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Qui un uomo aveva tana,
un mostro, che greggi
pasceva, solo, in disparte, e con gli altri
non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto.
Omero, Odissea
Sfumata dalla foschia, una luna gravida fatica a spargere i suoi raggi di cotone tra le giostre del vecchio parco giochi. Oltre le barriere, un groviglio di caroselli ossidati e l’intrico meccanico dell’erba. Un cimitero di mostri d’alluminio e cartapesta, dove sorge l’anello della ruota panoramica, macchiato di gemme rugginose. La forza meccanica che la muoveva si è spenta sotto gli strali dell’acqua e dell’ossido di ferro che ancora la mangia. Le gomme pneumatiche sonnecchiano sulla cerchiatura dell’enorme volano. Delle ventiquattro cabine, solo nove sono al loro posto. Le altre riposano esauste ai piedi dell’attrazione. Rosse, gialle, viola, uova spaziali per piccoli viaggi intergalattici trasfigurate in squallidi nidi di fazzoletti, preservativi e siringhe. Un campo di battaglia, settantamila metri quadrati di elicotteri distrutti e carrarmati divorati dalla vegetazione. La stucchevole fragranza dello zucchero filato disfatta nell’olezzo di urine ed escrementi.
Si muove, il pusher. Malgrado la benda fissa sull’occhio per cui deve ringraziare quello stronzo del magrebino, è così che si fa chiamare nel giro il collega che gli ha fatto il servizietto con il coltello, non ha difficoltà perché conosce questi anfratti come se ci fosse nato. Non c’è ferro né trappola vegetale su cui possa inciampare. Sorride alla ruota panoramica, i raggi fitti e sottili come quelli della sua vecchia bici blu. Ogni volta che ci entra riconosce l’eco sinistra del luogo. Da piccolo questo posto lo spaventava, gli faceva sentire i brividi anche di giorno, quando passava per i cancelli colorati tenendo la mano del padre. Gli si stringeva alla gamba mentre erano in fila alle montagne russe, ricorda ancora il nome favoloso, Himalaya, assaporando l’eccitazione del volo. Ma anche da grande, quando il sabato marinava la scuola e si rifugiava tra la vegetazione a fumare, avvertiva un’inquietudine sospesa.
Non era un parco per famiglie, era un posto pieno di passaggi spaventosi. Ogni scenografia, ogni gioco, ogni angolo era ammantato da un’aura sinistra. Un luogo che insidiava, sfidava ad affrontare le urla lugubri che uscivano dai pupazzi di cartapesta. Gli altoparlanti frusciavano per attirare i bambini sulle giostre e poi la disco anni Ottanta, le luci stralunanti, i fumi delle attrazioni frammisti all’odore di cibo fritto.
Sono passati tanti anni da allora. Suo padre è morto suicida e il pusher ha smesso di studiare, è partito per la Thailandia, si è sballato per bene, e ora quello sballo chimico lo vende. Cinquantacinque anni buttati al cesso, pensa, ma poi pesca nel sacchetto salvavita quel che occorre per mettere giù una riga ed è fatta, la memoria si azzera. Le narici se l’è mangiate la polvere bianca, ha sbranato il setto e s’è insinuata fino al palato sgretolando l’osso mascellare. A volte, quando tira su col naso sente il palato vibrare, penzoloni, molle come una spugna attaccata allo scoglio.
Stasera è all’ultimo giro. Domani si riparte dal Pigneto. L’aria è fredda e lui, il pusher, infila la mano nella tasca interna della giacca e sfila una fiaschetta di metallo, la apre, la solleva e beve forte. Guarda l’ora per l’ennesima volta. Il tipo che aspetta è in ritardo. Altri cinque minuti e se ne andrà. Però quel posto ha un’anima nera.
Avanza, supera la villa e raggiunge il vecchio treno sul laghetto, la locomotiva e l’ultimo vagone sono la testa e la coda di Nessie, il mostro di Lochness. Lo specchio d’acqua è verde e il pusher attraversa la torre di cartapesta per ritrovarsi di fronte alla casa dell’orrore, quella con le enormi sagome del ragno e del gufo, le zampe pelose, gli occhi sporgenti. La peggiore di tutte, l’irresistibile incubo di tutti i bambini, perché si entrava a piedi e le cose ti sfioravano animandosi. E perché suo padre non lo accompagnava mai.
Le gambe vacillano mentre raggiunge l’entrata. È lì l’appuntamento. Ma quello che incontra è l’incubo che emerge dalla sua memoria di ragazzino. Rivede il pavimento della casa dell’orrore che traballa mentre lui si volta in cerca di papà. Che però non c’è più, è andato a fumare e a fare due passi. Si sente perduto, Stefano, e vorrebbe tornare indietro, nelle orecchie il rumore delle ganasce della nave pirata, i pistoni del Tagatà e la musica delle giostre dei piccoli. Però lui non è più piccolo, si dice mentre è accucciato per terra, da solo, nella casa buia. Si rialza e respira con la bocca aperta. Forza, si dice. Ma quando dalla parete lo afferrano due mani scheletriche dà di matto, scalcia, piange, corre via. Sbatte contro le sbarre di ferro e le luci rosse lampeggiano dal basso. Un corpo decomposto si stacca dalla tomba, lui non sa più che fare, è perso nel gioco macabro, nell’orrida finzione delle mura di cartone. Non c’è verso di frenare la vescica che si libera mentre lui corre verso l’uscita. Fuori c’è papà ad attenderlo con un grande sorriso, ma quando lo vede in lacrime, i pantaloni di velluto rigati dalla pipì, lo accoglie con uno schiaffo che lo riporta alla realtà. Alla vergogna di sentirsi inadatto. Alla paura del buio. E delle cose che nasconde.
Anche adesso il pusher tenta di vincere il panico mentre si addentra nella casa dell’orrore dove ha il solito appuntamento. Calcia una lattina che rotola via e sbatte su una pila di paletti per ringhiere. Sono stati tutti divelti dal prato dove restano dei buchi profondi ma non più grossi di una grossa moneta. Qualcuno li ha accatastati per usarli come legna da ardere.
Stefano si guarda attorno, nervoso, scuote il polso per liberare il quadrante del piccolo Casio dall’ingombro della manica. Aspetterà altri cinque minuti e basta, si dice, ma sa bene che senza i soldi stasera non può rientrare a casa dove lo aspettano i pezzi grossi, perché lui è solo l’ultima ruota del carro. Si accende una sigaretta e quando il fumo si alza e l’odore del tabacco si spande e lo avvolge, lui riconosce in sé un altro uomo. Suo padre. Il medesimo gesto con la testa, gli occhi serrati per evitare il fumo, l’identica boccata d’aria bianca.