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Roma, sottosuolo

Caterina guardò il telefonino che vibrava per un messaggio di Walter. «Vieni dal professore? Me lo ha chiesto il commissario! Tra un’ora lì!»

Il testo era seguito da due smile e un cuore. Comello le aveva taciuto l’incidente della sera prima con lo Scultore e Caterina rifiutò la chiamata, infilò in tasca il cellulare e continuò a camminare lungo quel cunicolo per la seconda volta in pochi giorni. Stavolta aveva la pistola nella fondina. Non per paura del mostro che stava terrorizzando la città ma per la certezza di incontrare i suoi piccoli mostri in quell’incubo sotterraneo.

Si era presa un periodo di malattia, ma nel suo appartamento non riusciva a starci e da Walter non si sentiva a casa. Era irrequieta, frastornata. Sentiva il bisogno di colmare quel nuovo vuoto, di ritrovare quel ragazzino a cui, non c’era più dubbio ormai, era legata da un affetto viscerale.

Comello aveva cercato di coinvolgerla, come dimostrava anche quel messaggio. Lei sapeva di dover rispondere per non farlo preoccupare, e lo avrebbe fatto, ma più tardi. Anzi, lo avrebbe raggiunto dal professore appena finito lì sotto. Aveva deciso di affrontare da sola la paura di quei luoghi, di quelle creature schifose che li abitavano, per cercare un segno di Niko. Lo aveva perso, si era dileguato senza lasciare traccia. Nei giorni precedenti aveva provato a ricostruire i suoi spostamenti, ma nessuno, nemmeno i ragazzini che si vendevano tra le bancarelle dei Remainders, sembrava averlo visto. Non le era rimasta che quell’alternativa: tornare nel labirinto fognario, sperando di recuperare un indizio. Aveva raggiunto la bocca del pozzo in cui era caduta ed era rimasta a fissarlo, rivedendosi annaspare tra i topi come in un film. Sul bordo c’erano ancora i segni delle dita di quando si era tirata su, aiutata dal ragazzino. Sul fondo c’erano finite tutte le sue cose.

Imboccò il corridoio con la grande grata che dava sulla scena del crimine. La cupa monocromia dell’ambiente era rotta dalle strisce di nastro biancorosso della Scientifica che chiudevano l’accesso alla camera del Minotauro. Aveva portato una lampada a led telescopica che illuminava quasi a giorno e questo in parte la tranquillizzava. Nell’ambiente dove era stata ritrovata la vittima c’erano metri di nastro e cartelli gialli numerati a indicare il passaggio delle tute bianche. Fece un giro esplorando le pareti e il pavimento dove il fango s’era seccato. Poi si diresse nuovamente all’entrata, dove aveva intravisto un altro corridoio che proseguiva dritto verso sud, come le suggeriva il suo orologio da training. Era lungo, tanto che la lampada non riusciva a illuminarlo sino in fondo. La puntò in basso per sincerarsi che nulla vi camminasse e riconobbe una serie di gocce di sangue. Erano secche, di forma appena allungata. Chi lo aveva perso stava correndo. Forse scappando.

La paura che fosse il sangue di Niko la fece accelerare. Le macchioline rosse si diradavano lungo il percorso. Camminò per un quarto d’ora nel tunnel che s’era allargato sino a tre metri e sboccava nell’ennesima cisterna di raccordo. Ad attenderla stavolta c’era una specie di cunicolo in cui sarebbe passato un cane di taglia media. Si inginocchiò per spingervisi dentro e procedette piantando i gomiti a terra. Nonostante fosse stretto, Caterina era magra abbastanza e in pochi secondi fu dall’altra parte. L’improvviso cattivo odore la obbligò a coprirsi il viso con la manica mentre il cono di luce rivelava una camera circolare a cupola con un buco nel centro del soffitto. Una serie di scalini scavati nel muro arrivava fin su. Anche in mezzo al pavimento c’era un buco della stessa grandezza, circa un metro di circonferenza, ed era da lì che proveniva l’effluvio delle acque nere.

Puntò la luce sull’intersezione tra mura e pavimento e fece il giro completo della stanza. A poca distanza dall’imboccatura del tunnel da cui era arrivata strisciando c’era una crosta bianca grossa come un piatto e spessa un paio di centimetri. La toccò con l’indice. Era dura e opaca, ma grattando con l’unghia un pezzo si staccò. Era cera, e nella superficie indurita si scorgeva la miriade di puntini neri degli stoppini.

Si drizzò e fece un giro su se stessa illuminando tutt’attorno. Niko era stato lì? Erano sue quelle candele? Non c’era modo di saperlo. Prese il coltello multiuso, una bustina per i reperti e staccò tutta intera la cera riponendocela dentro. Poi raggiunse la scala scavata nel muro. Era ripida e scivolosa. Si arrampicò e, benché non fosse più in allenamento, sentì i muscoli delle braccia e delle gambe rispondere bene.

Quando fu in alto infilò le dita nelle fessure del tombino e spinse forte. Non abbastanza per sollevarlo. Riprese il coltellino e, tenendosi con una mano alla scala, scavò con la punta della lama tutt’attorno alla superficie di ghisa. Sudava e le doleva l’avambraccio, ma dopo alcuni tentativi il tombino si mosse.

Lo sollevò con l’ultimo sforzo e senza pensarci ficcò la testa nel buco. La luce del giorno la accecò per qualche secondo. Appena recuperò la vista salì di un altro passo sulla scala e si ritrovò a mezzo busto sul livello della strada di fronte a una cancellata che racchiudeva un giardino. Emerse completamente per ritrovarsi su una strada lastricata di sanpietrini. Si sbrigò a rimettere a posto il tombino, si spolverò come meglio poté e avanzò verso il cancello.

Le tracce di sangue proseguivano oltre l’inferriata. Sopra campeggiava una targa: MONASTERO DI CLAUSURA SANTA LUCIA IN SELCI. Caterina posò le mani sul ferro e si appoggiò. Era socchiuso. Si guardò attorno, non passava nessuno. Spinse lentamente, sperando che il pesante battente non cigolasse, ed entrò.

Le foglie pennate di una palma facevano ombra a un orto e a una piccola serra. Una Madonna guardava un trono su cui era seduta un’altra donna, che doveva essere santa Lucia, vestita di rosso, con un ramo di palma stretto in mano e un piattino. Regnava un silenzio surreale, considerando la vicinanza con strade trafficate come via Cavour e via Merulana. Caterina avanzò piano, seguendo le gocce di sangue che si arrestavano di fronte a tre scalini e a un portone di legno stretto, non più largo di un metro ma alto quasi tre.

Quando si trovò faccia a faccia con il battente arretrò lentamente. Sopra il grosso anello di ferro, il pannello di legno scuro rivelava una figura incisa in superficie. Era visibile solo da una distanza ravvicinata. Insieme ignota e conosciuta.

Incongrua e spaventosa.

A pochi metri, una fronda vibrò attraversata da un brivido d’aria, seguita dal ronzio del cellulare. Caterina lo prese per silenziarlo e vide l’ennesimo sms di Walter: «Devi venire!»

Non avrebbe tergiversato ancora. Infilò il telefonino in tasca e scomparve dietro il grande cancello di ferro, lasciandolo aperto.