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Sulla bocca dell’antro se li divorò,
che gridavano
e mi tendevano le mani
nell’orrendo macello [...].

Omero, Odissea

 

Centinaia di macchie palustri punteggiano la superficie del parco dell’Aniene. Seicento ettari nel comparto nord-est di Roma popolati di querce e rovelle. Sul ciglio erboso del fiume, tra i salici e i pioppi, vivono i pendolini, nei loro nidi a fiaschetta. Nascoste dai cespugli di tifa e cannuccia, istrici e talpe palustri scavano le loro tane.

Più a sud, a poche centinaia di metri dal cuore di Montesacro, s’incontra un’oasi di bellezza arcadica. Sotto l’arco del Ponte Nomentano scorre, immobile, l’Aniene, ciuffi di papiri e sambuchi riflessi nelle acque brillanti di vita. Sul fondo limaccioso dimorano i granchi di fiume, con i loro carapaci grigioverdi, le striature gialle luccicanti, le chele magenta. Nascosti all’olfatto delle volpi, si cibano di lombrichi e pesciolini.

Sopra di loro, l’incombente struttura del ponte. I blocchi di tufo e i merletti ne fanno una piccola fortezza, un castelletto con la torre sulla sponda sinistra del fiume. Le caditoie, le botole, i portelli nascosti.

La donna sepolta quattro metri sottoterra, nella buca delle vecchie pompe idrauliche, ha paura di morire. Legata al tubo di scarico, lei sa che sta per arrivare il suo momento, ma non saprebbe dire quanto tempo sia trascorso da allora. Lei era nel parco in cerca dei suoi «bambini», come chiama i suoi cuccioli. Erano scappati mentre chiacchierava con un’amica, aveva perso il senso del tempo e quando si era accorta che non le giravano più attorno era troppo tardi. Aveva cercato nel rudere in fondo al parco, armata della luce di sicurezza del cellulare e di un coraggio del tutto posticcio. Non ricordava come ma la testa si era spenta, come se un interruttore le avesse tolto, di colpo, l’elettricità vitale. E si era svegliata lì dentro. Adesso, a quattro metri sottoterra, esala un lamento, ma invece della voce da anziana quello che le esce dalla bocca imbavagliata è un uggiolio.

Dopo il suo, lì sotto, echeggia un altro guaito.

Si volta nella direzione del verso, incredula mentre guarda uno dei suoi piccolini che credeva perduto. Riconosce Lola dal collarino rosa. La cagnolina si avvicina e si struscia sul ginocchio, scodinzolando, felice di rivedere la sua padrona. Anche la donna è felice, finché quel lampo di gioia che le illumina il viso si spegne.

Ma gli altri?

Nell’angolo da cui è venuta Lola scorge una montagnola di quelli che sembrano stracci ammucchiati. Non vede bene. L’unica luce cala dal buco della serratura che chiude la botola, ma è poco più che un raggio.

La donna sepolta quattro metri sottoterra ha provato a liberarsi, ma la corda che la tiene legata al tubo non cede. Forse perché è resistente, o forse perché è lei a non avere più le forze. I suoi bei pantaloni blu sono stracciati e la camicetta di seta bianca ha perso i preziosi bottoni perlati.

Quel vuoto le sembra così simile a quello che riempie le sue giornate da tanto, troppo tempo. Da un anno e mezzo. Dal giorno in cui Anna non c’è più. Da quel pomeriggio in cui è volata in cielo lasciandole la nipote come unica testimonianza del suo passaggio sulla terra. Da allora, l’amore per quei cuccioli è cresciuto fino a radicarsi dentro di lei diventando un punto di fuga. Perché la verità è che lei non riesce ad amare sua nipote come dovrebbe, come la figlia di sua figlia. Perciò ha continuato a comprare quei simpatici cagnetti e a occuparsi di loro con un trasporto inimmaginabile. E di questo quasi si vergogna, di questa ossessione, perché sa che le serve per non fermarsi a pensare al dolore degli ultimi giorni con Anna. E per evitare la nipote che gliela ricorda troppo.

Improvvisamente si sente stanca, ha voglia di abbandonarsi a quel torpore e all’umido senso di vuoto che stipa l’ambiente oscuro. Lola ne approfitta e le si accuccia vicino, in silenzio. Subito si risolleva e torna da dov’è arrivata, vicino al mucchietto di stracci. Ritta sulle quattro zampe inizia a ringhiare e si alza sulle posteriori abbaiando contro la botola, che si sta aprendo.

Un tintinnio e si solleva del tutto.

Invece di provare a gridare, di approfittare dei secondi in cui tra il mondo di sopra e quello di sotto si schiude quel piccolo varco, la donna resta ferma, muta. Anche Lola smette di abbaiare, gli occhi vacui, bagnati. Una figura scende lungo la scala di ferro, chiude la botola e si lascia andare atterrando vicino al mucchietto di stracci. La donna fa appena in tempo a tirarsi a sedere.

