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Roma, Questura centrale
Giulia era arrivata in Questura per evitare che Gugliotti, schiacciato nella morsa tra stampa e politica, togliesse il caso a Mancini. Ma dentro di sé temeva che l’uomo subodorasse qualcosa di quello che stava accadendo tra lei e il commissario. Le voci correvano rapide nei rispettivi ambienti professionali, ed erano in molti a non apprezzare i due soggetti in questione.
Il questore sembrava infastidito dall’argomento e, insieme, compiaciuto per la visita della pm, a cui aveva sempre fatto una corte silenziosa. «Mancini non sta ottenendo i risultati necessari», tagliò corto.
«Dopo quello che è successo al professore, abbiamo accelerato», rispose Giulia ravviandosi i capelli con un gesto che lo distrasse.
Si era settata sulla «modalità lavoro» e cercava di parlare esattamente come l’uomo che aveva di fronte. Sperava che Gugliotti non sapesse che fino a quel momento lei aveva decisamente latitato dall’indagine. «Le faccio notare che la nuova pista dei capelli biondi rinvenuti sia sulla scena del crimine nelle fogne che nella Casina delle Civette può risultare determinante», mentì.
Gugliotti, che si era affacciato alla finestra, si voltò di scatto. «E perché il commissario non me lo ha riferito?»
Giulia fece due passi incontro al questore e indossò un sorriso conciliante: «Sta seguendo la pista calda, tra poche ore riferirà direttamente».
«Dottoressa, io so solo che lo Scultore è là fuori e si sta godendo molto più dei canonici quindici minuti di celebrità! Mancini deve stanarlo perché la tv ha fiutato l’affare. Stanno coprendo la notizia con servizi, opinionisti e stronzate del genere. Lo sa quanto pagano gli sponsor per queste cazzo di trasmissioni?»
«Si fidi di me. È in attesa dei responsi dell’analisi del DNA del capello e oggi sapremo dall’AFIS se le impronte trovate nella tana di Scilla e nell’appartamento della Sirena riconducono a una scheda criminale.»
Giulia uscì dall’ufficio di Vincenzo Gugliotti all’ultimo piano della Questura centrale. Una volta in strada, prese il cellulare.
«Enrico», disse appena Mancini ebbe risposto. Era strano sentire la sua voce per telefono dopo tanti giorni di silenzio. «Abbiamo qualche ora, fino a domani credo che se ne starà buono. Ma datevi da fare.»
Prima di partire, Mancini era passato dall’ospedale. Aveva fatto le scale di corsa in preda a un presentimento carico d’ansia. Invece i medici avevano confermato che la situazione del professore era stabile per via del coma farmacologico indotto. La buona notizia era che Biga era fuori pericolo. Quella cattiva che durante i minuti in cui era rimasto sul divano a dissanguarsi, la mancanza di ossigeno al cervello aveva prodotto dei danni.
«Quando i neuroni non ricevono ossigeno per nutrire i processi cerebrali è come se si togliesse la spina al cervello. E in effetti accade proprio così, commissario», aveva detto il primario del reparto di Neurologia.
Mancini si era affacciato nella stanzetta e aveva trovato la bocca del professore coperta dalla mascherina per l’ossigeno, la maglia aperta sul petto con gli elettrodi per l’ECG e delle piccole ventose sulle tempie. La faccia consumata dal dolore, bianca e scavata come non lo era mai stata.
«Venendo meno l’attività elettrica del cervello, sopraggiunge la morte biologica. Nel caso del nostro paziente ciò non è accaduto per puro miracolo», il primario si era toccato la croce al collo con la mano destra e aveva sollevato lo sguardo al cielo, «ma non possiamo sapere quali danni ha riportato finché non lo faremo uscire dal coma farmacologico.» Poi si era segnato.
Mancini aveva seguito il movimento, alto-basso-sinistra-destra, della mano, e si era ritrovato a pensare che il professore, da vecchio mangiapreti qual era, al posto suo avrebbe fatto una serie di scongiuri poco ortodossi.
«Dall’istante in cui il sangue smette di fluire al cervello restano una manciata di secondi prima della perdita di coscienza. Da quel momento possono passare diversi minuti prima che arrivi il decesso, minuti terribili e scanditi da sensazioni di vuoto e di orrore.»
Il primario aveva pronunciato quella lunga frase tutta d’un fiato e con una certa soddisfazione, aveva pensato Mancini allontanandosi.
Sul pick-up, Comello e la dottoressa Nigro attendevano in silenzio. Sul sedile posteriore, scomodo e tutto strappato, lei fissava le pozzanghere che iniziavano a punteggiarsi di pioggia. Walter, al posto di guida, digitava un sms a Caterina.
«COME STA ALEX?» aveva scritto Cate.
«MAH...» fu la risposta laconica di Walter.
