inutile io ho avuto la possibilità di scoprire che non è così. La verità è che quando qualcuno se ne va, quando lo perdiamo per sempre, che sia la peggiore delle morti o il più banale degli incidenti a portarcelo via, qui dentro», posò il pugno sullo sterno, «si forma un vuoto. E man mano che andiamo avanti quello spazio si dilata ed è come se si riempisse. Di fantasmi. Fantasmi che ci abitano. E che ci parlano, commissario, da un passato in cui erano fatti di carne. Ci parlano e le loro parole producono echi che restano in sospensione dentro di noi.»
Oscar avvicinò l’altra mano al petto mimando una bolla che si gonfiava. Quando le lacrime riempirono anche il vuoto dei suoi occhi, riprese: «Tutti noi, commissario, viviamo la vita come una risposta a queste parole, tutti viviamo per allontanarci da quegli spettri, dalle loro voci perenni. Oppure, inseguendone i ricordi».
Scoppiò a ridere, all’improvviso, forte, e Mancini riconobbe la voce folle di dolore in quell’invocazione maledetta contro il cielo.
Poi si spense.
E tornò il silenzio.
Oscar si spostò per guardare la foto nella cornice sul secondo comodino vicino al letto. Lo fece con grande fatica e gli costò due forti colpi di tosse. Sulla superficie bianca Mancini scorse il viso di una donna sulla trentina. Sorrideva, il volto morbido sotto una cascata di capelli castani, gli occhi marroni con qualche screziatura di verde.
«Non ho che quella foto, commissario. Io non uscirò più, ma se lei, o qualcuno, potesse farlo per me... Se poteste recuperare del materiale dalle cose che avete portato via dalla mia casa...»
Qualcosa luccicò lontano, sulla linea del mare, e una lacrima bagnò il dorso della mano di Oscar.
«La prego, commissario.»
Il tono della voce era quello di un bambino che implora la mamma per una carezza, un gesto d’affetto. In quegli occhi si specchiava l’ultimo sospiro del sole quasi al tramonto, il riflesso di un mondo che declinava inesorabile, l’arancio che si sfaldava nel marrone.
«Te lo prometto.»
Gli occhi resi inespressivi dalle bruciature brillarono di un’intensità fortissima. Tossì forte, poi tirò un sospiro e si asciugò la fronte sudata. Fece cenno di accompagnarlo al letto e Mancini eseguì, trovando scomoda la manovra con la sedia a rotelle. Oscar prese dal cassetto un flacone e ingerì due capsule, senz’acqua.
«Vedo che avete un problema», riprese indicando il televisore in alto.
Sul piccolo schermo si susseguivano le immagini del quartiere di Montesacro e della villetta del professor Biga ripresa dall’esterno. Per alcuni secondi, il commissario rimase a fissare il cancello familiare della casa, poi prese a leggere le notizie che scorrevano in sovrimpressione. Raccontavano dell’ultima opera dello Scultore, mentre il viso del professore compariva sul lato sinistro dell’inquadratura.
«È morto?»
«Ancora no.» La risposta giunse priva di qualunque accento di affetto, o di pietà.
«Deve trovarlo, commissario. Come ha fatto con me.»
«Sai che non è andata così.»
«Perché è venuto? Perché non è là fuori, a caccia?»
«Ti ho risposto, Oscar.»
La paura lo aveva bloccato. La paura di fallire, di non essere più se stesso. L’imponderabile lo confondeva sottraendo parametri, punti di riferimento a cui aggrapparsi per sapere chi fosse e cosa fosse ancora in grado di fare. Nella vita, come uomo, nel suo lavoro, per salvare persone e assicurare criminali alla giustizia. Era la seconda volta che accadeva, che perdeva tutto quello su cui aveva costruito le sue certezze. Proprio mentre si stava rialzando dalla prima drammatica sconfitta era arrivato il secondo colpo.
«Con te ho fallito. Non voglio che accada di nuovo.»
«Deve salvarli.»
«Non sei nella posizione di dirmelo.»
Oscar si puntò con i gomiti sui braccioli e si sporse alzando la voce. «Io non ho mai voluto vendetta, commissario. Io ho reso giustizia a mia madre, e lei, commissario, ha interrotto quella giustizia salvandomi la vita e condannandomi...» Si guardò i palmi delle mani, le linee divorate dal fuoco. «... a questo. Io dovevo morire! E lei doveva essere l’uomo giusto. Ora lei deve salvarli.»
«Io non posso salvare nessuno. E hai ragione, non dovevo salvare nemmeno te.» Il suo primo fallimento era proprio lì, su quella sedia a rotelle, a ricordarglielo.
Sullo schermo scorrevano le foto delle vittime dei primi tre omicidi rituali. I corpi disposti nelle loro pose plastiche. La stampa era arrivata al cuore dell’indagine e ora avrebbe fatto a pezzi tutti, a partire dal questore.
«Fermi quell’uomo. Lui non è come me. Non cerca giustizia. Nemmeno vendetta.»
«Anche lui, come te allora, sta raccontando una storia. La sua storia.»
Oscar lo osservò e scosse la testa maculata, accennò un sorriso che fece presto a trasformarsi in una smorfia. «No, commissario. Lui non racconta la sua storia. Racconta la sua favola. Insegue le sue paure. E uccide i suoi fantasmi.»