La donna e la cagnetta sono statue di ghiaccio mentre il silenzio conquista ogni centimetro quadrato della prigione. Il ragazzo con gli occhi di cielo non le guarda nemmeno, si china accanto al mucchietto e inizia a trafficare. La donna non riesce a vedere, ma c’è qualcosa in quegli scatti che le dice di tremare, di avere paura. Paura di quello strano fruscio, un suono che non le è sconosciuto, una, due, tre volte, lento e ritmato. Poi l’uomo si volta e la fissa con uno sguardo assente, illuminato dal sottile cono di luce che penetra dalla serratura lassù.

Resta così, a guardarla, per un minuto, il respiro che quasi si ferma. Squadra la sua camicetta, e lei sente quegli occhi d’acciaio perforarle l’ombelico. Il suo boia sposta lo sguardo da destra a sinistra come se stesse... misurando qualcosa. Abbassa il capo su Lola, che pare imbalsamata dalla paura. Lui avanza e toglie il bavaglio alla donna. È terrorizzata, sa che non urlerà. Ma deve essere perfetta. Si china e raccoglie il cagnolino, gli stringe la bocca tra indice e pollice e ritorna a trafficare dietro alle pompe mentre il fruscio riprende.

Il tempo scorre scandito dal sangue che rimbomba dentro ai timpani della vecchia signora. Batte fino quasi a esplodere quando un grido, un guaito, soffoca il silenzio.

L’uomo dagli occhi di ghiaccio si rialza dall’angolo.

La mano regge qualcosa che la vecchia signora vede a malapena perché le lacrime gonfiano tutto. Lui la butta davanti a sé, quella cosa. Allora la donna si accorge che lì, per terra, non c’è più niente. Il mucchio di stracci è scomparso.

Adesso è lì, di fronte a lei.

Il ragazzo con gli occhi di cielo si è fermato, ma stavolta ha steso le braccia davanti al viso. Tra i pugni serrati un grosso filo sostiene sei oggetti, come perle di una collana gigantesca. Dall’ultima perla gocciola del liquido denso.

Quando le pupille affaticate della donna riescono a mettere a fuoco il manufatto e si abbassano al suolo, sugli stracci, ormai è troppo tardi.

La trasformazione è già iniziata.

E il mondo cambia ancora.

Là sotto, nell’alloggio delle pompe di deflusso, le tubature che salgono dal pavimento e si perdono nel soffitto divengono stalattiti e stalagmiti della piccola grotta di Scilla. Intorno è tutto scuro e lui procede piano, il panico domato, messo a tacere, mutato nella rabbia omicida che riporterà tutto all’ordine. Prova a chiudere gli occhi e l’olfatto prende il sopravvento. L’acredine dei muschi sul ferro si trasforma nell’aspro aroma della salsedine. Il suo cervello sconvolto traduce il dolce sentore delle muffe nell’odore del sangue dei marinai sbranati dalla ninfa maledetta. Tutto insieme, quel misto di aromi penetra le cavità nasali e precipita dentro i polmoni.

Un ronzio gli scuote i timpani. Il motore della vecchia pompa che stacca e riattacca non è altro che l’infinito moto della risacca. Ecco, l’uomo solleva il sipario delle palpebre e svela gli occhi del cacciatore. Freddi, scrutano tra le onde che s’infrangono sugli spigoli rocciosi, il vapore delle valvole idrauliche è un muro di schizzi contro la costa. Alla fine la avvista; acquattata nell’angolo cieco della spelonca, gli occhi folli di furia marina, c’è Scilla. È in attesa. Ha fame, brama di uomini. Il cacciatore si muove sguainando la piccola lama affilata. Due passi a destra, poi scatta in avanti.

Il mostro è lì, la bocca spalancata vomita il sangue delle sue vittime. Le dodici serpi che le fanno da gambe le permettono di spostarsi velocemente, ma lui è più rapido. Si muove tra i massi acuminati. La mano destra si abbassa contro la bestia, ma deve ritrarsi dalle fauci che cingono la vita di Scilla. Sei rabbiose teste di cane. Il cacciatore affonda di nuovo, un poco più in basso, e la lama carezza il ventre del mostro.

Come i petali della bella di notte, la pelle della donna rivela uno strato di carne chiara, poi l’ammasso sgusciante delle budella. L’olezzo delle proprie interiora la fulmina come una rivelazione scatenando l’ultimo spasmo di luce. Anna è lì, la vede, in attesa, nell’angolo tra i tubi. La aspetta per portarla con sé. Finalmente. Ma un pensiero l’atterrisce un attimo prima che le dita del fantasma di Anna la sfiorino.

Sua figlia non l’avrebbe mai perdonata.

Il cacciatore sferra un colpo alla gola. E subito un altro. La lingua di Scilla, a brandelli, si abbassa per gridare. Nessuno la sentirà, il cacciatore lo sa. Perché quell’urlo solamente immaginato è l’ultimo spasmo di vita che le resta.