Alexandra non sembrava entusiasta di quella gita fuori porta, come l’aveva chiamata il commissario. Forse dipendeva da Antonio. Comello non capiva cosa ci fosse fra i due, ma era evidente che qualcosa era cambiato, almeno a sentire Caterina, che di quelle faccende s’intendeva più di lui. L’unico fatto certo era che entrambi i soggetti in questione negli ultimi giorni erano strani. Lei sembrava assente anche durante le riunioni, svagata, tesa. Innamorata? Gli sembrava impossibile che qualcuno si potesse innamorare di Antonio, ma si sa come vanno queste cose tra colleghi, e lui ne sapeva qualcosa. E poi, malgrado una certa grossolanità nel vestire e il buffo impaccio dei modi, Alexandra era proprio una bella donna, colta, intelligente.
Il rumore della portiera anticipò l’entrata di Mancini. Fece cenno con il capo a Walter, che accese e partì. Il commissario rimase a fissare il parabrezza fin quando non furono alla fine dell’autostrada.
Uscirono a Orte e presero la E45 per Terni e la provinciale, ma Mancini, perso tra pensieri, ipotesi e dubbi che gli riempivano la testa, non notò che la strada che li stava portando al convento di San Giorgio era la stessa che conduceva sulle sue montagne. Superarono il bivio per Polino e proseguirono tra le rocce e il verde intenso della Valnerina quando sulla sinistra incrociarono il cartello in legno che indicava il convento di San Giorgio.
Mentre avanzavano, Alexandra leggeva da Internet. «La comunità religiosa che soggiorna in questo convento è dedita a un francescanesimo minore. La struttura non offre ospitalità né affitta camere per ritiri spirituali. Fino alla fine dell’Ottocento era conosciuto semplicemente come Convento dei francescani minori, poi, quarant’anni fa, la confraternita decise di cambiare nome.»
«Come mai?» chiese Mancini.
«Pare sia successo quando il nuovo capo della congregazione si è insediato. L’ordine è rimasto lo stesso, quello dei frati francescani minori, ma il convento ha chiuso le porte e ha preso il nome di ’San Giorgio’.»
Walter stava forzando le marce ridotte per far avanzare il suo ronzino sui sassi scivolosi per la pioggia e le foglie di castagno che avevano coperto tutto di giallo. Il percorso girava attorno alla montagna e finiva contro una parete rocciosa alla base della quale, cinta da un bosco di lecci e betulle, si trovava una bassa costruzione circondata da mura merlate. Sul lato sinistro un campanile e dall’altra parte, preannunciato da uno sparuto gruppetto di cipressi, un minuscolo cimitero.
Venne ad aprire quello che sembrava un giovane con non più di vent’anni sulle spalle e già una bella barba scura ad ammorbidirgli il viso scarno e gli occhi sottili. Un pozzo romano dominava il centro dello spiazzo su cui alcuni frati stavano sistemando delle fascine.
«Polizia di Stato», disse Comello esibendo il distintivo.
Gli zigomi del ragazzo si colorirono di rosa. «Prego.» Spalancò il battente che sembrava quello di un castello tanto era massiccio, infine fece loro cenno di seguirlo. «Cosa cercate?» chiese in un fruscio.
Mancini alzò il bavero del trench per coprire la gola dal vento freddissimo che si era alzato. «Vorremmo parlare con qualcuno. Chi comanda, qui?»
«Il Padre superiore, ma adesso non può ricevervi. È occupato nella preghiera speciale fino a domattina.»
«Intanto ci faccia fare un giro lei, fratello», insistette Mancini guardandosi attorno.
L’aria pizzicava condensandosi in sbuffi davanti alle labbra dei quattro. Appena scesa dalla macchina, Alexandra aveva indossato un foulard scuro chiudendo il viso in una cornice che la rendeva diversa, pensò Walter, ma sempre molto bella. Il frate era in testa, e tutti avanzavano verso un’ampia aiuola squadrata. Era sopraelevata rispetto al pavimento di pietra grezza del piazzale e all’interno racchiudeva cinque alberi di cachi privi di frutti e delle larghe foglie ovali, glabre e colorate.
«Peccato che siano finiti», notò Walter. «C’era una storia secondo cui il cachi è una pianta presente nelle abbazie per l’immagine che si scorgerebbe una volta aperto il frutto a metà. Sarebbe quella del Cristo in croce», disse tutto contento e senza alcun imbarazzo.
Il frate lo studiò ma non rispose e continuò a camminare.
«Il suo nome in greco, diospyros, significa ’frutto degli déi’», s’intromise Alexandra con un indice sollevato in aria, a puntualizzare.
