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Roma, ospedale San Camillo
Antonio uscì dal taxi e tenne la portiera aperta per Alexandra che lo ringraziò con un sorriso complice. Non poteva essere vero, si ripeteva a ogni gesto affettuoso che lei gli offriva.
La notte trascorsa insieme conservava il sapore dell’occasione, del brivido, dell’avventura, ma la mattina dopo era stata differente dal solito. Che fossero post sbronza o post erba le sue serate finivano inevitabilmente con un risveglio traumatico, la colazione e la fuga di uno dei due attori in scena, a seconda di chi fosse ospite dell’altro. Antonio non voleva confessarlo a se stesso e non voleva, soprattutto, abbandonarsi a quell’emozione spontanea. La tratteneva, convinto che non fosse saggio lasciarla esplodere come sarebbe successo se avesse allentato i lacci del buonsenso e a ogni passo attendeva che Alexandra facesse qualcosa che rivelasse la sua vera natura, qualcosa che lo allontanasse o lo facesse demordere. Ma la realtà stavolta sembrava diversa e anche lui se ne stava convincendo. Era una donna semplice e dolcissima. Bella e divertente.
Pagò il tassista e la raggiunse sul marciapiede di fronte al San Camillo. Lei indossava una mantellina color ruggine sopra un paio di pantaloni verdi, aveva i capelli luminosi e spettinati, come sempre.
«Come stai, Antonio?» chiese Andrea Rinoni, l’aiuto di Terapia intensiva.
«Com’è che l’hanno portato qui?» Rocchi si riferiva al custode della Galleria Borghese, Bruno Calisi.
«Il Policlinico quella sera aveva una bella fila al pronto soccorso e ce l’hanno spedito qua.»
«Come sta?»
«Ha il cranio incrinato. Lo stanno monitorando. Ma si è risvegliato e parla. Non so se ricorda qualcosa di quello che gli è successo. Secondo me, non sa nemmeno dove si trovava quando ha perso i sensi. Ha una forte commozione cerebrale.»
«Dici che parla?» domandò Rocchi mentre la dottoressa Nigro sbirciava oltre il vetro.
«Sì, ma nessun discorso di senso compiuto, almeno per quello che ne capiamo noi qui. Però adesso entrate. Cinque minuti, poi io stacco e non potete restare senza di me. Sai che qui ci sono regole diverse dal resto dei reparti.»
«Certo», rispose Rocchi indicando il lavandino ad Alexandra.
Si lavarono le mani fino ai gomiti e indossarono guanti sterili e delle sottili mascherine che coprivano solo la bocca. Tolsero la suoneria ai cellulari ed entrarono sotto lo sguardo del medico.
Le attrezzature per il sostegno delle funzioni vitali del paziente rumoreggiavano, e Alexandra ne sembrava turbata intanto che avanzava verso il letto.
«Salve, Bruno», disse a bassa voce Antonio, mantenendo mezzo metro tra sé e il bordo del letto.
L’uomo sdraiato annuì. Aveva la testa fasciata e la mascella tumefatta. L’arcata sopraccigliare sinistra era gonfia e di un colore giallonero.
Rocchi si volse a indicare Alexandra e disse: «Siamo qui per farle qualche domanda. Se se la sente».
Bruno Calisi annuì ancora ed emise un sussurro che parve un «sì».
«Quella notte, quando è stato aggredito alla Galleria Borghese. Cosa ricorda?» chiese Antonio mentre lei gli si accostava.
L’uomo lasciò rimbalzare lo sguardo tra i due e poi lo abbassò sulle lenzuola. Il ticchettio delle macchine riempiva la stanza di suoni elettronici.
«C’era un rumore. Ero salito nella Sala di Psiche», iniziò, con la gola dolente. Era stato intubato fino alla notte prima, aveva detto Rinoni. «E poi ho visto quella cosa in mezzo alla stanza. Era orribile. Ma non come quegli...»
Bruno Calisi s’interruppe e tossì portando le mani alla gola. Poi al petto. Rocchi guardò fuori dal vetro, dove il medico che li osservava gli fece cenno di continuare. Poi con le dita segnò tre. Altri tre minuti.
Ma quando il custode della Galleria Borghese si riprese aveva gli occhi sbarrati. Stava soffocando? Rocchi chiamò Rinoni che entrò velocemente, mise una mano sul ventre di Bruno Calisi per tranquillizzarlo mentre controllava i parametri vitali sulle macchine. Non c’era niente di anomalo. Prese la pila dal taschino del camice, la accese e la puntò nelle pupille del paziente. Erano dilatate e fissavano qualcosa. Il medico si scostò per seguire la direzione dello sguardo. Ma in piedi, di fronte agli occhi di Bruno Calisi, c’era solamente Alexandra Nigro.
La grande casa del professore era circondata da un giardino curato, con una fontana davanti al cancello. Il citofono in ottone era sulla colonna dietro la quale spingeva la siepe di bosso.
Ora la villa era vuota e le notizie che giravano nel quartiere lo davano quasi per morto. Erano le voci che raccontavano che Carlo Biga era in fin di vita e ricordavano il giovane criminologo alle prese con l’indagine sull’assassino delle prostitute a Roma nei mesi successivi alla legge Merlin. Le stesse voci sostenevano che, nel migliore dei casi, il professore sarebbe rimasto un vegetale.
La chiave scattò nella serratura e fece quattro giri. Quando la porta si aprì, Mancini passò tra le maglie dei nastri della polizia ed entrò. Per terra, i segni del passaggio della Scientifica: i cartellini e le chiazze di polvere d’alluminio per il rilevamento delle impronte sul pavimento e sul divano. Non doveva indugiare, non avrebbe fatto altro che quello per cui era venuto. La prognosi era ancora riservata, ma qualunque fosse stato il responso per il professor Biga – una vita spezzata o immiserita –, Enrico gli doveva almeno quello: concludere il percorso che avevano cominciato insieme.
Aveva una copia di tutte le chiavi della villetta del professore, gliele aveva date lui quand’era andato in pensione, perché non si può mai sapere, aveva bofonchiato, vergognandosi di quel gesto intimo e rivelatore.
Si avvicinò al piccolo scrittoio dove avevano iniziato a discutere dell’abbozzo del profilo psicologico dello Scultore. Afferrò libri e taccuino e si sbrigò a uscire. Chiuse la porta della villetta e si allontanò domandandosi se ci sarebbe mai più rientrato con il suo maestro.