Per Enrico, l’odore dolciastro dei cachi era racchiuso in un unico nucleo emotivo assieme al vino novello che il padre stappava i primi d’ottobre, alle castagne «castrate», come diceva sua nonna, al tappeto di foglie su viale Adriatico, a Montesacro, giallo, arancione, marrone, e alle candele rosse che la mamma metteva sul davanzale della sala una settimana prima dei Morti. Era il sapore di una vita che aveva cancellato, quanto volontariamente non avrebbe saputo dirlo. Un’esistenza che aveva chiuso in un cassetto di cui aveva smarrito, o buttato?, la chiave.
Sulle fronde dei sempreverdi cominciarono a rintoccare le prime gocce d’argento di una pioggia sottile e tagliente. Affrettarono il passo con gli occhi al cielo basso, dove una nube svaporata nascondeva i tre picchi del monte.
«Cos’è la preghiera speciale di cui parlava?» domandò Alexandra al giovane frate che si era calato il cappuccio sul capo per ripararsi dall’acqua.
«È più una meditazione per ringraziare nostro Signore, per affidare a Lui le persone care e quelle che ne hanno bisogno. Infine per donare al nostro povero cuore la pace», disse il frate con una marcata cadenza umbra.
Si arrestò e gli altri lo imitarono, nonostante la pioggia si stesse infittendo. «Ecco. Qui c’è la chiesa, lì l’edificio centrale con la biblioteca e lo scriptorium, di là invece il refettorio e la cucina. In fondo, prima del bosco, il nostro cimitero.»
«Possiamo?» chiese il commissario indicando il portone centrale della chiesa, e senza attendere la risposta spinse il maniglione ed entrò, seguito dagli altri.
L’aroma del legno, della cera e dell’incenso li accolse come un abbraccio antico. Vicino al fonte battesimale dove si inumidirono le dita per farsi il segno della croce, tutti tranne Mancini, c’era una statua di legno che ritraeva san Francesco, rappresentato in una scena celebre tra quelle montagne. Di fronte alla sagoma del poverello piegata in avanti c’era un grosso lupo a cui il santo tendeva la mano in segno di pace.
«È la storia del lupo di Gubbio. Di come san Francesco lo addomesticò rendendolo amico della comunità.»
«’Fratello lupo.’» Walter lesse l’incisione sul basamento della statua.
Sulla parete di sinistra c’era un affresco del santo con l’angelo che gli annunciava la remissione dei peccati. Le mura della chiesa emanavano un freddo spettrale e i quattro percorsero la navata centrale facendosi strada tra i banchi. Tutt’attorno incombevano gli stalli del coro in noce, il leggio e il supporto di una grossa lanterna di vetro giallo che illuminava le pagine del libro corale. Sopra l’altare si trovava un crocifisso scolpito dai falegnami del convento. Era sospeso in alto da due tiranti d’acciaio e il giovane frate vi s’inginocchiò dinnanzi, poi si rialzò segnandosi ancora e fece per allontanarsi quando Mancini, vicino al pulpito sul lato sinistro dell’altare, gli chiese a bruciapelo: «Come mai san Giorgio?»
Il giovane religioso, le palpebre a mezz’asta, si voltò osservando il braccio steso del commissario che indicava un grosso dipinto sulla parete: un cavaliere vestito di nero, aureola dorata, sopra un cavallo bianco bardato, un drappo arancio come la lancia che affonda poco più in basso nel petto di un drago sanguinante.
«È uno dei santi martiri difensori della cristianità. Come il nostro Francesco, donò tutto ciò che possedeva ai poveri e, davanti alla corte dell’imperatore Diocleziano che gli chiedeva di riconoscere gli dèi pagani, si professò cristiano.» Lo sguardo del giovane si fece severo, Walter avrebbe detto crudele, la timidezza goffa e spaurita di poco prima era svanita. «Fu battuto, lacerato e lasciato a morire in carcere. Lì vide nostro Signore che gli preannunciò sette anni di supplizi a cui sarebbe stato sottoposto, tre volte sarebbe morto e altrettante resuscitato. E così accadde quando Diocleziano ordinò che fosse spezzato a metà sopra una ruota chiodata.»
Le parole del frate erano caricate da un’evidente nota di fastidio singolare per un uomo di Dio, ragionò Walter.
«Se non sbaglio, questa è una copia di un dipinto di Gustave Moreau. Come mai proprio questa tra molte più classiche e cristiane?» fece il commissario.
In quell’istante, dalla porta a vetri nella navata di destra spuntò un’alta figura che si trascinava dietro uno strano saio, lungo e completamente nero. Il giovane confratello si produsse in un lungo inchino davanti alla figura che incedeva avvolta da un’aura incantata. Era un uomo alto e magro, lo si indovinava dalle spalle che premevano sul saio e dall’ovale che spuntava dal cappuccio. Quando lo lasciò cadere all’indietro, Mancini si ritrovò a fissare un volto ossuto, lo sguardo intenso dei grandi occhi azzurri, la calvizie totale che rivelava una lunga scala di rughe, le labbra sottili e la pelle chiara e puntata di bianco sul mento. L’impressione era quella di un uomo cui non difettava un’intelligenza spiccata e una certa severità dei modi.
Prima che il giovane potesse presentare i visitatori, o che lo facessero da soli, il Padre superiore si segnò tre volte con il pollice sulla fronte scrutando il crocifisso pendente, poi si voltò con un fruscio delle vesti: «’Non credo né a quel che tocco, né a quel che vedo. Non credo che a quel che non vedo e solamente a ciò che sento’».
«Gustave Moreau.» Mancini indicò la tela con san Giorgio e il drago. Moreau era una delle grandi, grandissime passioni di Marisa e alla fine anche lui se n’era interessato e lo aveva studiato assieme a lei, perché ogni passione di Marisa richiedeva studio. E insieme avevano trascorso un fine settimana a Parigi nell’omonimo museo, lei che prendeva appunti, lui fermo a fissare quella tela.
«Mi chiamo Bernardo, sono il Padre superiore di questo convento. Pace e bene.»
«Pace e bene», rispose il giovane frate genuflettendosi per l’ennesima volta.
Walter assentì, la dottoressa Nigro e Mancini non batterono ciglio e, uno dopo l’altro, si presentarono.
«A cosa dobbiamo la visita della polizia tra queste sante mura?» Con un ampio movimento del braccio sinistro il Padre superiore invitò gli astanti ad avvicinarsi alla tela.
Sotto la riproduzione del celebre dipinto di Moreau c’era un basamento in legno di noce su cui erano incise due righe:
Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago. Se abbraccerete la fede in Cristo, riceverete il battesimo e io ucciderò il mostro.
«È un estratto dalla Legenda Aurea, del frate domenicano Jacopo da Varazze, di cui conserviamo un codice manoscritto nel nostro scriptorium. Riassume il valore inestimabile dell’opera di san Giorgio nel mondo.»
«La ricorrenza è il 23 aprile, giusto?» chiese Comello.
«È il giorno in cui venne barbaramente ucciso dai pagani, sì. Ed è quello in cui lo ricordiamo.»
Alexandra, il foulard attorno al viso, era intimidita dalla voce cupa che rimbombava tra le navate della chiesa.
«Lei non è di queste parti, da dove viene?» La domanda di Mancini suonò irriverente ma lui non se ne preoccupò e mantenne gli occhi ben dentro quelli dell’altro.
«Qui abbiamo confratelli da tutta Italia, commissario. Io stesso, come ha notato, vengo dal Veneto ma prima di trasferirmi qui sono stato tanti anni in Terrasanta.» Si produsse in un sorriso che gli illuminò il volto scarno. Emanava un fascino per niente genuino, tutt’altro che francescano, considerò Mancini, e non faceva nulla per nasconderlo.
«Come chiedevo al confratello, perché Moreau? Come mai avete scelto una rappresentazione così lontana dalla classica iconografia cristiana di san Giorgio, così diversa dall’immagine dell’eroe coperto d’argento e con lo scudo crociato?»
«Lei è un attento osservatore, commissario. Devo ammettere che è una mia debolezza, questa. Ho sempre amato il motto che animava tutta l’arte di Moreau.»
«Quello che ha citato poco fa.»
«Sì, esatto. È qualcosa che fa parte del nostro universo di fede e il fatto che quest’opera porti dentro di sé un po’ di quel principio mi piace. E insieme alle parole di Jacopo da Varazze costituisce uno dei due fondamenti di questa congrega.»
«Ma i francescani non mettono la povertà alla base di tutto? Insomma, la storia del poverello d’Assisi...» s’intromise Comello.
«In realtà, noi trentatré facciamo parte di un ordine minore, in un certo senso più libero, degli antichi ordini francescani.»
Un eretico, pensò Mancini lanciando un’occhiata ad Alexandra Nigro.
«Il nostro motto resta sempre e comunque ’pace e bene’ e le caratteristiche spirituali del nostro ordine sono la carità verso il prossimo, l’umiltà, la sobrietà, la semplicità e la ’perfetta letizia’.»
«E con la storia del drago?» ribatté Mancini. «Devo aver letto qualcosa sul senso e sul rapporto tra uomo e bestia. Il drago incarna la figura del mostro, la personificazione dell’oscurità e dell’ignoto. Il drago non è forse la sintesi, il simbolo stesso di tutti i mostri?»
«È una lettura possibile, commissario. Ma perché me lo chiede? Mi dica, cosa è venuto a cercare quassù tra queste montagne solitarie?»
«Siamo venuti per avere notizie di un oggetto.»
«Che oggetto?»
«Un cordone. O meglio un cingolo. Lo chiamate così, mi pare.»